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Le componenti diegetiche ed extradiegetiche di Cronaca di un amore - Antonioni -



Innanzitutto c’è una correzione di tiro assai sintomatica a livello di récit: quello che poteva sembrare un commento al di sopra e al di fuori dell’azione si palesa ben presto come la parola di qualcuno che abita la scena e che non appartiene neppure al novero dei protagonisti.
Non appena scopriamo che le parole off che in apertura di film avevano l’aria di una didascalia sono soltanto una battuta del dialogo, riduciamo ciò che sembra guidare la rappresentazione a uno dei tanti fatti rappresentati; abbassiamo cioè un elemento extra o metadiegetico a componente puramente diegetica.
Il narratore si rivela allora un personaggio qualunque: l’unica traccia del suo possibile incarnare le istanze che reggono il gioco sta nell’autorità con cui chiede a chi gli è di fronte di agire; egli ha in mano la partita – è un alter ego dell’enunciatore – solo in quanto trasferisce ad altri il mandato ricevuto.
Un tale gesto oltretutto ha l’effetto di promuovere un atteggiamento esattamente opposto al suo: come ogni detective, anche quello chiamato qui ad operare non punta a raccontare una storia, ma a scoprire le storie altrui. Di fronte a diverse foto di una donna, l’investigatore ripresenta l’ossessione tipica di chiunque si preoccupa di decifrare il mondo, e cioè il problema dell’identità di ciò che si ha davanti; cercare di riconoscere è dunque gia qualificarsi come narratore, e il detective, autentico narratario, da questo momento in poi dominerà il campo.
–Sul piano delle strategie d’enunciazione, l’avvio del nostro film disegna un conflitto tra due strutture opposte:
- la prima è fissata dalla parola – il film, scegliendo i modi dell’interpellazione, e spostando il proprio baricentro sull’interpellante, si coniuga per così dire alla prima persona –,
- la seconda è legata invece all’immagine – l’inquadratura d’apertura è soggettiva, e il film, modellato su di una ricezione, si trova così coniugato alla seconda persona –.
Parola/immagine, interpellazione/soggettiva; io/tu: grazie a questa frattura che attraversa queste prime battute del film di Antonioni, il narratore – quell’io che si affaccia nella voce – e il narratario – quel tu che filtra la figura – vivono in un apparente equilibrio reciproco2.
Ma lo stallo dura solo un attimo: mentre l’uso della prima persona non avrà seguito, mentre l’interpellazione resterà un fatto isolato, ci sarà invece un ritorno della soggettiva, e con essa di una rappresentazione piegata sul tu; il narratario approfitterà subito di questo prevalere di una struttura sull’altra: egli s’affaccerà nel film con i volti di chiunque funga da osservatore interno alla finzione, e, seguendo i destini della configurazione che meglio di tutte lo promuove, prenderà decisamente il sopravvento.
Ma converrà ben vedere questa vittoria della seconda persona. Se si eccettuano alcune inquadrature di puro passaggio puramente funzionali alla messa a fuoco di un dettaglio – semplici risposte a dei piani con valore di inserto: Matilde e la lettera che sta scrivendo; Enrico Fontana e il rapporto che ha sotto gli occhi; il padrone dell’agenzia investigativa e le foto che sta facendo passare1 –, ritroviamo delle soggettive vere e proprie, stilisticamente marcate in quanto tali, solo nel detective e nella coppia di amanti.
Dunque sono coinvolti due tipi di personaggi: chi per professione è alla caccia di indizi e chi vive un’avventura che lo costringe a interrogarsi; la particolarità di queste soggettive è che tutti e tre i personaggi hanno uno sguardo a dir poco strano: le loro occhiate esaltano i contorni delle cose, ma non ne afferreranno fino in fondo il senso.

Tratto da CINEMA di Nicola Giuseppe Scelsi
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