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INTRODUZIONE  
All'interno di ogni lingua vi sono delle varianti determinate dai fattori più disparati quali l’età, la posi-
zione sociale, l'occupazione, ecc. che possono avere da lingua a lingua diversa presenza e vario grado d'impor-
tanza, secondo i valori sociali della comunità che utilizza la lingua. Ma c'è una variante che è presente in tutte 
le lingue, almeno tutte quelle finora studiate: è quella legata al sesso del parlante. All'interno di questo duali-
smo linguistico (varietà maschile vs. varietà femminile) la differenziazione viene a presentarsi con caratteri 
tipici ed esclusivi di ogni lingua. Ma se tale differenza è palese in alcune lingue (essendo codificata), in altre la 
linea di demarcazione tra le due varietà è più o meno nitida. Nessuna delle due varianti, in nessuna lingua, può 
però vantarsi di essere quella "vera", quella "standard". Ne deriverebbe altrimenti, una superiorità intellettuale 
da parte di uno dei due gruppi (uomini o donne) che costituiscono la comunità dei parlanti. Tesi ovviamente 
inaccettabile da un punto di vista scientifico, in quanto indimostrabile. Tuttavia, per anni la linguistica ha inda-
gato sul come e sul perché le donne parlassero diversamente: ma diversamente da chi? E' pur vero che per se-
coli e in ogni civiltà coloro che hanno "fatto" e utilizzato la lingua nel modo più creativo e produttivo sono stati 
uomini: ci riferiamo a scrittori, uomini di religione, scienziati, ecc.; ma se poi paragoniamo il numero di tali 
parlanti con il resto di tutti gli altri parlanti, tali uomini rimangono pur sempre un’esigua minoranza.  
L'atteggiamento di presunta superiorità della variante maschile riflette, del resto, il ruolo dell'uomo al-
l'interno della società durante tutta la sua storia. Oltretutto, in molte società, alcune professioni che avevano un 
rapporto particolare con la lingua quali: scribi, preti, esegeti, politici erano esclusivo appannaggio degli uomini 
ed in alcuni casi rigorosamente vietati alle donne. C’è da aggiungere ancora che tutti i profeti, gli iniziati, i 
fondatori di tutte le religioni antiche e di ogni civiltà, sono stati uomini (Gesù, Buddha, Maometto, Lao Zi, 
Confucio, ecc.) i cui testi, scritti da loro stessi o riportanti le loro parole, hanno costituito per secoli, nelle ri-
spettive civiltà, i "libri" per eccellenza, alle cui parole, i vari esegeti, hanno trovato significati reconditi, signi-
ficati di enorme importanza per la vita dei singoli, della comunità tutta e del futuro di entrambi. Inutile ricorda-
re che coloro che ricercavano ed individuavano tali significati reconditi erano ancora una volta uomini e non 
donne. Tutto questo attribuiva loro un potere, oltre a quello già posseduto, anche nel campo della lingua, delle 
sue regole e del suo corretto utilizzo. 
Sono stati quindi gli uomini e non le donne a sviluppare nei secoli le lingue, a codificarne l'uso ed a re-
golamentarlo. In Giappone ad esempio, con l'introduzione dei caratteri e ella lingua cinese, questi divennero 
appannaggio degli uomini di corte, mentre per le donne venne sviluppato un alfabeto sillabico (lo hiragana). 
Ma il linguaggio è sessista, cioè privilegia un sesso (più precisamente quello maschile) rispetto all'altro 
anche nel lessico: ad esempio quando si dice "Uomo" ci si riferisce sia al maschio dell'homo sapiens, sia al-
l'homo sapiens nel suo complesso. Nelle lingue che distinguono i generi, per molte professioni, esiste solo il 
termine al maschile per indicare sia gli uomini sia le donne. 
Ma anche quando si producono messaggi destinati a tutti si utilizza la forma maschile per indicare sia 
gli uomini sia le donne. Ad esempio è frequente dire "Tutti gli studenti..." in una scuola frequentata da entram-
bi i sessi o addirittura solo femminile. Ciò e sicuramente un retaggio dell'antico predominio sociale degli uo-
mini, che si è trasformato in una norma linguistica accettata da tutti, spesso inconsciamente, anche oggi in una 
società fortemente egualitaria.  
Analizziamo ora quali sono le differenze più comuni tra le due varietà e le loro motivazioni. 
  
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Capitolo I 
Principali differenze tra linguaggio maschile e femminile  
1.1 Breve storia delle ricerche 
Nel 17° e 18° secolo studiosi, esploratori e missionari europei, in ogni parte del mondo, descrivendo le 
lingue che incontrano, parlano di lingue in cui non è distinguibile il genere e lingue in cui vi sono differenze 
sensibili tra parlata maschile e femminile (Bodine, 1975). 
E' nel 1664 che per la prima volta si fa’ cenno ad una differenziazione sessuale in una lingua: in un rac-
conto di viaggio si afferma che nei Caraibi uomini e donne di una stessa tribù usano lingue diverse (citato in 
Jespersen, 1922). 
Gli studi continuarono nel 19° secolo con i primi etnologi. Ma stranamente tutto quest’interesse non 
produsse nessuno studio serio sulle lingue di tali ricercatori e cioè nelle lingue europee. Probabilmente perché 
le differenze trovate nelle altre lingue erano più sensibili ed evidenti e perché la differenziazione nelle lingue 
europee è di tipo preferenziale, vale a dire è uno dei due sessi che tendenzialmente usa di più certe forme e cer-
ti vocaboli ma non sono poi vietati all'altro sesso. Nelle lingue all'epoca studiate, invece, le differenze erano di 
tipo esclusivo, cioè uno solo dei due sessi è abilitato ad usare certe forme o certi vocaboli. Gli studiosi europei 
quindi licenziarono il linguaggio femminile delle lingue europee, con i soliti vecchi stereotipi (il linguaggio 
delle donne è modesto, peculiare, illogico, conservatore, le donne tendono a parlare molto, ecc...) senza indaga-
re ulteriormente. Vedremo poi che gli studi più recenti hanno dimostrato la non validità di tali stereotipi, dimo-
strando in alcuni casi il contrario di ciò che si credeva (Zimmerman & West, 1975). 
I primi studi seri risalgono agli anni '40 ma riguardano sempre le lingue non indoeuropee (Haas, 1944; 
Flannery, 1946). Ma è solo negli anni '70 che, grazie anche ai movimenti femministi, l'argomento viene affron-
tato anche nelle lingue occidentali, in rapporto allo sviluppo della sociolinguistica e con l'abbandono degli ste-
reotipi legati al sesso (Trudgill, 1972; Brend, 1972). A questi studi hanno poi contribuito diverse discipline: 
antropologia, psicologia, critica letteraria, sociologia, ognuna con il suo metodo e nel suo campo di ricerca, 
contribuendo così ad allargare i confini di tale ricerca, anche se molti aspetti della comunicazione intersessuale 
ci sono ancora oscuri. In particolare ci sono oscuri quei meccanismi che sono alla base della differenziazione, 
mentre gli aspetti diciamo cosi "quantizzabili" sono già stati studiati ampiamente in molte lingue. 
Il sesso è indubbiamente uno dei fattori che influenzano il comportamento linguistico, ma non è l'unico: 
vi è anche l'età, l'occupazione, la classe sociale, e così via. E’ quindi difficile districarsi in questa giungla d'in-
fluenze ed individuarne il loro effetto singolarmente. La cosa si complica ulteriormente, poi, quando i due in-
terlocutori, oltre a distinguersi per il sesso, si distinguono anche per età, classi sociali, dialetti, ecc. Pur tuttavia 
molti studi sono stati intrapresi, studi che hanno ribaltato gli stereotipi legati ai due linguaggi (maschile e fem-
minile) ma in qualche caso li hanno confermati. Alcuni stereotipi riflettono lo status minore spesso associato al 
linguaggio femminile, caratterizzandolo come: emozionale, impreciso, meno efficace di quello degli uomini, 
eufemistico, dal timbro acuto, stupido. Sulla validità di tali assunzioni e ella diversità di status abbiamo già 
parlato. E' stata dimostrata invece (Lakoff, 1973) la possibilità del linguaggio maschile di produrre enunciati 
più forti ed energici che consolidano la posizione di forza dell'uomo nel mondo reale. Una delle cause che 
stanno alla base delle differenziazioni sessuali è appunto la divisione sociale del lavoro, peculiare sì di ogni 
cultura, ma che vede comunemente l'uomo in una posizione di supremazia. 
Ma quand'è che nella vita di un uomo si comincia ad apprendere un linguaggio marcato? Anche qui, 
almeno fino ad oggi, si naviga nel mare delle ipotesi. Ad esempio Lakoff (1973) suggerisce che i bambini fino 
ai tre anni imparano il linguaggio femminile (quello delle madri e delle maestre). Dai tre ai sei anni cominciano 
a sorgere le prime differenze: i maschietti iniziano ad identificarsi con il padre e di conseguenza ad imitarne il 
linguaggio per affermare la propria mascolinità, cosi come nei giochi. A dieci anni entrambi i linguaggi sono 
presenti e differenziati. Successivamente tali differenze vengono sviluppate e rafforzate assegnando ai due ses-
si posti e compiti diversi nella società. E nel caso che una donna occupi un posto dirigenziale, tradizionalmente 
assegnato ad un uomo, essa assume un linguaggio sul posto di lavoro, tendente a quello marcato dei maschi, 
trovandolo più adatto a produrre enunciati forti tipici di posizioni di comando. Tornando a casa, poi, abbando-
  
5 
na tale linguaggio e ritorna ad uno più tipicamente femminile. Tuttavia casi inversi, di uomini cioè che utiliz-
zano forme femminili, sono molto più rari e vengono quasi sempre stigmatizzati e/o ridicolizzati. 
Un altro degli stereotipi attribuiti alle donne era la logorrea; studi recenti (Hilper et alii, 1975; Soskine e 
John, 1963) hanno invece dimostrato il contrario: in gruppi misti sono gli uomini a parlare di più. Come sono 
gli uomini che tendono più facilmente ad interrompere le donne che viceversa e le donne permettono più fa-
cilmente di essere interrotte; ciò indicherebbe sottomissione agli uomini (Zimmerman e West, 1975). Un altro 
indice della supremazia maschile sembrerebbe la facilità degli uomini ad ingaggiare duelli verbali (Mitchell-
Kernan, 1973). Forse perché secondo alcuni studi (Argyle et alii, 1970; Rosenthal et alii, 1974) le donne sem-
brano più sensibili agli stimoli ed ai suggerimenti non-verbali. Così come generalmente gli uomini tendono più 
a discutere sugli argomenti formulati da altri uomini, mentre le donne sono più inclini a convenire con gli ar-
gomenti formulati da altre donne, ed è forse per questo che in coppie dello stesso sesso, come suggerisce Hir-
schmann (1973) in base ad analisi sperimentali, le donne possono parlare tra loro più facilmente di quanto lo 
facciano gli uomini. Inoltre, sembra (Jespersen, 1922; Flexner, 1960) che le donne siano meno portate degli 
uomini a bestemmiare, ad usare un linguaggio più gentile e ad usare forme più corrette anche da un punto di 
vista fonologico. Anche tutto ciò sembrerebbe derivare da una posizione di supremazia maschile in quanto, le 
donne, comportandosi in tal modo, utilizzando un linguaggio "socialmente" più elevato, facilitano il loro in-
gresso e la loro posizione all'interno della comunità. 
Da un punto di vista più strettamente tecnico, le differenze possono essere basate sul sesso:  
 
1. del Parlante 
2. dell'Ascoltatore 
3. di colui di cui si sta parlando 
4. del sesso di chi parla e di chi ascolta 
Il quarto caso è il più raro anche se esistono lingue in cui vi sono delle varietà utilizzate solo ed esclusi-
vamente tra parlanti maschili, come nelle lingue Chiquita (S. America) e Yana (N. America). 
Tuttavia un universale linguistico sembra essere la differenziazione di alcuni nomi, basata sul sesso di 
colui di cui si sta parlando. Ed un altro sembra essere la differenziazione nei nomi basata sul sesso dell'interlo-
cutore nelle lingue che hanno differenze basate sul sesso del parlante (Bodine, 1975). 
C'è da precisare ora che le differenze di cui abbiamo parlato sono quasi esclusivamente di tipo morfolo-
gico, mentre differenze di tipo fonologico sono sorprendentemente poche (Bodine, 1975). Inoltre nessuna lin-
gua presenta cospicue e profonde differenze sintattiche nei due sessi, mentre differenze superficiali appaiono 
abbastanza spesso come marche sessuali costanti. Oltre a queste, possono esserci differenze nel lessico 
utilizzato, le quali possono essere sia esclusive sia preferenziali da parte dei due sessi. 
Le donne usano generalmente più parole implicanti sentimenti, emozioni e motivazioni, mentre gli uo-
mini più parole implicanti tempo, spazio, quantità ed azioni distruttive (Glaser et alii, 1959 pp.182-191). Inol-
tre, agli uomini viene associato uno stile cognitivo-analitico che li porterebbe a collocare i loro enunciati nello 
spazio, più di quanto lo facciano le donne. Viceversa, lo stile cognitivo-sintetico, normalmente associato alle 
donne, le porterebbe ad interessarsi più a come le azioni si svolgono che dove e quando (Barron, 1971 cit. in 
Shibamoto, 1985). Nella stessa ricerca viene affermato che nello stile interattivo gli uomini sono più orientati 
verso se stessi, mentre le donne più verso gli altri (Barron, 1971). Se ne può dedurre, quindi, che il linguaggio 
maschile è caratterizzato dall'azione e dalla proiezioni di se stesso come attore nel suo ambiente. 
Abbiamo quindi visto, in questa brevissima rassegna, che gli studi più moderni hanno investigato in o-
gni campo le differenze sessuali nel linguaggio, ma c'è ancora moltissimo da fare, anche perché la società, in 
continua e rapida evoluzione, tende a sconvolgere i tradizionali ruoli assegnati ai due sessi; ed abbiamo visto 
come molti comportamenti linguistici abbiano alla base tale distinzione di ruoli. 
Ma c'è un punto di partenza che dovrà segnare gli studi futuri, senza il quale questi perderebbero la loro 
attendibilità, si dovrà cioè non considerare più il linguaggio maschile quello neutro e quello femminile come 
quello marcato. 
  
6 
Capitolo II 
Il linguaggio maschile in Giappone 
2.1 Caratteri generali 
La lingua giapponese presenta una serie di comportamenti linguistici (riguardanti soprattutto differenze 
nella morfologia, nella sintassi e nel lessico) legati al contesto della conversazione, alla differenza di status del 
parlante e dell'ascoltatore e ovviamente anche al sesso. Poiché questi comportamenti sono codificati, tanto da 
costituire parte integrante della lingua stessa, anche il parlante medio è conscio delle differenze macroscopiche 
della lingua legate al sesso dei parlanti pur non essendo un linguista. Tuttavia non vogliamo sostenere che ogni 
giapponese conosce ogni minima differenza nei due linguaggi; ci sono molti aspetti, soprattutto quelli più in-
consci e profondi, che non sono ancora chiari nemmeno agli studiosi e che necessitano ancora di studi appro-
fonditi. 
La prima testimonianza di linguaggio marcato appare nel Man'yoshu (8 sec.), dove sono utilizzati pro-
nomi personali indicanti il genere. Nel 11° secolo con la diffusione dei caratteri cinesi, questi ultimi e la lingua 
cinese furono monopolizzati dagli uomini di corte, per le donne fu sviluppato un sillabario (lo hiragana) deri-
vato dai caratteri cinesi. Dal 14° secolo in poi la classe dei militari in un contesto socio-politico "feudale", ac-
quistando potere, relegava le donne sempre più in basso nella scala sociale. Tale polarizzazione sociale ha ov-
viamente influenzato anche il linguaggio; ancor oggi, dove le donne hanno gli stessi diritti degli uomini, è sen-
sibile il retaggio di tale influenza. Ad esempio gli uomini usano maggiormente termini sino-giapponesi, ritenuti 
più colti dei corrispondenti termini indigeni (Shibatani, 1990). Così come un maggior uso di forme onorifiche 
da parte delle donne è conseguenza della loro educazione che tende a renderle gentili e servili nei confronti de-
gli uomini. Questo non significa che tali forme siano femminili in sé, ma che l'uso in certe situazioni sociali è 
tipicamente femminile. Per cui se un livello di gentilezza è considerato elevato per un uomo, per una donna 
viene invece considerato un livello standard (Kodansha pp.251). Anche l'utilizzo di certe particelle finali come 
wa e no non è considerato esclusivamente femminile da un punto di vista sintattico, ma a causa della loro mi-
nore forza assertiva vengono associate di conseguenza allo status più debole ovvero quello femminile. Mentre 
al contrario, gli uomini utilizzano forme considerate volgari in una conversazione mista sessualmente, come 
dimostrazione della loro mascolinità e assenza d’inibizioni; di tali forme non ne esistono controparti femminili. 
Come non ci sono controparti femminili dei pronomi di seconda persona considerate completamente non for-
mali quali omae ed ore. Anche in questo caso all'utilizzo degli stessi pronomi personali di prima e seconda per-
sona, watashi (o watakushi) e anata, vengono associati due livelli diversi di formalità ovvero più formale per 
gli uomini e quasi standard per le donne.Uno studio molto interessante è stato compiuto analizzando dei testi 
scritti da uomini e donne giapponesi (Makino, 1990). In tale studio è stato messo in evidenza il fatto che le 
donne tendono ad essere più vicine al lettore mentre gli uomini tendono ad essere più auto-impositivi, mentre 
nella descrizione di una notizia tendono meno delle donne ad inserire commenti personali. 
Anche in Giappone è stata osservata (Haig, 1990) la tendenza secondo cui gli uomini conservano mag-
giormente il dialetto locale, a differenza delle donne che invece si spostano più verso la lingua standard; ciò a 
causa di una pretesa maggior virilità del dialetto locale rispetto alla nuova lingua. 
Molti studi sono stati intrapresi, oltre a quelli appena citati, tuttavia la maggior parte di loro analizzano 
solo il linguaggio femminile, seguendo il vecchio stereotipo discusso precedentemente. Mancano quindi studi 
approfonditi sul linguaggio maschile in Giappone; sarebbe interessante ad esempio studiare come e quanto è 
cambiata la differenziazione sessuale negli ultimi anni, in un Giappone dove l'alfabetizzazione e la scolarizza-
zione sono tra le più alte del mondo, in una società in continua espansione dove le donne cominciano ad affer-
marsi in posti tradizionalmente ricoperti solo da uomini. Sarebbe altresì interessante studiare la diffusione e 
l'uso dell'enorme numero di parole straniere (per lo più inglesi) che entrano nella lingua giapponese dei nostri 
giorni: sono di più gli uomini o le donne ad utilizzarle più frequentemente? E perché? Dove: a casa? Sul lavo-
ro?In questa nuova situazione, quindi, molte ricerche dovrebbero essere aggiornate. 
  
7 
2.2 Fonetica e fonologia 
Gli studi sistematici riguardanti gli aspetti fonologici del linguaggio marcato sessualmente sono quasi 
del tutto inesistenti. Inoltre, quei pochi studi pubblicati sono basati più su osservazioni personali che su ricer-
che quantitative analizzate scientificamente.  
Tradizionalmente alla voce maschile vengono attribuiti dei caratteri distintivi come un timbro più grave 
e un intonazione discendente tipica delle particelle finali, simile al quarto tono della lingua cinese standard. 
Uno dei fenomeni più studiati è quello che va sotto il nome di assimilazione di /r/.  Nelle sillabe compo-
ste da: r + vocale + nasale accade che la vocale viene omessa e la monovibrante /r/ viene assimilata alla nasale 
successiva. Sebbene tale caratteristica sia presente in entrambi i sessi, pare che sia maggiormente presente nel 
linguaggio femminile (Peng, 1977). 
Un altro comportamento linguistico documentato (Shibatani, 1990) riguarda la fusione dei gruppi vocalici /ai/, 
/ae/, /oi/ che diventano /ee/ nel linguaggio informale maschile nella provincia di Tokyo, come nel pronome 
personale omae ('tu'), che diventa omee. Laddove viene però richiesto un registro linguistico più alto, tale com-
portamento tende a scomparire. 
Nel nostro testo campione comparivano inoltre una serie di caratteristiche fonetiche non riscontrate in 
nessun altro studio sul linguaggio marcato sessualmente.  
La prima riguarda l'omissione della vocale dopo la nasale /n/, nel caso delle particelle no, mono e dell’ausiliare 
nai ('non esistere'). 
 
mon < mono 
どんな   もん   です   か   
Donna Mon desu ka 
che tipo Cosa Cop. (p.f.) 
 
Di che si tratta? 
kamawan < kamawanai 
いや   かまわん   よ   
iya kamawan yo 
no non preoccuparsi (p.f.) 
 
Non fa niente! 
L'omissione di una vocale è stata riscontrata anche in altri due casi: il primo nel composto Vte oru, dove 
viene omessa la vocale /e/, trasformandosi quindi in: Vtoru. 
 
ホウム   へ   きとった   よ   
hoomu e kitotta yo 
casa (part.) venire (p.f.) 
 
E' venuto a casa! 
La cui forma regolare sarebbe: kite otta. 
La seconda riguarda l'omissione della /i/ nel composto Vte iru, che si trasforma in: Vteru. 
 
おぼえてる   わ   あたし   
oboeteru wa atashi 
ricordare (p.f.) Io 
 
Me lo ricordo, Io. 
La cui forma regolare sarebbe: oboete iru. 
  
8 
Analizzeremo più in là le distribuzioni nei due sessi di tali caratteristiche e le interessanti implicazioni 
sociolinguistiche. 
2.3 Il lessico 
Le differenze legate al lessico, sono da sempre una delle caratteristiche della lingua che il parlante giap-
ponese conosce ed applica coscientemente. 
Abbiamo già parlato dell'uso di termini sino-giapponesi da parte dei due sessi, all'epoca della loro intro-
duzione. 
Nel periodo Muromachi (1333-1568) le donne sviluppano una varietà linguistica, chiamata nyooboo ko-
toba, con un suo vocabolario; tuttora le donne giapponesi ne utilizzano alcuni termini: ad esempio ohiya al po-
sto di omizu ('acqua') (Kodansha pp.250). 
Nella lingua moderna gli ambiti lessicali in cui si manifestano maggiori differenze sono: le interiezioni, 
i pronomi personali, l'uso dei kango, le particelle finali, ma di queste ultime parleremo più approfonditamente 
nel capitolo successivo. Riguardo al primo punto esistono interiezioni esclusivamente maschili come: aa ('si'), 
oi ('ehi'!), un e varianti ('si') ed altre esclusivamente femminili come: maa  ('beh...'),  ara ('oh'!). 
Il maggior uso dei kango da parte degli uomini è spiegabile come retaggio della loro posizione di pre-
dominio sociale e di un elevato registro linguistico associato alla lingua cinese (Kodansha pp.124). 
Ma è nell'ambito dei pronomi personali che le differenze sono quantitativamente e qualitativamente più 
interessanti, soprattutto in quelli di prima e seconda persona. I pronomi di terza persona, pur esistendo, vengo-
no generalmente evitati; al loro posto si usano dei sostituti come: il titolo (ad esempio oisha san 'il dottore') 
oppure l'espressione ano kata ('quella persona'), il cognome più gli onorifici san, kun o chan od un termine re-
ferenziale derivato dalla relazione sociale tra il parlante e l'ascoltatore: ad esempio Yamadasan ('il signor Ya-
mada') oppure Asaisensei ('il professor Asai') (Shibatani, 1990). 
Il pronome di prima persona watakushi ('Io') viene utilizzato da entrambi i sessi e solo in situazioni molto for-
mali. Gli uomini invece, utilizzano molto più frequentemente forme derivate quali: watashi e washi (quest'ul-
timo dagli uomini oltre i cinquant'anni). Altri pronomi utilizzati dagli uomini sono, in ordine di formalità: wa-
gahai, boku ed ore. 
Le donne usano forme quali: watashi, atakushi, atashi e atai (usato dalle bambine) (Shibamoto, 1990). 
Riguardo ai pronomi di seconda persona, mentre ne abbiamo alcuni quali anata ed anta (molto meno 
formale), utilizzati da entrambi i sessi, ve ne sono alcuni che invece sono utilizzati esclusivamente dagli uomi-
ni, quali: omae, kimi e kimisama (Shibatani, 1990). Sembrano quindi gli uomini a possedere un repertorio più 
ricco e differenziato. 
Infine, per quanto riguarda i pronomi di prima e seconda persona plurale, non esistono termini autono-
mi. Per formare i pronomi personali plurali vengono usati dei suffissi posposti ai pronomi singolari, usati indif-
ferentemente da entrambi i sessi. 
2.4 Morfologia e sintassi 
Il giapponese è una lingua di tipo SOV, avente cioè il verbo alla fine della frase. La scelta del tipo e del-
la forma di quest'ultimo gioca un ruolo fondamentale nella maggiore o minore formalità di tutto l'enunciato. Lo 
stesso si può dire delle particelle finali. La scelta del verbo e delle particelle finali è influenzata, inoltre, dal 
sesso. Vedremo ora più dettagliatamente come. 
2.4.1 Le particelle finali 
Nella lingua parlata, molto più che in quella scritta, vengono utilizzate tutta una serie di particella fina-
li, il cui uso è legato a diversi fattori. Una dei fattori predominanti è il sesso: sia quello del parlante sia quello 
dell'interlocutore. Ovvero, esistono sia particelle esclusivamente maschili che femminili, tuttavia quelle marca-
te sessualmente vengono usate con maggior frequenza tra interlocutori dello stesso sesso (Peng, 1981).