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Le rivolte e le riforme dell'Italia ( anni '60/ 70 )


Due sono le questioni di rilievo che emergono dal bilancio dei turbolenti anni 1968 – 1973. La prima riguarda le speranze e le aspirazioni degli studenti e degli operai nel biennio 1968 – 1969, che intendevano compiere una trasformazione rivoluzionaria nella società e nella politica italiana, poi fallita. La seconda riguarda le riforme e il periodo 1969 – 1973, anch'esse fallite, dato che le forze progressiste italiane, col movimento sindacale in testa, non riuscirono ad ottenere che limitate ed occasionali soddisfazioni alla loro richiesta di riforme collettive. Perché questi due fallimenti?
Per il primo evento è abbastanza facile rispondere tirando fuori le deficienze degli stessi rivoluzionari. La strategia e l'azione dei gruppi rivoluzionari costituirono una risposta inadeguata alla richiesta di direzione politica che proveniva dal movimento degli studenti e degli operai. I gruppi erano settari, dominati da modelli rivoluzionari terzomondisti, incapaci di trarre conclusioni realistiche dai segnali che venivano dalla società italiana. I gruppi furono il riflesso della crisi e della frammentazione del movimento rivoluzionario su scala mondiale. Se era difficile accorgersene allora, avendo di fronte Cuba, Vietnam e Rivoluzione culturale cinese, dieci anni dopo era abbastanza evidente.
Eppure gli errori dei rivoluzionari non costituiscono da soli una risposta plausibile. La maggior parte della classe operaia non era né militante né competente, un po' per la tradizionale fedeltà ai partiti storici della sinistra e ai sindacati, un po' per le condizioni oggettive dei giovani operai, diverse da zona a zona, un po' per l'incapacità dei giovani di dare concrete alternative a sostegno di ciò che era espresso a parole. È comunque vero che la società italiana stava diventando più urbana e laica ma non per questo si stava avvicinando ai valori sessantottini; si affermò, invece, l'individualismo e il ruolo della famiglia. La modernizzazione italiana, come quella di altri paesi, non si basò sulla responsabilità collettiva e sull'azione comune ma sulle opportunità che offriva ai singoli nuclei familiare di migliorare il loro livello di vita. La frammentazione del gruppo operaio, condotta dalle industrie attraverso il decentramento produttivo, fu l'ennesimo colpo. Corso Traiano, insomma, fu l'eccezione e non la regola. Il Sessantotto, comunque, lasciò segni importanti.
Parlando del problema delle riforme, il fallimento sembra più difficile da spiegare. Le linee prevalenti dello sviluppo italiano non precludevano il tipo di razionalizzazione proposto dai riformatori, anzi. I bisogni familiari venivano sempre più soddisfatti ma le istituzioni e le strutture pubbliche non vennero mai trasformate in senso moderno né si pose freno ai peggiori eccessi di uno sviluppo non programmato. Erano i riformatori stessi i responsabili del fallimento? Non 'è una risposta univoca al quesito. Erano senza dubbio più forti dei loro predecessori del 1963 ma dovevano fare a meno dell'energia dei giovani che per la maggior parte si ponevano obiettivi più di carattere globale.
Non meno significativa fu la mancanza di iniziativa politica dimostrata in questi anni dal PCI, che pure aveva militanti che partecipavano attivamente alle lotte sindacali della CGIL. Il suo immobilismo derivava dall'invidia per la ritrovata autorità sindacale a livello politico, dall'ossessione dei gruppi rivoluzionari che minacciavano di togliere loro la poltrona e dal timore di perdere l'elettorato moderato. I socialisti, come abbiamo visto, fecero di più al governo, come la legge sul divorzio e lo Statuto dei lavoratori.
Il sindacato, grande protagonista di questi anni, ha molte cose a suo favore: introdussero i consigli di fabbrica e i delegati sul posto di lavoro, le 150 ore di diritto allo studio eccetera. Eppure anche il loro operato aveva dei buchi che avrebbero pagato cari. Rigidi nel modo di cooptazione, limitati agli operai senza essere capaci di mobilitare altre parti della società, inefficaci o poco numerosi al Meridione.
Non tutto comunque può essere affibbiato ai sindacati. Occorreva innanzitutto riformare lo Stato in sé, tra le cui pieghe burocratiche e istituzionali crescevano sempre più sprechi e inefficienze, oltre ad una burocrazia – mostro lasciata libera di agire senza una riforma efficace della pubblica amministrazione; il fenomeno dei residui passivi era quotidiano. L'episodio orrendo della Valle del Belice, nel 1968, né è la dimostrazione più tristemente efficace.

Tratto da STORIA CONTEMPORANEA di Gherardo Fabretti
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