6
Art.3 “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua,
di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali. E’compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Art.4 “ La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro
e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie
possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale e spirituale della società”
4
.
Cronologicamente antecedente è la“ Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino”, documento giuridico approvato dall’assemblea costituente francese nel
1789 e successivamente inserito come preambolo della Costituzione Rivoluzionaria
del 1791
5
.
Mi pare opportuno sottolineare che la Dèclaration francese non solo, data la
sua riconosciuta attualità, rappresenta uno dei più alti riconoscimenti della libertà e
dignità umana (dell’umanità tutta), ma anche ispirò numerose carte costituzionali,
tra cui la stessa Costituzione italiana e la “Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo” adottata dalle Nazioni Unite nel 1948.
Nel documento vi confluiscono numerose dottrine filosofiche e sociali del
XVIII secolo , tra cui il giusnaturalismo e l’illuminismo, le quali, se ebbero allora
forza e rilevanza tali da incidere profondamente sulle scelte dell’establishment
politico “illuminato”, si vedono oggi demolite e sostituite dalle moderne e miopi
ideologie dell’intolleranza e disuguaglianza sociali.
Alla luce di ciò che è avvenuto negli ultimi anni, in particolar modo guardando
alla legislazione italiana relativa alla regolazione dell’immigrazione e alle restrizioni
per beneficiare del diritto di asilo, sembrano essere messi in discussione gli stessi
principi filosofici nonché politico-giuridici su cui si sono erette le democratiche ed
egualitarie costituzioni europee.
4
Costituzione Italiana, parte I dei Principi fondamentali, art. 1-2-3-4.
5
Vedi Francesco Bovini, Lezioni di storia delle istituzioni politiche, Giappichelli Editore, Torino, 2002.
7
Nel giusnaturalismo e illuminismo settecenteschi si riconosceva l’esistenza di
diritti naturali dell’uomo, diritti che, secondo una visione individualistica,
appartengono all’essere umano in quanto tale, in quanto appartenente alla “famiglia
umana”
6
.
Secondo l’ideologia illuministica, in particolar modo, tali diritti sono
universali, per cui appartenenti a tutta la specie umana, e inalienabili, che per legge
non si possono né vendere né cedere. Beni immateriali di inestimabile valore i diritti
fondamentali sono: libertà individuale, diritto alla vita, diritto
all’autodeterminazione, il diritto a un’esistenza dignitosa, il diritto alla libertà
religiosa con il conseguente diritto a cambiare la propria religione.
Sotto queste espressioni si nasconde un universo di idee e valori di inopinabile
importanza e positività, valori che oggi vediamo inglobati nel più ampio concetto di
“democrazia”, qualora essa divenga sinonimo di libertà, giustizia e uguaglianza.
La democrazia e il rispetto dei diritti umani sono purtroppo una realtà soltanto
dei paesi occidentali mentre vengono sistematicamente violate la libertà e l’integrità
fisica e morale dell’uomo in gran parte del resto del mondo. L’Occidente diviene
così un miraggio per cui vale la pena rischiare la vita, soprattutto per le società in cui
guerre, ingiustizie, dittature, povertà, fame mietono milioni di vittime e rendono
impraticabile un’esistenza dignitosa.
Ma il miraggio, come sappiamo, è soltanto un fenomeno ottico, e non sempre
corrisponde alla realtà.
L’atto migratorio sottende spesso delle motivazioni e delle aspettative molto
forti la cui valutazione giustifica pienamente il doloroso, oneroso e molte volte
tragico abbandono della propria terra e dei propri cari.
La “fuga”, dunque, appare una scelta fatalmente priva di alternative quando a
spingere lontano dal proprio paese sono cause quali: disparità nello sviluppo
economico, nelle dinamiche demografiche e nei livelli di vita e di retribuzione tra le
varie aree del pianeta, conflitti armati, violazioni sistematiche dei diritti umani,
deterioramento e catastrofi ambientali
7
.
In America Latina, come in Africa e in Asia
8
convivono isole di ricchezza in
mezzo alla miseria, si lotta per la sopravvivenza, per un posto decente dove vivere,
6
Per approfondimenti Alberto Andreatta, a cura di A. Enzo Baldini, Il pensiero politico dell’età moderna, Utet libreria,
Torino, 2000.
7
Laura Davi, Le migrazioni globali, 2001 in Limes raccolta digitale 2006.
8
Aree geografiche in cui è maggiore la pressione migratoria
8
per un lavoro sicuro, mentre strutture economiche e politiche ingiuste perpetuano lo
status quo, le guerre devastano e uccidono, l’illusione dell’informazione rende
consapevoli ma impotenti e le violenze dell’uomo sulla natura trasformano eventi
naturali in tragedie
9
.
I migranti sono i pochi “fortunati” che hanno la possibilità di sottrarsi a queste
miserie e di emigrare verso un paese dove si immagina che le cose andranno
meglio… Poi la realtà!
Le aspettative di partenza si scontrano spesso con la difficile realtà del paese
ospitante, luogo di cui si sa poco o nulla se non quello che viene rappresentato da
numerosi stereotipi: la distorsione dell’informazione in cui si vede un Occidente
filtrato dai mezzi di comunicazione che mostrano in modo spettacolare una realtà
falsata, la dissonanza cognitiva di coloro che ritornano e non possono raccontare il
vero, e questo è tanto più frequente quanto più alti sono stati gli investimenti di
partenza (psicologici ed economici), la generalizzazione dell’informazione di coloro
che hanno realizzato il progetto migratorio e influenzano in modo selettivo le
rappresentazioni dei compaesani
10
.
Come abbiamo gia detto, l’esperienza migratoria è un atto doloroso, oneroso,
spesso tragico, e ora aggiungiamo, imprevedibile.
La condizione più comune di un migrante è il non avere idea di cosa gli riservi
l’avvenire; lì dove non si abbia un preciso e organizzato progetto migratorio
(ricongiungimenti familiari, emigrazione per motivi di studio, assunzione certa in un
posto di lavoro) i casi più riscontrabili sono situazioni in cui i migranti rimangono
letteralmente “presi in mezzo”, bloccati, senza più avere possibilità di inserirsi nel
contesto sociale di arrivo. I “viaggi della speranza” divengono allora avventure
fallimentari che finiscono sulle sponde di paesi stranieri non desiderati, storie di
uomini che conoscono la prigione, che incontrano truffatori, che sfidano condizioni
impossibili. Non di rado i motivi istituzionali hanno in questo senso un peso
rilevante, dal momento che la legge non riconosce una legittimità ai loro tentativi di
inserimento.
E’ raro, infatti, che gli immigrati riescano a farsi una vita, spesso si trovano
privati persino della loro identità, scaraventati in un misterioso avvenire di
umiliazioni e miseria senza che gli venga riconosciuto alcun diritto, del resto, la
9
Cfr Ugo Leone, Nuove politiche per l’ambiente, Carrocci, Roma, 2006, pp. 19 – 59.
10
Colloquio con T. N. immigrato clandestinamente dalla Tunisia nel 1984, incontrato i giorni 17 e 18 febbraio presso la
mensa Caritas di Perugia in via Frappi.
9
clandestinità è un prodotto di legge e non un dato naturale e sono molte le difficoltà
che impediscono di sfuggire a questo statuto.
Si crea, tra il paese d’origine e il paese ospitante, un paradosso che traccia le
condizioni di una vera e propria “impossibilità di cittadinanza”: il paese d’origine
tende a spingere la persona verso il luogo di emigrazione, mentre il paese di arrivo,
rifiutandone la presenza, attiva processi espulsivi che concorrono a mantenere il
soggetto letteralmente “nel mezzo”
11
. Sono queste due forze che rispecchiano in
modo tangibile le condizioni d’ingabbiamento dell’immigrato. La precarietà sociale è
anche un problema di leggi, non tanto (o comunque non solo) un problema di
fragilità degli immigrati.
Secondo la moderna concezione dello Stato, si è quasi esclusivamente cittadini
per diritto di nascita: dire “cittadino straniero” è ancora un ossimoro, una sorta di
definizione paradossale. Non si ha la possibilità di diventare cittadino se si è
stranieri, se non in qualche modo attraverso dei passaggi che sono resi sempre più
difficili e che non di rado concorrono nell’amplificare condizioni di precarietà
sociale (mancanza di una casa, di un lavoro, rischio di espulsione).
A queste difficoltà si aggiungono quelle connesse alla “dialettica del
disprezzo”
12
talvolta imprudentemente e consciamente messa in atto dai mezzi di
comunicazione di massa.
Che i media rivestano un ruolo di fondamentale importanza nella loro funzione
pedagogica e cognitiva è oggi più che mai cosa risaputa e certa, talvolta divengono le
principali fonti di educazione e conoscenza in concorrenza con la famiglia e la
scuola. Essi sono parte attiva della società, ne indirizzano l’attenzione su alcuni
aspetti piuttosto che su altri, ne condizionano la visione degli eventi, ne mobilitano le
forze.
Al di là di ciò che rientra nella nostra esperienza diretta esiste una realtà, più o
meno lontana, che perviene a noi soltanto attraverso la rappresentazione che di essa
ne da l’informazione, la quale, non sempre, corrisponde alla realtà dei fatti.
11
I processi espulsivi sono di tipo giuridico ma anche culturale
12
M. Giacomarra, Manipolare per comunicare. Lingua, mass media e costruzione di realtà, Palermo, Palombo, 1997.
Gli esempi riportati nel testo fanno riferimento a formule usate piuttosto comunemente nel linguaggio giornalistico
come la trasformazione di una caratteristica somatica o etnica marginale nel principale tema di attenzione. Ciò è
evidente in titoli come: “rumeno uccide” o “albanese ruba”, che rendono visibile tale “disturbo” della comunicazione e
confermano stereotipi e pregiudizi. Si nota, inoltre, una presenza ossessiva nelle notizie della nazionalità e dello status
giuridico dei protagonisti stranieri dei fatti di cronaca.
10
Vuoti di analisi, assenza di approfondimento, scarsa attitudine alla descrizione
del contesto, predilezione dei fatti di cronaca nera, agenda setting
13
, e ancora,
sensazionalismo, spettacolarizzazione, strumentalizzazione, faziosità, partigianeria e
disinformazione
14
sono tutti elementi della routinaria trattazione giornalistica nonché
specifiche strategie simboliche con cui si procede efficacemente alla “costruzione
della realtà”.
Nel caso di nostro interesse, quello relativo al fenomeno migratorio, tali metodi
di copertura mediale concorrono a penalizzare un fenomeno socioculturale che
sarebbe nell’interesse di tutti conoscere bene, nella sua reale sostanza ed entità, per
poter dialogare ed interagire con esso, anziché temerlo.
Il fatto di spostarsi da un luogo all’altro è da sempre una caratteristica
fondamentale dell’umanità, la storia del genere umano può essere raccontata come
un susseguirsi di migrazioni dove la sedentarietà è stata ovunque una condizione
eccezionale. Ieri come oggi la mobilità ha rappresentato, in contesti storici e
geografici dalle condizioni economiche e sociali molto diverse, non solo una
strategia di sopravvivenza, ma uno strumento indispensabile per poter esercitare il
proprio “potenziale umano” ed esprimerlo in tutte le sue manifestazioni
15
.
Appare dunque evidente che gli eventi migratori siano un fenomeno storico di
grande importanza e indubbia attualità, tuttavia la mia scelta di trattare questa
tematica parte da una riflessione più contingente e aderente alla nostra realtà: la
difficoltà della politica italiana di gestire un fenomeno che nel nostro caso si presenta
particolarmente eterogeneo - per questo bisognoso di più attenzione e maggiore
“intelligenza” da parte del potere pubblico e delle istituzioni – e, per certi versi,
problematico, proprio perché in contrasto con una politica e una società che, come
vedremo, faticano a gestirne la presenza e ad agevolarne l’integrazione.
Gli eventi storici degli ultimi anni, poi, hanno ulteriormente aggravato una
situazione di difficile e paventata integrazione, pensiamo ad esempio agli attentati
negli Stati Uniti (11 settembre 2001), in Spagna (11 marzo 2004) e in Inghilterra (7
13
Si veda Mauro Wolf Teorie delle comunicazioni di massa, Bompiani, Milano, 2006. La teoria dell’“agenda setting”
presume una composizione dell’agenda, ossia del materiale informativo, secondo dei criteri di negoziabilità del
prodotto. Ne deriva una sorta di gerarchia delle notizie che va dalle più importanti, a cui si riserva più spazio e
visibilizzazione, a quelle più marginali, le quali finiscono in coda ai telegiornali o nelle ultime pagine dei quotidiani se
non addirittura omesse. Alcuni dei criteri in base ai quali si compone l’agenda setting sono: brevità, novità, capacità di
intrattenimento, importanza dei soggetti coinvolti ecc.
14
IVI.
15
Per approfondimenti vedi John Agnew, Fare geografia politica, Franco Angeli, Milano, 2003.
11
luglio 2005) che hanno innescato quella che è stata definita “lotta al terrorismo
internazionale” ma che di fatto si è rivelata essere anche una battaglia, innanzi tutto
ideologica, alle comunità d’immigrazione islamica presenti nei paesi occidentali
16
.
Dall’11 settembre in poi, infatti, gli eventi politici hanno inquinato l’atmosfera
dell’integrazione degli immigrati in Italia. Si vede facilmente che sul livello
massmediale non si fa differenza tra l’islam e alcuni movimenti di matrice islamica
che adottano l’uso della violenza come strategia per realizzare i loro obiettivi. Non
solo i mass media contribuiscono a generalizzare alcuni stereotipi nei confronti
dell’immigrazione islamica in Italia in particolare e dell’islam in generale, ma anche
una nuova tendenza che teorizza che i musulmani non possono integrarsi nella
società che li accoglie
17
.
Al di là del suo carattere quasi razzista, questa tendenza è sociologicamente
falsa, perché l’integrazione non dipende dalla religione o dalla cultura della
popolazione. E’ vero che queste due variabili influiscono sul processo di integrazione
ma non possono determinarlo decisamente.
L’integrazione dipende sì dal percorso e dal progetto migratorio di ogni singolo
soggetto ma anche dalla capacità integrativa e quindi dall’efficienza legislativa del
paese ospitante.
L’analisi da me fatta sul fenomeno migratorio punta a dare un’informazione
generale, qualitativa e quantitativa, sull’immigrazione esistente oggi in Italia,
ripercorrendo le tappe della sua evoluzione storica dai tempi della sua comparsa nel
paese fino ad oggi. Nel fare questo discorrerò innanzitutto sull’esperienza che vide
l’Italia paese di emigrazione verso il Nord Europa, valutando le ragioni economiche
che furono alla base dell’esodo, e i successivi cambiamenti a livello locale e
internazionale che portarono, non solo all’arresto dei flussi in uscita e alla
“migrazione di ritorno”, ma anche all’inizio di una improvvisa e massiccia
immigrazione dal Sud del Mondo.
16
Come vedremo di seguito nella tesi, quella islamica è in Italia la seconda comunità in ordine di presenze.
17
Mario Porcellini, I migranti alle porte della cittadella mediale, Dossier “Fuori Orario”, in I problemi
dell’Informazione/a. XXX n.1 marzo 2005.
Il terrorismo è il tema più spesso correlato all’immigrazione. Dopo i reati e gli sbarchi il terrorismo occupa il 13,7%
della copertura mediatica. “Da uno sguardo generale, sembra che i media italiani creino associazioni indirette tra il
pericolo terroristico e i fenomeni migratori, insistendo sulle difficoltà di controllo alle frontiere o sulla diffidenza verso
‘appartenenza islamica di alcuni immigrati”, p.52
12
Entrerò poi nello specifico delle modalità con cui gli immigrati si sono inseriti
nei diversi livelli del sistema nazionale: istruzione, lavoro, abitazione e sanità,
sostenendo la “bontà” e l’importanza dell’apporto dell’immigrazione alla crescita
culturale ed economica del nostro paese. Parlerò dunque dell’approdo degli
immigrati sulla nostra terra, momento cruciale in cui si incontrano due realtà
profondamente diverse, un incontro che può essere più o meno felice e il cui
successo si misura in base, non solo alla qualità del progetto migratorio di chi arriva,
al suo bagaglio professionale e alla sua disponibilità a rispettare le regole culturali e
giuridiche del paese ospitante, ma anche e soprattutto in base alla
capacità/disponibilità di queste regole ad agevolare l’integrazione del soggetto e
consentire che l’esperienza migratoria si traduca in reciproco vantaggio, per chi
richiede accoglienza e per chi la offre.
Procederò, quindi, con una dettagliata rassegna delle leggi che a partire dalla
fine degli anni ’80 hanno regolato il fenomeno.
A conclusione del lavoro accennerò sul delicato rapporto tra media e
immigrazione. Campo di indagine esemplare in questo senso è la stampa nazionale
che per via del formato, del linguaggio e dei codici che la caratterizzano si presta,
meglio di altri mezzi, ad una analisi accurata dei contenuti e ad un eventuale
confronto tra le modalità narrative qualificanti ognuno dei quotidiani presi in esame.
La scelta dell’argomento, invece, segue la logica dell’attualità: ultima in ordine
cronologico è la questione sollevata intorno all’ordinanza del 25 agosto del sindaco
di Firenze contenete il divieto di esercitare il “mestiere di lavavetri” sull’intero
territorio comunale, e i lavavetri, si sa, sono tutti extracomunitari!
Emergerà una chiara differenza da giornale a giornale nella pratica di
newsmaking o “costruzione della notizia”. Le distinzioni riguarderanno, non solo il
tono - assolutorio o accusatorio, solidale o avverso – del discorso e le scelte
stilistiche secondo le quali la notizia occupa un determinato “spazio” nel giornale
(primario o marginale, se non addirittura nullo), ma riguarderanno anche lo specifico
punto di vista da cui si guarda l’evento, che coincide, e ciò varia in base alla testata
presa come riferimento, ora con la linea politica del partito di cui il giornale è la
voce, ora con gli orientamenti redazionali, ora con l’umore diffuso presso l’opinione
pubblica.
13
Tuttavia, l’obiettivo finale scosterà dalla semplice descrizione di un fenomeno
storico, sarà piuttosto quello di dimostrare che lo spostamento di persone da un luogo
ad un altro del mondo è un dato strutturale, necessario quanto inevitabile. Così come
sono inevitabili i flussi di persone straniere che entrano nel nostro territorio nazionale
con la volontà di restare e di vivere tra noi.
Altra realtà che non si può ignorare né eludere è il multiculturalismo che già da
qualche anno è un aspetto qualificante della nostra società e che diverrà sempre più
nei prossimi anni una caratteristica della popolazione “italiana”.
A fronte degli allarmi lanciati dai mass media e da alcune forze politiche
“sull’invasione” straniera e sui pericoli che la presenza immigrata porterebbe con sè
in termini di delinquenza, di “attacco” all’identità nazionale o ancora di
appropriazione di posti di lavoro e abitazioni che dovrebbero essere occupati dai
cittadini italiani, voglio invece dimostrare che, se ben gestita dalle politiche nazionali
e accettata dall’opinione pubblica, l’immigrazione può essere soprattutto una risorsa,
culturale e anche economica.
14
ITALIA, DA PAESE DI EMIGRAZIONE A PAESE DI
IMMIGRAZIONE.
L’EMIGRAZIONE NOSTRANA.
La volontà di tracciare un quadro generale dell’esperienza emigratoria italiana
trova una duplice giustificazione.
Innanzi tutto, avere un’idea di quale sia stata l’esperienza degli italiani come
emigranti all’estero, ci conduce a rintracciare delle similitudini con la realtà vissuta
dagli immigrati giunti in Italia, agevolando la comprensione delle dinamiche che
sono alla base degli spostamenti di popolazione; in secondo luogo, ragionare intorno
all’ampiezza e ai tempi dell’emigrazione italiana, aiuta a comprendere alcune delle
ragioni per cui i nostri governi hanno tardato a regolare - barcamenandosi tra
gestione dei flussi in uscita e controllo degli ingressi - il fenomeno
dell’immigrazione, senza, tra l’altro, riuscire ad impedire che le difficoltà mostrate
nella regolazione della nuova realtà, si ripercuotessero sull’umore e la capacità di
accoglienza di larghe componenti della società civile, restie a convivere con un
numero sempre crescente di stranieri.
Sul finire del XIX secolo e per quasi tutto il secolo successivo l’Italia è stata
protagonista di due grandi ondate migratorie verso l’estero: la Grande Emigrazione,
iniziata negli ultimi anni dell’800 e protrattasi sostanzialmente fino alla prima metà
del 900, che aveva come principale meta il Nord del continente americano, e
l’emigrazione interna all’Europa che ha avuto inizio negli anni immediatamente
successivi al secondo conflitto mondiale, quando l’accesso negli USA era divenuto
più complicato per via della parziale chiusura delle frontiere.
Fu infatti l’introduzione del sistema delle “quote” in base alla nazionalità di
origine - il quale, se agevolava l’ingresso di alcune componenti penalizzava invece
l’immigrazione di italiani insieme ad altre nazionalità asiatiche, come quella cinese –
ad indirizzare verso la parte centro settentrionale del Vecchio Continente le rotte
migratorie degli italiani.
15
“Gli Stati Uniti, che avevano rappresentato nei primi decenni del
secolo il più importante sbocco per l’emigrazione italiana, avevano in
seguito parzialmente chiuso le frontiere e introdotto il [...] Johnson Act
del 1924, che riduceva drasticamente le possibilità di ingresso negli
Usa stabilendo quote distinte per i diversi gruppi nazionali, esprimeva
un grado di discriminazione crescente a mano a mano che si passava
dall’Europa del Nord a quella del Sud: così la grande ondata
migratoria [...], in particolare dal Mezzogiorno, risulta forzosamente
arrestata fin dagli anni venti.”
18
Alla base di entrambe le esperienze migratorie vi è l’esigenza di trovare
lavoro.
Particolarmente esplicativa in questo senso è l’emigrazione innescatasi dopo la
Liberazione del 1945; allora l’Italia era un paese ancora povero segnato da una
profonda e cronica disoccupazione, vi era dunque una grande eccedenza di
manodopera - soprattutto nel Mezzogiorno – il cui sfogo, per così dire naturale, fu
ovviamente l’abbandono dei luoghi di residenza per cercare fortuna altrove.
Tra il 1946 e il 1950 gli espatri annui furono circa 225.000
19
. Tuttavia gli anni
in cui il fenomeno si mostrò con maggiore consistenza furono quelli comunemente
detti del “miracolo economico”, ossia il periodo a cavallo degli anni “50 e “60. In
questo periodo all’emigrazione tradizionale e consolidata verso l’estero si affiancò
uno spostamento di manodopera interno ai confini nazionali. In particolare
l’emigrazione interna vedeva lo spostamento dal Sud, poco industrializzato e
caratterizzato da un’eccedenza di forza lavoro nel settore agricolo, verso il Nord
industrializzato e bisognoso di accogliere nuovi lavoratori. Questo comportò
ovviamente l’abbandono delle aree agricole e dei piccoli centri residenziali per
andare ad affollare le grandi aree urbane – “movimento campagna-città”
20
- in cui
sorgevano e si espandevano le nuove metropoli divenute valvole di sfogo per la forte
pressione demografica esistente nel Mezzogiorno.
21
I fattori di attrazione per le città del Nord Italia come per le metropoli
d’oltralpe erano lo sviluppo industriale, particolarmente forte in Germania e Svizzera
18
Enrico Pugliese, l’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, il Mulino, Bologna, 2006, p.21.
19
Per approfondimenti vedi Vittorio Foa, Questo Novecento, Enaudi, 1996.
20
Giovanni Blumer, L’emigrazione italiana in Europa, Feltrinelli, Milano, 1970.
21
Ugo Leone, Nuove politiche per l’ambiente, Carrocci editore, Roma, 2006
16
che divennero le tappe principali d’emigrazione, e la possibilità di ricevere
retribuzioni più alte rispetto a quelle offerte lavorando nei luoghi di originaria
residenza le quali andavano poi a confluire nelle rimesse che furono un fattore di
grande importanza per la “sopravvivenza” di molte famiglie e più in generale per
l’economia italiana.
A partire dalla metà degli anni “50 lo spostamento verso i paesi europei si
intensifica notevolmente: in Italia, sebbene vi fossero come altrove settori coinvolti
dal boom economico, vi era ancora uno scarto negativo tra offerta e domanda di
lavoro soprattutto in quelle aree come il Mezzogiorno dove persistevano aspetti di
sottosviluppo legati a una mancata politica di industrializzazione e all’incapacità
dell’agricoltura di sopportare il suo carico demografico.
A questi fattori “di spinta” corrispondeva la forte attrazione del mercato del
lavoro estero ( soprattutto tedesco e svizzero) il cui spiccato dinamismo era legato
allo sviluppo industriale, in particolare alla grande industria destinata alla produzione
di massa, e all’edilizia, entrambi importanti settori di avvio della grande
ricostruzione post-bellica
22
. Il modello lavorativo proprio della produzione a grande
scala era quello definito taylor-fordista caratterizzato da una retribuzione salariale e
dalla semplificazione–meccanizzazione del processo lavorativo ben rappresentato
dalla catena di montaggio.
Detto questo è facilmente intuibile il bisogno di questi paesi di ricorrere alla
manodopera straniera, allo stesso modo si spiegano le ragioni per cui possiamo dire
con una certa attendibilità che l’emigrazione italiana di quegli anni verso l’Europa
settentrionale fu sostanzialmente caratterizzata dal successo; lo stesso non si può dire
invece dei progetti migratori verso il Sud America o l’Australia ( mete secondarie
dell’emigrazione italiana) spesso condotti al fallimento dalla forte instabilità
economica di quei paesi. Inoltre, tornando a fare riferimento all’emigrazione
d’oltralpe, l’Italia come paese di emigrazione era in una posizione privilegiata, sia
per la vicinanza geografica alle principali aree di destinazione che per la sua
appartenenza alla neocostituita Comunità Economica Europea.
22
Per approfondimenti Umberto Melotti , Marcella Delle Donne, Stefano Petilli, Immigrazione in Europa. Solidarietà e
conflitto, CEDISS, Roma, 1993.