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INTRODUZIONE
Il presente lavoro è dedicato allo studio di uno dei profili fondamentali del dolo
nonché dell’intero diritto sostanziale: il momento dell’accertamento.
Sulla questione si sono scontrate due principali correnti di pensiero: da una parte
vi sono i sostenitori della concezione secondo cui il dolo possa essere
aprioristicamente presunto, prospettando un’espansione dell’ambito applicativo di
suddetto istituto; dall’altra, invece, coloro che ritengono il dolo una realtà
soggettiva e psicologica e che pertanto debba essere sempre accertato sulla base
di validi criteri probatori, ponendo così un esatto limite all’ambito applicativo di
tale elemento soggettivo, oltre il quale si aprirebbero scenari di responsabilità
colposa o preterintenzionale.
Allo scopo di fornire i mezzi necessari alla comprensione della tematica
concernente l’accertamento del dolo si procederà trattando primariamente
l’elemento soggettivo alla stregua di quanto disposto dagli artt. 42 e 43 c.p.;
verranno analizzate di seguito le principali modalità probatorie, elaborate dalla
dottrina, volte ad accertare la sussistenza del dolo. In relazione a quest’ultimo
punto la giurisprudenza ha espresso pareri contrastanti, in particolare nei casi in
cui il criterio di imputazione soggettiva venga identificato nel dolo eventuale.
Le problematiche relative alla controversa tipologia del dolo eventuale
rappresentano il fulcro del percorso argomentativo intrapreso: la disamina che
verrà compiuta sarà incentrata, infatti, sui profili accertativi che la dottrina ritiene
decisivi al fine di provare la sussistenza di tale tipologia di dolo.
Traccia fondamentale per la trattazione del tema è l’emblematica sentenza delle
Sezioni Unite riguardante la tragica vicenda dell’acciaieria ThyssenKrupp di
Torino. Essa costituisce un punto di svolta rispetto alla giurisprudenza passata,
ancora indirizzata verso una normativizzazione del dolo aperta ad ipotesi di dolus
in re ipsa ed all’impiego di meccanismi probatori presuntivi.
Ricalcando l’impostazione adottata dalla Cassazione verranno esaminate
dapprima le principali formule e teorie concernenti l’individuazione del dolo
eventuale ed il suo discrimen dalla colpa cosciente; successivamente si passerà ad
un’analisi dettagliata della vicenda ThyssenKrupp, riportando primariamente
quanto statuito nei primi due gradi di giudizio ed in seguito approfondendo
6
minuziosamente l’evocativo contenuto della sentenza emanata dalle Sezioni
Unite. In particolare verrà segnalato come, sul piano del diritto sostanziale, la
Corte abbia significativamente aperto la strada ad una nuova concezione
dell’istituto del dolo e al tempo stesso, sul piano del diritto processuale, abbia
indubbiamente favorito l’attività di accertamento di giudici ed interpreti
enucleando una serie di “indicatori” del dolo.
Infine, ci si soffermerà dapprima sui pareri espressi dalla dottrina contemporanea
in merito a tale deliberazione e di seguito si offrirà una breve trattazione delle
principali sentenze cassazionistiche successive alla vicenda Thyssen, volta a
valutare l’influenza della pronuncia delle Sezioni Unite sulla più recente
giurisprudenza.
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CAPITOLO I:
Il dolo nel diritto penale.
SOMMARIO: 1. Definizione normativa: teoria e struttura del reato. - 2. Oggetto del dolo. -
3. Coscienza dell’illiceità. - 4. Forme del dolo: intenzionale, diretto e alternativo. - 5. Il dolo
eventuale. - 6. Preliminari problematiche in merito all’accertamento del dolo.
1. Definizione normativa: teoria e struttura del reato.
Il dolo costituisce il titolo di responsabilità penale più grave e, nel contempo, la
forma di colpevolezza richiesta ai fini della perseguibilità del fatto preveduto dalla
norma penale, in difetto di espressa previsione legislativa che estenda la punibilità
del fatto a titolo di colpa o preterintenzione, come sancito dall’art.42 comma 2
c.p.: “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto,
se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo
espressamente preveduti dalla legge”.
Esso rappresenta inoltre un elemento costitutivo del fatto tipico
1
, dal momento in
cui la volontà criminosa assume rilevanza non in quanto tale, ma in quanto si
traduca in realizzazione.
Chi agisce con dolo aggredisce o pone in pericolo il bene giuridicamente protetto
in maniera più intensa di chi agisce con colpa, ed oltre a configurarsi come
minaccia nei confronti del soggetto passivo del delitto, egli risulta essere al
contempo una minaccia per la collettività
2
.
Ciò premesso, il codice, all’art. 43 comma 1 c.p., fornisce una nozione di delitto
doloso stabilendo che: “il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento
dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge
fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come
conseguenza della propria azione od omissione”.
Tale definizione potrebbe, però, destare alcune perplessità poiché, se da un lato
innalza a presupposti strutturali del dolo, previsione e volontà, dall’altro non
1
G. FIANDACA–E. MUSCO, Diritto penale, Pt. g.
6
, Bologna, 2009, 352.
2
W. HASSEMER, Principio di colpevolezza e struttura del dolo, in Arch. Pen., 1982, 48 ss.
8
soddisfa pienamente il lettore il quale, in base ad essa soltanto, tenti di individuare
in modo specifico elementi dai quali poter trarre conclusioni circa i confini del
dolo, l’oggetto del dolo e l’effettiva essenza di esso
3
.
Anzitutto, dalla norma in questione, si desume che a costituire l’elemento
soggettivo del dolo concorrono due componenti ossia: la rappresentazione, ovvero
la visione anticipata del fatto che costituisce il reato, ciò incarna il momento
conoscitivo; e la risoluzione, seguita da uno sforzo del volere diretto alla
realizzazione del fatto rappresentato, in questo caso si parla di momento volitivo
4
.
Questa seconda affermazione presenta una certa complessità; poiché non basta la
sola risoluzione ad identificare il contenuto doloso dell’azione, occorre che ad essa
consegua un impulso cosciente all’attuazione della condotta. Entrambi i momenti
sono concettualmente distinguibili, ma vanno necessariamente considerati in
reciproco rapporto, dal momento in cui una volontà non accompagnata
dall’elemento intellettivo finirebbe con l’essere cieca (“nihil volitum nisi
praecognitum”
5
); tale tesi, che assegna quindi una duplice dimensione al dolo,
mira a raggiungere un compromesso tra le due teorie o momenti, della
rappresentazione e della volontà, sopra citati.
Orbene è necessario specificare che quest’ultime derivano dalla definizione
strutturale del dolo incentrata sull’intenzione, secondo la quale affinché si possa
parlare di delitto doloso è essenziale che il soggetto agisca con la volontà di
conseguire un determinato risultato, che costituisce il fine della condotta
6
. Tale
lettura si scontra con la presenza di circostanze in cui si realizza un evento
accessorio, che non rappresenta né il fine ultimo, né il mezzo necessario per
ottenerlo, si vedano ad esempio i casi di dolo indiretto e di dolo eventuale
7
.
3
M. GALLO, voce Dolo (dir. pen.), in Enc. Dir., XIII, Milano, 1964, 750 ss.
4
F. ANTOLISEI, Manuale di diritto, Pt. g.
16
, Milano, 2003, 354.
5
G. FIANDACA-E. MUSCO, Op. cit., 354 ss.; sulla stessa linea Pedrazzi, il quale ha affermato
che: “Se non ci inganniamo il momento intellettivo si propone quale zoccolo duro del dolo, filtro
razionale senza cui non può darsi un volere consapevolmente indirizzato, ma solo un impulso cieco,
atto a fare affiorare gli strati profondi della psiche, ma non a ricollegare il soggetto al fatto”. Da C.
PEDRAZZI, Tramonto del dolo?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1267.
6
G. FIANDACA-E. MUSCO, Op. cit., 354 ss.
7
B. ROMANO, Diritto penale, Pt. g
3
, Milano, 2016, 349; a tal proposito sottolinea Pecoraro
Albani che la figura di dolo indiretto non può essere accolta nel nostro diritto poiché, dato il
principio di fondo in base al quale la volontà della causa implica di per sé la volontà dell’effetto,
non basta che l’agente abbia voluto l’azione, ma occorre che la volontà si riferisca all’evento, e se
questo non è desiderato non può essergli attribuito a titolo di dolo, neppure indirettamente. Da A.
PECORARO ALBANI, Il dolo, Napoli, 1955, 272.
9
Problematiche del genere hanno reso necessario scindere suddetta definizione
nelle due teorie della rappresentazione e della volontà che ora analizzeremo. La
prima prospetta una impostazione che tende a valorizzare il profilo intellettivo,
mentre la seconda attribuisce maggiore importanza al profilo volitivo, pur non
trascurando l’elemento psichico il quale è presupposto della volontà stessa. Il
dibattito fra i teorici si fonda, nello specifico, sulla determinazione di ciò che possa
essere oggetto rispettivamente di rappresentazione e volontà. Entrando nell’analisi
di dettaglio i sostenitori della teoria della rappresentazione ritenevano che il dolo
consista nella volontà della condotta e nella previsione dell’evento, in altri termini
la rappresentazione va intesa sia come desiderio di provocare un determinato
evento, sia come previsione di esso. Ulteriore concezione espressa da tali autori è
che la volontà potesse avere ad oggetto soltanto il movimento fisicamente
compiuto dal soggetto, ad esempio l’atto di premere il grilletto di una pistola al
fine di uccidere
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, mentre le alterazioni del mondo esterno provocate dalla condotta,
ad esempio l’evento-morte, potessero costituire solo oggetto di rappresentazione
mentale anticipata. Tuttavia la teoria sin qui enunciata porterebbe ad asserire che
per esservi responsabilità a titolo di dolo sia sufficiente la previsione, ciò
dilaterebbe oltre misura i confini del dolo facendovi rientrare anche i casi di colpa
cosciente.
D’altro canto i teorici della concezione volontaristica sostenevano che, nel
ricostruire l’istituto del dolo, fosse necessario focalizzarsi sull’elemento volitivo,
facendovi rientrare sia l’intenzione di realizzare l’evento che il consenso a che
quest’ultimo si concreti.
Il dibattito su quale teoria sia più attendibile resta ancora animato, in particolar
modo nei casi di accertamento processuale dell’elemento psicologico, il che spiega
la tendenza dei giudici a ricorrere a schemi di tipo presuntivo; non di meno nei
casi in cui ci si trovi a dover distinguere tra dolo e colpa
9
e proprio su questo
versante le due concezioni rivelano i rispettivi limiti.
In base a tali considerazioni emerge la necessità di abbandonare la rigida
distinzione tra le due teorie in questione interpretando il disposto dell’art. 43 c.p.
come un’unione di quest’ultime; così facendo si può asserire che l’intenzione del
8
G. FIANDACA-E. MUSCO, Op. cit., 353.
9
G. FIANDACA-E. MUSCO, Op. cit., 356.
10
soggetto agente, affinché abbia natura dolosa, richiede non solo una
rappresentazione, anche vaga, del fatto costituente reato, ma anche la
consapevolezza e la volontà di porre in essere l’azione penalmente rilevante
10
.
10
Con riferimento al requisito della consapevolezza la dottrina prevalente ritiene che il soggetto,
perché risulti punibile, deve essere cosciente dell’illiceità dell’offesa, che si manifesta nella
lesione, consumata o tentata, di un bene giuridico o di un interesse giuridicamente tutelati. (v. infra,
cap. I, § 3).