6
 Art.3 “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali 
davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, 
di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e 
sociali. E’compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di 
ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e 
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della 
persona umana  e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori 
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 
 Art.4 “ La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro 
e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. 
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie 
possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione che 
concorra al progresso materiale e spirituale della società”
4
. 
 
 Cronologicamente antecedente è la“ Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del 
cittadino”, documento giuridico approvato dall’assemblea costituente francese nel 
1789 e successivamente inserito come preambolo della Costituzione Rivoluzionaria  
del 1791
5
. 
 Mi pare opportuno sottolineare che la Dèclaration francese non solo, data la 
sua riconosciuta attualità, rappresenta uno dei più alti riconoscimenti della libertà e 
dignità umana (dell’umanità tutta), ma anche ispirò  numerose carte costituzionali, 
tra cui la stessa Costituzione italiana e la “Dichiarazione universale dei diritti 
dell’uomo” adottata dalle Nazioni Unite nel 1948.  
Nel documento vi confluiscono numerose dottrine filosofiche e sociali del 
XVIII secolo , tra cui il giusnaturalismo e l’illuminismo, le quali, se ebbero allora 
forza e rilevanza tali da incidere profondamente sulle scelte dell’establishment 
politico “illuminato”, si vedono oggi  demolite e sostituite dalle moderne e miopi 
ideologie dell’intolleranza e disuguaglianza sociali. 
Alla luce di ciò che è avvenuto negli ultimi anni, in particolar modo guardando  
alla legislazione italiana relativa alla regolazione dell’immigrazione e alle restrizioni 
per beneficiare del diritto di asilo, sembrano essere messi in discussione gli stessi 
principi filosofici nonché politico-giuridici su cui si sono erette le democratiche ed 
egualitarie costituzioni europee. 
                                                 
4
 Costituzione Italiana, parte I dei Principi fondamentali, art. 1-2-3-4. 
5
 Vedi  Francesco Bovini, Lezioni di storia delle istituzioni politiche, Giappichelli Editore, Torino, 2002. 
 7
Nel giusnaturalismo e illuminismo settecenteschi si riconosceva l’esistenza di 
diritti naturali dell’uomo, diritti che, secondo una visione individualistica, 
appartengono all’essere umano in quanto tale, in quanto appartenente alla “famiglia 
umana”
6
.  
Secondo l’ideologia illuministica, in particolar modo, tali diritti sono 
universali, per cui appartenenti a tutta la specie umana, e inalienabili, che per legge 
non si possono né vendere né cedere. Beni immateriali di inestimabile valore i  diritti 
fondamentali sono: libertà individuale, diritto alla vita, diritto 
all’autodeterminazione, il diritto a un’esistenza dignitosa, il diritto alla libertà 
religiosa con il conseguente diritto a cambiare la propria religione. 
Sotto queste  espressioni si nasconde un universo di idee e valori di inopinabile 
importanza e positività, valori che oggi vediamo inglobati nel più ampio concetto di 
“democrazia”, qualora essa divenga sinonimo di libertà, giustizia e uguaglianza. 
La democrazia e il rispetto dei diritti umani sono purtroppo una realtà soltanto 
dei paesi occidentali mentre vengono sistematicamente violate la libertà e l’integrità 
fisica e morale dell’uomo in gran parte del resto del mondo. L’Occidente diviene 
così un miraggio per cui vale la pena rischiare la vita, soprattutto per le società  in cui  
guerre, ingiustizie, dittature, povertà, fame mietono milioni di vittime e rendono 
impraticabile un’esistenza dignitosa. 
Ma il miraggio, come sappiamo, è soltanto un fenomeno ottico, e non sempre 
corrisponde alla realtà. 
L’atto migratorio sottende spesso delle motivazioni e delle aspettative molto 
forti la cui valutazione giustifica pienamente il doloroso, oneroso e molte volte 
tragico abbandono della propria terra e dei propri cari.  
La “fuga”, dunque, appare una scelta fatalmente priva di alternative quando a 
spingere lontano dal proprio paese sono cause quali: disparità nello sviluppo 
economico, nelle dinamiche demografiche e nei livelli di vita e di retribuzione tra le 
varie aree del pianeta, conflitti armati, violazioni sistematiche dei diritti umani, 
deterioramento e catastrofi ambientali
7
. 
In America Latina, come in Africa e in Asia
8
 convivono isole di ricchezza in 
mezzo alla miseria, si lotta per la sopravvivenza, per un posto decente dove vivere, 
                                                 
6
 Per approfondimenti Alberto Andreatta, a cura di A. Enzo Baldini, Il pensiero politico dell’età moderna, Utet libreria, 
Torino, 2000. 
7
 Laura Davi,  Le migrazioni globali, 2001  in Limes raccolta digitale 2006. 
8
 Aree geografiche in cui è maggiore la pressione migratoria 
 8
per un lavoro sicuro, mentre strutture economiche e politiche ingiuste perpetuano lo 
status quo, le guerre devastano e uccidono, l’illusione dell’informazione rende 
consapevoli ma impotenti e le violenze dell’uomo sulla natura trasformano eventi 
naturali in tragedie
9
 .  
I migranti sono i pochi “fortunati” che hanno la possibilità di sottrarsi a queste 
miserie e di emigrare verso un paese dove si immagina che le cose andranno 
meglio… Poi la realtà! 
Le aspettative di partenza si scontrano spesso con la difficile realtà del paese 
ospitante, luogo di cui si sa poco o nulla se non quello che viene rappresentato da 
numerosi stereotipi: la distorsione dell’informazione in cui si vede un Occidente 
filtrato dai mezzi di comunicazione che mostrano in modo spettacolare una realtà 
falsata, la dissonanza cognitiva di coloro che ritornano e non possono raccontare il 
vero, e questo è tanto più frequente quanto più alti sono stati gli investimenti di 
partenza (psicologici ed economici), la generalizzazione dell’informazione di coloro 
che hanno realizzato il progetto migratorio e influenzano in modo selettivo le 
rappresentazioni dei compaesani
10
. 
Come abbiamo gia detto, l’esperienza migratoria è un atto doloroso, oneroso, 
spesso tragico, e ora aggiungiamo, imprevedibile. 
 La condizione più comune di un migrante è il non avere idea di cosa gli riservi 
l’avvenire; lì dove non si abbia un preciso e organizzato progetto migratorio 
(ricongiungimenti familiari, emigrazione per motivi di studio, assunzione certa in un 
posto di lavoro)  i casi più riscontrabili sono situazioni in cui i migranti rimangono 
letteralmente “presi in mezzo”, bloccati, senza più avere possibilità di inserirsi nel 
contesto sociale di arrivo. I “viaggi della speranza” divengono allora avventure 
fallimentari che finiscono sulle sponde di paesi stranieri non desiderati, storie di 
uomini che conoscono la prigione, che incontrano truffatori, che sfidano condizioni 
impossibili. Non di rado i motivi istituzionali hanno in questo senso un peso 
rilevante, dal momento che la legge non riconosce una legittimità ai loro tentativi di 
inserimento.  
E’ raro, infatti, che gli immigrati riescano a farsi una vita, spesso si trovano 
privati persino della loro identità, scaraventati in un misterioso avvenire di 
umiliazioni e miseria senza che gli venga riconosciuto alcun diritto, del resto, la 
                                                 
9
 Cfr Ugo Leone, Nuove politiche per l’ambiente, Carrocci, Roma, 2006, pp. 19 – 59. 
10
 Colloquio con T. N. immigrato clandestinamente dalla Tunisia nel 1984, incontrato i giorni 17 e 18 febbraio presso la 
mensa Caritas di Perugia in via Frappi.    
 9
clandestinità è un prodotto di legge e non un dato naturale e sono molte le difficoltà 
che impediscono di sfuggire a questo statuto.  
Si crea, tra il paese d’origine e il paese ospitante, un paradosso che traccia le 
condizioni di una vera e propria “impossibilità di cittadinanza”: il paese d’origine 
tende a spingere la persona verso il luogo di emigrazione, mentre il paese di arrivo, 
rifiutandone la presenza, attiva processi espulsivi che concorrono a mantenere il 
soggetto letteralmente “nel mezzo”
11
. Sono queste due forze che rispecchiano in 
modo tangibile le condizioni d’ingabbiamento dell’immigrato. La precarietà sociale è 
anche un problema di leggi, non tanto (o comunque non solo) un problema di 
fragilità degli immigrati. 
Secondo la moderna concezione dello Stato, si è quasi esclusivamente cittadini 
per diritto di nascita: dire “cittadino straniero” è ancora un ossimoro, una sorta di 
definizione paradossale. Non si ha la possibilità di diventare cittadino se si è 
stranieri, se non in qualche modo attraverso dei passaggi che sono resi sempre più 
difficili e che non di rado concorrono nell’amplificare condizioni di precarietà 
sociale (mancanza di una casa, di un lavoro, rischio di espulsione). 
A queste difficoltà si aggiungono quelle connesse alla “dialettica del 
disprezzo”
12
 talvolta imprudentemente e consciamente messa in atto dai mezzi di 
comunicazione di massa.  
Che i media rivestano un ruolo di fondamentale importanza nella loro funzione 
pedagogica e cognitiva è oggi più che mai cosa risaputa e certa, talvolta divengono le 
principali fonti di educazione e conoscenza in concorrenza con la famiglia e la 
scuola. Essi sono parte attiva della società, ne indirizzano l’attenzione su alcuni 
aspetti piuttosto che su altri, ne condizionano la visione degli eventi, ne mobilitano le 
forze. 
 Al di là di ciò che rientra nella nostra esperienza diretta esiste una realtà, più o 
meno lontana, che perviene a noi soltanto attraverso la  rappresentazione che di essa 
ne da l’informazione, la quale, non sempre, corrisponde alla realtà dei fatti.  
                                                 
11
 I processi espulsivi sono di tipo giuridico ma anche culturale  
12
 M. Giacomarra, Manipolare per comunicare. Lingua, mass media e costruzione di realtà, Palermo, Palombo, 1997. 
 Gli esempi riportati nel testo fanno riferimento a formule usate piuttosto comunemente nel linguaggio giornalistico 
come la trasformazione di una caratteristica somatica o etnica marginale nel principale tema di attenzione. Ciò è 
evidente in titoli come: “rumeno uccide” o “albanese ruba”, che rendono visibile tale “disturbo” della comunicazione e 
confermano stereotipi e pregiudizi.  Si nota, inoltre, una presenza ossessiva nelle notizie della nazionalità e dello status 
giuridico dei protagonisti stranieri dei fatti di cronaca.  
 10
Vuoti di analisi, assenza di approfondimento, scarsa attitudine alla descrizione 
del contesto, predilezione dei fatti di cronaca nera, agenda setting
13
, e ancora, 
sensazionalismo, spettacolarizzazione, strumentalizzazione, faziosità, partigianeria e 
disinformazione
14
 sono tutti elementi della routinaria trattazione giornalistica nonché 
specifiche strategie simboliche con cui si procede efficacemente alla “costruzione 
della realtà”. 
Nel caso di nostro interesse, quello relativo al fenomeno migratorio, tali metodi 
di copertura mediale concorrono a penalizzare un fenomeno socioculturale che 
sarebbe nell’interesse di tutti conoscere bene, nella sua reale sostanza ed entità, per 
poter dialogare ed interagire con esso, anziché temerlo. 
 
Il fatto di spostarsi da un luogo all’altro è da sempre una caratteristica   
fondamentale dell’umanità, la storia del genere umano può essere raccontata come 
un susseguirsi di migrazioni dove la sedentarietà è stata ovunque una condizione 
eccezionale. Ieri come oggi la mobilità ha rappresentato, in contesti storici e 
geografici dalle condizioni economiche e sociali molto diverse, non solo una 
strategia di sopravvivenza, ma uno strumento indispensabile per poter esercitare il 
proprio “potenziale umano” ed esprimerlo in tutte le sue manifestazioni
15
.  
Appare dunque evidente che gli eventi migratori siano un fenomeno storico di 
grande importanza e indubbia attualità, tuttavia la mia scelta di trattare questa 
tematica parte da una riflessione più contingente e aderente alla nostra realtà: la 
difficoltà della politica italiana di gestire un fenomeno che nel nostro caso si presenta 
particolarmente eterogeneo - per questo bisognoso di più attenzione e maggiore 
“intelligenza” da parte del potere pubblico e delle istituzioni – e, per certi versi, 
problematico, proprio perché in contrasto con una politica e una società che, come 
vedremo, faticano a gestirne la presenza e ad agevolarne l’integrazione.   
Gli eventi storici degli ultimi anni, poi, hanno ulteriormente aggravato una 
situazione di difficile e paventata integrazione,  pensiamo ad esempio agli attentati 
negli Stati Uniti (11 settembre 2001), in Spagna (11 marzo 2004) e in Inghilterra (7 
                                                 
13
 Si veda Mauro Wolf  Teorie delle comunicazioni di massa,  Bompiani, Milano, 2006. La teoria dell’“agenda setting” 
presume una composizione dell’agenda, ossia del materiale informativo, secondo dei criteri di negoziabilità del 
prodotto. Ne deriva una sorta di gerarchia delle notizie che va dalle più importanti, a cui si riserva più spazio e 
visibilizzazione, a quelle più marginali, le quali finiscono in coda ai telegiornali o nelle ultime pagine dei quotidiani se 
non addirittura omesse. Alcuni dei criteri in base ai quali si compone l’agenda setting sono: brevità, novità, capacità di 
intrattenimento, importanza  dei soggetti coinvolti ecc.   
14
 IVI. 
15
 Per approfondimenti vedi John Agnew, Fare geografia politica, Franco Angeli, Milano, 2003. 
 11
luglio 2005) che hanno innescato quella che è stata definita “lotta al terrorismo 
internazionale” ma che di fatto si è rivelata essere anche una battaglia, innanzi tutto 
ideologica, alle comunità d’immigrazione islamica  presenti nei paesi occidentali
16
.  
Dall’11 settembre in poi, infatti, gli eventi politici hanno inquinato l’atmosfera 
dell’integrazione degli immigrati in Italia. Si vede facilmente che sul livello 
massmediale non si fa differenza tra l’islam e alcuni movimenti di matrice islamica 
che adottano l’uso della violenza come strategia per realizzare i loro obiettivi. Non 
solo i mass media contribuiscono a generalizzare alcuni stereotipi nei confronti 
dell’immigrazione islamica in Italia in particolare e dell’islam in generale, ma anche 
una nuova tendenza che teorizza che i musulmani non possono integrarsi nella 
società che li accoglie
17
.  
Al di là del suo carattere quasi razzista, questa tendenza è sociologicamente 
falsa, perché l’integrazione non dipende dalla religione o dalla cultura della 
popolazione. E’ vero che queste due variabili influiscono sul processo di integrazione 
ma non possono determinarlo decisamente.  
L’integrazione dipende sì dal percorso e dal progetto migratorio di ogni singolo 
soggetto ma anche dalla capacità integrativa e quindi dall’efficienza legislativa del 
paese ospitante. 
 
 
L’analisi da me fatta sul fenomeno migratorio punta a dare un’informazione 
generale, qualitativa e quantitativa, sull’immigrazione esistente oggi in Italia, 
ripercorrendo le tappe della sua evoluzione storica dai tempi della sua comparsa nel 
paese fino ad oggi. Nel fare questo discorrerò innanzitutto sull’esperienza che vide 
l’Italia paese di emigrazione verso il Nord Europa, valutando le ragioni economiche 
che furono alla base dell’esodo, e i successivi cambiamenti a livello locale e 
internazionale che portarono, non solo all’arresto dei flussi in uscita e alla 
“migrazione di ritorno”, ma anche all’inizio di una improvvisa e massiccia 
immigrazione dal Sud del Mondo.  
                                                 
16
 Come vedremo di seguito nella tesi, quella islamica è in Italia la seconda comunità in ordine di presenze. 
17
 Mario Porcellini, I migranti alle porte della cittadella mediale, Dossier “Fuori Orario”, in I problemi 
dell’Informazione/a. XXX n.1 marzo 2005.  
Il  terrorismo è il tema più spesso correlato all’immigrazione. Dopo i reati e gli sbarchi  il terrorismo occupa il 13,7% 
della copertura mediatica. “Da uno sguardo generale, sembra che i media italiani creino associazioni indirette tra il 
pericolo terroristico e i fenomeni migratori, insistendo sulle difficoltà di controllo alle frontiere o sulla diffidenza verso 
‘appartenenza islamica di alcuni immigrati”, p.52   
 12
 Entrerò poi nello specifico delle modalità con cui gli immigrati si sono inseriti 
nei diversi livelli del sistema nazionale: istruzione, lavoro, abitazione e sanità, 
sostenendo la “bontà” e l’importanza dell’apporto dell’immigrazione alla crescita 
culturale ed economica del nostro paese. Parlerò dunque dell’approdo degli 
immigrati sulla nostra terra, momento cruciale in cui si incontrano due realtà 
profondamente diverse, un incontro che può essere più o meno felice e il cui 
successo si misura in base, non solo alla qualità del progetto migratorio di chi arriva, 
al suo bagaglio professionale e alla sua disponibilità a rispettare le regole culturali e 
giuridiche del paese ospitante, ma anche e soprattutto in base alla 
capacità/disponibilità di queste regole ad agevolare l’integrazione del soggetto e 
consentire che l’esperienza migratoria si traduca in reciproco vantaggio, per chi 
richiede accoglienza e per chi la offre.  
 Procederò, quindi, con una dettagliata rassegna delle leggi che a partire dalla 
fine degli anni ’80 hanno regolato il fenomeno. 
 A conclusione del lavoro accennerò sul delicato rapporto tra media e 
immigrazione. Campo di indagine esemplare in questo senso è la stampa nazionale 
che per via del formato, del linguaggio e dei codici che la caratterizzano si presta, 
meglio di altri mezzi, ad una analisi accurata dei contenuti e ad un eventuale 
confronto tra le modalità narrative qualificanti ognuno dei quotidiani presi in esame.  
La scelta dell’argomento, invece, segue la logica dell’attualità: ultima in ordine 
cronologico è la questione sollevata intorno all’ordinanza del 25 agosto del sindaco 
di Firenze contenete il divieto di esercitare il “mestiere di lavavetri” sull’intero 
territorio comunale, e i lavavetri, si sa, sono tutti extracomunitari!  
Emergerà una chiara differenza da giornale a giornale nella pratica di 
newsmaking o “costruzione della notizia”. Le distinzioni riguarderanno, non solo il 
tono - assolutorio o accusatorio, solidale o avverso – del discorso e le scelte 
stilistiche secondo le quali la notizia occupa un determinato “spazio” nel giornale 
(primario o marginale, se non addirittura nullo), ma riguarderanno anche lo specifico 
punto di vista da cui si guarda l’evento, che coincide, e ciò varia in base alla testata 
presa come riferimento, ora con la linea politica del partito di cui il giornale è la 
voce, ora con gli orientamenti redazionali, ora con l’umore diffuso presso l’opinione 
pubblica.  
 
 13
Tuttavia, l’obiettivo finale scosterà dalla semplice descrizione di un fenomeno 
storico, sarà piuttosto quello di dimostrare che lo spostamento di persone da un luogo 
ad un altro del mondo è un dato strutturale, necessario quanto inevitabile. Così come 
sono inevitabili i flussi di persone straniere che entrano nel nostro territorio nazionale 
con la volontà di restare e di vivere tra noi.  
Altra realtà che non si può ignorare né eludere è il multiculturalismo che già da 
qualche anno è un aspetto qualificante  della nostra società e che diverrà sempre più 
nei prossimi anni una caratteristica della popolazione “italiana”.  
A fronte degli allarmi lanciati dai mass media e da alcune forze politiche 
“sull’invasione” straniera e sui pericoli che la presenza immigrata porterebbe con sè 
in termini di delinquenza, di “attacco” all’identità nazionale o ancora di 
appropriazione di posti di lavoro e abitazioni che dovrebbero essere occupati dai 
cittadini italiani, voglio invece dimostrare che, se ben gestita dalle politiche nazionali 
e accettata dall’opinione pubblica, l’immigrazione può essere soprattutto una risorsa, 
culturale e anche economica.  
 
 14
ITALIA, DA PAESE DI EMIGRAZIONE A PAESE DI 
IMMIGRAZIONE. 
 
 
L’EMIGRAZIONE NOSTRANA. 
 
La volontà di tracciare un quadro generale dell’esperienza emigratoria italiana 
trova una duplice giustificazione.  
Innanzi tutto, avere un’idea di quale sia stata l’esperienza degli italiani come 
emigranti all’estero, ci conduce a rintracciare delle similitudini con la realtà vissuta 
dagli immigrati giunti in Italia, agevolando la comprensione delle dinamiche che 
sono alla base degli spostamenti di popolazione; in secondo luogo, ragionare intorno 
all’ampiezza e ai tempi dell’emigrazione italiana, aiuta a comprendere alcune delle 
ragioni per cui i nostri governi hanno tardato a regolare - barcamenandosi tra 
gestione dei flussi in uscita e controllo degli ingressi - il fenomeno 
dell’immigrazione, senza, tra l’altro, riuscire ad impedire che le difficoltà mostrate 
nella regolazione della nuova realtà, si ripercuotessero sull’umore e la capacità di 
accoglienza di larghe componenti della società civile, restie a convivere con un 
numero sempre crescente di stranieri.   
 
Sul finire del XIX secolo e per quasi tutto il secolo successivo l’Italia è stata 
protagonista di due grandi ondate migratorie verso l’estero: la Grande Emigrazione, 
iniziata negli ultimi anni dell’800 e protrattasi sostanzialmente fino alla prima metà 
del 900, che aveva come principale meta il Nord del continente americano, e 
l’emigrazione interna all’Europa che ha avuto inizio negli anni immediatamente 
successivi al secondo conflitto mondiale, quando l’accesso negli USA era divenuto 
più complicato per via della parziale chiusura delle frontiere.  
Fu infatti l’introduzione del sistema delle “quote” in base alla nazionalità di 
origine - il quale, se agevolava l’ingresso di alcune componenti  penalizzava invece 
l’immigrazione di italiani insieme ad altre nazionalità asiatiche, come quella cinese – 
ad indirizzare verso la parte centro settentrionale del Vecchio Continente le rotte 
migratorie degli italiani. 
 
 15
“Gli Stati Uniti, che avevano rappresentato nei primi decenni del 
secolo il più importante sbocco per l’emigrazione italiana, avevano in 
seguito parzialmente chiuso le frontiere e introdotto il [...] Johnson Act 
del 1924, che riduceva drasticamente le possibilità di ingresso negli 
Usa stabilendo quote distinte per i diversi gruppi nazionali, esprimeva 
un grado di discriminazione crescente a mano a mano che si passava 
dall’Europa del Nord a quella del Sud: così la grande ondata 
migratoria [...], in particolare dal Mezzogiorno, risulta forzosamente 
arrestata fin dagli anni venti.”
18
 
 
Alla base di entrambe le esperienze migratorie vi è l’esigenza di trovare  
lavoro. 
Particolarmente esplicativa in questo senso è l’emigrazione innescatasi dopo la 
Liberazione del 1945; allora l’Italia era un paese ancora povero segnato da una  
profonda e cronica disoccupazione, vi era dunque una grande eccedenza di 
manodopera  - soprattutto nel Mezzogiorno – il cui sfogo, per così dire naturale, fu 
ovviamente l’abbandono dei luoghi di residenza per cercare fortuna altrove.  
Tra il 1946 e il 1950 gli espatri annui furono circa 225.000
19
. Tuttavia gli anni 
in cui il fenomeno si mostrò con maggiore consistenza furono quelli comunemente 
detti del “miracolo economico”, ossia il periodo a cavallo degli anni “50 e “60. In 
questo periodo all’emigrazione tradizionale e consolidata verso l’estero si affiancò 
uno spostamento di manodopera interno ai confini nazionali. In particolare 
l’emigrazione interna vedeva lo spostamento dal Sud, poco industrializzato e 
caratterizzato da un’eccedenza di forza lavoro nel settore agricolo, verso il Nord 
industrializzato e bisognoso di accogliere nuovi lavoratori. Questo comportò 
ovviamente l’abbandono delle aree agricole e dei piccoli centri residenziali per 
andare ad affollare le grandi aree urbane – “movimento campagna-città”
20
 - in cui 
sorgevano e si espandevano le nuove metropoli divenute valvole di sfogo per la forte 
pressione demografica esistente nel Mezzogiorno.
21
 
I fattori di attrazione per le città del Nord Italia come per le metropoli 
d’oltralpe erano lo sviluppo industriale, particolarmente forte in Germania e Svizzera 
                                                 
18
 Enrico Pugliese, l’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, il Mulino, Bologna, 2006, p.21. 
19
 Per approfondimenti vedi Vittorio Foa, Questo Novecento, Enaudi, 1996. 
20
 Giovanni Blumer, L’emigrazione italiana in Europa, Feltrinelli, Milano, 1970. 
21
 Ugo Leone, Nuove politiche per l’ambiente, Carrocci editore, Roma, 2006 
 16
che divennero le tappe principali d’emigrazione, e la possibilità di ricevere 
retribuzioni più alte rispetto a quelle offerte lavorando nei luoghi di originaria 
residenza le quali andavano poi a confluire nelle rimesse che furono un fattore di 
grande importanza per la “sopravvivenza” di molte famiglie e più in generale per 
l’economia italiana. 
A partire dalla metà degli anni “50 lo spostamento verso i paesi europei si 
intensifica notevolmente: in Italia, sebbene vi fossero come altrove settori coinvolti 
dal boom economico, vi era ancora uno scarto negativo tra offerta e domanda di 
lavoro soprattutto in quelle aree come il Mezzogiorno dove persistevano aspetti di 
sottosviluppo legati a una mancata politica di industrializzazione e all’incapacità 
dell’agricoltura di sopportare il suo carico demografico.  
A questi fattori “di spinta” corrispondeva la forte attrazione del mercato del 
lavoro estero ( soprattutto tedesco e svizzero) il cui spiccato dinamismo era legato 
allo sviluppo industriale, in particolare alla grande industria destinata alla produzione 
di massa, e all’edilizia, entrambi importanti settori di avvio della grande 
ricostruzione post-bellica
22
.  Il modello lavorativo proprio della produzione a grande 
scala era quello definito taylor-fordista caratterizzato da una retribuzione salariale e 
dalla semplificazione–meccanizzazione del processo lavorativo ben rappresentato 
dalla catena di montaggio.   
Detto questo è facilmente intuibile il bisogno di questi paesi di ricorrere alla 
manodopera straniera, allo stesso modo si spiegano le ragioni per cui possiamo dire 
con una certa attendibilità che l’emigrazione italiana di quegli anni verso l’Europa 
settentrionale fu sostanzialmente caratterizzata dal successo; lo stesso non si può dire 
invece dei progetti migratori verso il Sud America o l’Australia ( mete secondarie 
dell’emigrazione italiana) spesso condotti al fallimento dalla forte instabilità 
economica di quei paesi. Inoltre, tornando a fare riferimento all’emigrazione 
d’oltralpe, l’Italia come paese di emigrazione era in una posizione privilegiata, sia 
per la vicinanza geografica alle principali aree di destinazione che per la sua 
appartenenza alla neocostituita Comunità Economica Europea.  
 
  
                                                 
22
 Per approfondimenti Umberto Melotti , Marcella Delle Donne, Stefano Petilli, Immigrazione in Europa. Solidarietà e 
conflitto, CEDISS, Roma, 1993.