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l’ambiente, equilibrio che chiama in causa direttamente la società nel suo 
complesso, dagli aspetti economici, politici e sociali, a quelli 
specificamente culturali. 
L’esperienza, ormai  consueta, di essere a contatto con persone 
appartenenti ad altre culture, determina uno spazio di riflessione sulla 
vita e soprattutto sulla qualità dell’esistenza, un fattore questo che 
interessa tutti noi esseri umani qualunque sia la  provenienza, il colore 
della pelle e la cultura e che deve essere sfruttato come spunto per 
allargare le proprie conoscenze. 
Poste queste premesse di ordine generale, va evidenziato che il 
lavoro, qui proposto, si concentra sull'analisi di un’esperienza, di un 
incontro con mariti e mogli immigrati, provenienti dall’Iran, e residenti 
nella zona di Roma. 
L’intento della ricerca  è stato sia quello di rivolgere particolare 
attenzione alle dinamiche culturali e psicologiche  che scaturiscono dalle 
conseguenze degli eventuali  disagi vissuti in quanto immigrati in Italia, 
sia di conoscere le modalità di gestione familiare ed in particolare 
coniugale, che caratterizzano gli iraniani. 
E' un dato di fatto che nell'ambito delle scienze che riguardano 
l'uomo sia impossibile scindere lo studio della persona dal contesto nel 
 - 3 -
quale vive, e quindi é evidente l'influenza che tale contesto può 
esercitare sulla persona stessa. 
Si è parlato di un equilibrio che l’uomo instaura con l’ambiente; 
ora è innegabile che nell’immigrato, sradicato dal suo contesto naturale, 
per cause di forza maggiore o per scelta personale, e costretto a vivere in 
un ambito a lui estraneo, questo equilibrio sia difficile da raggiungere. In 
un paese straniero di cui si sa poco o nulla, la vita diventa più 
problematica e spesso la difficoltà nel fronteggiare le molteplici 
situazioni può influire sul patrimonio psicofisico deteriorandolo anche in 
maniera irreparabile. 
Il lavoro, l'alloggio, lo scontro con la diversità e la voglia di 
integrazione sono solo alcuni dei problemi di fronte ai quali l'immigrato 
si trova non appena mette piede in un paese straniero e sono tali disagi a 
provocare  quel senso di inquietudine, di stress, di negatività che molto 
spesso può causare anche serie malattie. 
Diventa, dunque, preminente riflettere sui disagi culturali che 
l’immigrato soffre nel paese straniero.  
In un contesto di continui movimenti di popoli da un Paese 
all’altro, è fondamentale e compito di ogni studioso iniziare un processo 
di collaborazione fra le varie scienze tale da permettere il 
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raggiungimento di una multidisciplinarità utile alla conoscenza di culture 
altre rispetto a quelle di appartenenza. 
A proposito della multidisciplinarità, G. Devereux, sostiene, 
infatti, che, 
“Un fenomeno umano che venga spiegato in un solo modo rimane, per così dire, 
ancora inesplicato anche e soprattutto se la prima spiegazione lo rende 
perfettamente comprensibile, controllabile e prevedibile nel quadro di riferimento 
che gli é proprio”.
1
 
Inoltre, attraverso il principio di complementarietà,
2
  Devereux 
promuove l’importanza  della ricerca pluridisciplinare in cui ciascuna 
spiegazione del fenomeno dato abbia la sua totale indipendenza  e allo 
stesso tempo concorra ad arricchire la teoria di spunti e spiegazioni 
interessanti.  
Devereux sostiene, altresì, che si debba tener conto del “Criterio 
del rendimento” ossia, 
“[...] quando lo sforzo esplicativo supplementare dello psicologo non produce più 
un rendimento supplementare proporzionale, cioè quando non è più redditizio, è 
tempo di fare ricorso alle spiegazioni sociologiche, e viceversa”.
3
 
Sulla base di tale impostazione multidisciplinare, lo studio è 
dunque finalizzato alla descrizione del fenomeno immigratorio, con un 
                                                 
1
 G. Devereux, Saggi di etnopsicanalisi complementarista, Milano, Bompiani 1975, p. 11 
2
 Devereux ricava tale principio dalla Nozione di Complementarità di Bohr  che rappresenta una 
generalizzazione del principio di indeterminazione (o di incertezza) enunciato da Heisenberg, il quale 
cercava di chiarire un problema fondamentale della fisica dei quanti. Tale principio afferma che è 
impossibile determinare (misurare) simultaneamente e con la stessa precisione la posizione e il 
momento di un elettrone. Maggiore è la precisione con cui possiamo determinare la posizione 
dell’elettrone (in un istante dato), più imprecisa diviene in effetti la determinazione del suo momento, 
e, naturalmente, viceversa, come se proprio l’esperienza a cui è stato sottoposto “forzasse” l’elettrone 
ad assumere una posizione o un momento precisi. Ib. op citata.  (p. 19 Argomento). 
3
 G. Devereux, op. citata, 1975, p. 15 
 - 5 -
particolare riguardo alla popolazione iraniana ed in ispecie al loro modo 
di gestire l’unione matrimoniale e di come l’esperienza migratoria possa 
aver determinato dei cambiamenti nella coppia.. 
La ricerca si è svolta nel seguente modo : 
la prima parte del lavoro ha riguardato un esame della cultura 
islamica, per meglio comprendere la presenza di particolari 
comportamenti riscontrati all’interno delle coppie ; quindi sono stati  
discussi argomenti riguardanti la diversità culturale, i rapporti con  loro 
ipotizzati come diversi e distinti da “noi” e dalla nostra cultura e quindi 
tutti i fenomeni che da tali rapporti scaturiscono, tenendo come punto 
fermo la dinamica di formazione e trasformazione delle identità 
culturali. 
Poi si è passati ad una breve descrizione del fenomeno 
immigratorio musulmano, ed in particolare iraniano, in modo da 
evidenziarne le principali caratteristiche in Italia, infine, entrando nel 
vivo dell’indagine è stata raccontata l’esperienza diretta con le famiglie 
iraniane, con l’analisi di brevi scorci delle conversazioni avute con 
queste ultimi. 
Riportando l’attenzione sugli eventi che definiscono le prime fasi 
di un processo migratorio, dobbiamo ricordare che la persona si trova, 
quasi immediatamente, a dover affrontare gli urgenti bisogni materiali, a 
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dover reinterpretare i propri codici culturali secondo quelle che sono le 
linee del paese ospite. L’organizzazione della vita quotidiana, la 
comunicazione, l’abbigliamento, l’alimentazione, il vivere in una grande 
città, con tutti i suoi vantaggi e svantaggi, l’imparare ad orientarsi nel 
“dedalo” dei servizi cittadini, fino alla diversa interpretazione e 
soddisfazione dei bisogni psicofisici, sono problemi pressanti. 
La consapevolezza di ciò può favorire un’azione volta al 
superamento di barriere ancora esistenti in Italia e un’educazione verso 
progetti di coesistenza fra soggetti diversi per cultura - sottolineando che 
tali devono rimanere - ma uguali per ciò che riguarda gli innumerevoli 
diritti che a ciascun essere umano vanno assicurati. 
Il vissuto di insicurezza che gli immigrati provano appena arrivati 
è dovuto alle incertezze ed alle ansie che nascono di fronte all’ignoto. 
Questi fattori conducono spesso ad una situazione di abbandono 
che li porta ad essere incapaci, a volte, di utilizzare con efficacia le 
risorse di cui dispongono e che costituiscono il loro bagaglio. 
Kafka nel suo romanzo America( 1927),descrive l’emozione che 
coinvolge il giovane protagonista, quando, giunto nel porto di New York 
con la nave sulla quale viaggiava come migrante, si prepara a scendere 
con il suo bagaglio in spalla, assaporando già la felicità di entrare nella 
grande mela. Ma la sua euforia si trasforma presto in amarezza quando 
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scopre, qualche attimo dopo, che la  valigia che aveva lasciato vicino ad 
uno sconosciuto per andare a riprendere un ombrello dimenticato nella 
confusione dello sbarco, è scomparsa e non può proprio comprendere 
perché durante il viaggio l’aveva custodita con tanta attenzione da non 
riuscire a dormire tranquillo, dato che ora se l’era lasciata portare via 
così facilmente. 
La perdita, lo scippo della valigia riassume simbolicamente tutte 
le perdite subite con l’emigrazione, i beni più cari ; ma anche 
rappresenta la perdita temporanea dell’identità a causa dell’impatto con 
l’arrivo. Lo sconosciuto che ruba la valigia al protagonista del romanzo 
di Kafka rappresenta l’ignoto che si trova nel paese di accoglienza, che 
inizialmente disorganizza e confonde chi arriva.  
La transculturalità, dimensione nella quale abbiamo inserito lo 
studio dell’immigrazione, ci porta proprio a constatare come ogni branca 
della scienza moderna  non può essere acriticamente applicata e trovare 
consenso fra individui che possiedono concezioni e culture 
estremamente diverse, cosicché anche lo psicologo deve iniziare un 
percorso di inserimento in un contesto multietnico. 
Il termine transculturalità significa “attraverso le culture” e  
presuppone un contatto non violento di individui provenienti da diverse 
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parti del mondo, osservati però come individui nati e cresciuti in un 
contesto specifico. 
Ricordando l’affermazione di C. Geertz, 
“[...] l'uomo é un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha 
intessuto, credo che la cultura consista in queste reti e che perciò la loro analisi non 
sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza 
interpretativa in cerca di significato"
4
 
dobbiamo sottolineare che la posizione dello studioso dell’uomo sia esso 
un antropologo, un etnologo, uno psicologo, un medico debba essere 
quella di uno scienziato che parte dal presupposto che la cultura di un 
uomo vada descritta ed interpretata tenendo sempre presente il contesto 
nel quale si è sviluppata, nell’obiettivo di individuarne i significati più 
nascosti. 
Nello stesso tempo, interpretare una cultura, non significa 
individuare una sorta di realtà superorganica dotata di forze e scopi suoi 
propri. Né pensare alla cultura come “...il rozzo schema degli eventi 
comportamentali che osserviamo in una qualche comunità identificabile 
[...]”;
5
 né si può pensare, sulla scorta delle teorie dell'antropologia 
cognitiva - che considera la cultura composta di strutture psicologiche 
che orientano il comportamento umano -, di elaborare un concetto di 
cultura come elemento distinto ed estraneo all’uomo. A tal proposito 
                                                 
4
 C. Geertz, Interpretazione di culture, Bologna,  Il  Mulino, 1987, p. 41 
5
 Ibidem, op. citata, p. 48 
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Geertz, criticando, in parte, le teorie classiche dell’antropologia 
cognitiva di cui fu uno dei più importanti esponenti, sostiene che, 
"Estrarre cristalli simmetrici di significato, purificati dalla complessità 
materiale in cui erano collocati, e poi attribuire la loro esistenza a principi di ordine 
autogeni, proprietà universali della mente umana, o vaste Weltanschauugen 
aprioristiche, é fingere una scienza che non esiste, immaginare una realtà che non 
si può trovare. L'analisi culturale consiste (o dovrebbe consistere) nell'ipotizzare 
significati, valutare le ipotesi e trarre conclusioni esplicative dalle ipotesi migliori, 
ma non scoprire il Continente del Significato e tracciarne il paesaggio immateriale 
su una sorta di carta geografica".
6
 
Tutto ciò deve significare la presa in carico moderna di un individuo, 
appunto l’immigrato - una persona che può avere delle difficoltà  
secondo le nostre stesse modalità, al quale vanno assicurate le stesse 
nostre attenzioni, avendo cura dello stato psicologico del soggetto e con 
la consapevolezza che quel soggetto é un “Io culturale”.
7
 L'azione della 
cultura fa sì che il pensiero dell'uomo sia un'elaborazione continua della 
realtà per mezzo degli elementi costituenti l’Io culturale. 
 Il luogo del pensiero é l'Io culturale. L’uomo si confronta 
continuamente con l’ambiente che lo circonda e dà forma al suo agire; si 
sviluppa una dinamica che vede un "va e vieni" incessante tra interno ed 
esterno; si confrontano orientamenti e valori; a volte c’è lo scontro, altre 
volte l’accettazione. In tal modo l'Io culturale non é solo luogo di 
                                                 
6
 C. Geertz, op. citata, p. 59 
7
 R. Terranova Cecchini, L’Io culturale:  luogo del pensiero, luogo dello sviluppo (in Avanzamenti in 
Psicologia transculturale. Nuove frontiere della cooperazione a cura di P. Inghilleri, R. Terranova 
Cecchini, Milano, Franco Angeli 1991) 
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pensiero ma anche di sviluppo; é l'Io culturale che favorisce la 
persistenza della cultura, della tradizione e della memoria. Senza questo 
punto di riferimento, l'uomo non potrebbe guardare né al futuro, né al 
presente, né al passato. E' proprio in questo concetto di io-culturale 
dinamico che sta il rischio di non-pensiero e di non-sviluppo di un 
uomo, privato delle sue radici e del suo contesto, dell'uomo sottoposto al 
danno dell'acculturazione violenta e sta qui l'importanza di una 
impostazione transculturale proprio per favorire il riemergere dell'io-
culturale che in certi ambiti sembra perduto. 
"Privando l'Io di sue parti costitutive, quali la tradizione ancestrale fissata 
nel territorio e nei suoi artefatti, si toglie alla popolazione, all'Io culturale di 
ciascuno dei suoi membri, la capacità di sviluppo del proprio pensiero, della 
propria società".
8
 
La psicologia allora si rivolge all’antropologia, alla sociologia, 
alla medicina per rendere sempre più completo e puntuale lo studio 
dell’uomo in quanto “io culturale” nell’espressione del suo dinamismo. 
L’impostazione trans-culturale si rivela in tutta la sua funzionalità 
proprio nel momento in cui si verifica l’incontro con un individuo, un 
cliente che è depositario di una serie di significati, attraverso i quali 
interpreta il mondo, diversi dai nostri e che richiede quindi un intervento 
nuovo, peculiare.  
                                                 
8
 R. Terranova Cecchini, op. citata, 1991 
 - 11 -
Il nostro caso si mostra ancora più complicato dal momento che 
oltre alla comprensione dell’individuo, in quanto immigrato, e quindi 
con tutti i relativi problemi di inserimento, abbiamo il compito di 
acquisire conoscenze su un modo di vivere, su usanze e tradizioni del 
tutto particolari, quali quelle musulmane che caratterizzano il mondo 
iraniano viste poi nell’ambito di un rapporto di coppia. 
E’ impensabile ormai di voler trascurare la conoscenza di una 
religione e cultura che soprattutto negli ultimi anni ha occupato spesso le 
prime pagine dei giornali. Certamente questo lavoro non vuole e non può 
essere luogo di dissertazione sui fondamenti della fede musulmana, 
anche perché la vastità dell’argomento non lo permetterebbe, è però stato 
utile conoscere alcuni principi base dell’Islam per poter meglio 
colloquiare con gli appartenenti a questa religione così complessa. 
Chiamarla solo religione è forse troppo riduttivo, l’Islam è legge, 
etica, morale e stile di vita, il buon musulmano ha il dovere di 
considerarla tale e di seguire i suoi precetti. 
Nel primo capitolo ho cercato di dare informazioni su tale 
religione, in modo sintetico, ma comunque utile ad una prima 
comprensione. 
Anticipando il tema, appunto, di cui tratteremo in seguito, 
possiamo dire che l’Islam non è una religione dogmatica, ma ha solo due 
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dogmi ; il monoteismo e il fatto che il Corano è parola di Dio e 
Maometto ne è mediatore.  
Per essere musulmani bisogna accettarli entrambi, tutto il resto è 
fondato sull’interpretazione, il Corano stesso in alcuni versetti dice che è 
importante affidarsi al cervello e che l’uomo ha come primo compito 
quello di  ragionare.  
Bisogna inoltre tener presente  che esistono diverse scuole 
giurisprudenziali musulmane, la sunnita, la sciita, lo zaidismo ; ognuna 
di esse ha differenze enormi. 
La suddivisione principale è fra sunniti e sciiti, da una parte c’è 
l’Islam sunnita più  reale e pragmatico, pronto al compromesso, 
dall’altra c’è l’islam sciita, che è quello della legalità, della certezza del 
diritto, del seguire la tradizione. 
Il popolo iraniano è seguace della scuola sciita, che più ci 
interessa. 
Nell’Islam non c’è mediazione, non si fa proselitismo come nel 
Cristianesimo, il rapporto è diretto tra Dio e uomo. Sono le leggi che si 
modificano secondo il corso della storia, a volte è il piccolo burocrate 
che modifica le leggi a proprio piacimento ed eventualmente le peggiora. 
Ne è un esempio l’Algeria di questi ultimi tempi o la situazione delle 
donne Talebane in Afghanistan, cioè casi in cui si arriva ad estremismi 
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che vengono giustificati  attraverso l’affermazione che si tratta di 
volontà divina. 
Comunque nelle vicende sociali più attuali si è riscontrato un 
atteggiamento di maggior consapevolezza dei principi imposti dalla 
propria religione anche se, a volte, mutuati da religioni preesistenti. Ad 
esempio per quanto riguarda la copertura dei capelli, argomento che 
solitamente è oggetto di discussione quando si parla di donne 
musulmane, bisogna dire che non si tratta di  un’invenzione dell’Islam, 
esisteva sia nel cristianesimo antico che nella Persia sassanide. Questa 
usanza aveva come significato una distinzione della donna aristocratica, 
o comunque per bene, dalla prostituta o da colei che poverina non aveva 
il padre, il marito o il fratello che la proteggessero da predoni, che la 
potevano rapire e  rendere schiava. 
I musulmani ed in particolare gli iraniani hanno voluto riscoprire 
certi valori  per scontrarsi con un occidentalizzazione forzata, ad 
esempio, nel riadottare il velo, il chador, come simbolo della donna che 
non si vende, e non come invece oggi in occidente si pensa come 
simbolo della donna  repressa. Sicuramente lo è, come ho già detto, in 
alcuni luoghi come l’Afghanistan o l’Arabia Saudita, dove la donna non 
può guidare la macchina oppure non può uscire di casa, ma certamente, e 
ciò lo posso affermare per aver conosciuto diverse donne musulmane in 
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Italia, le iraniane  non hanno nessuna remora a portare il velo, sono anzi 
contente di  avere un segno distintivo che le lega alla loro patria. 
La donna non perché è velata è repressa, anzi nell’Islam ed in 
particolare vicino alle culture sassanidi, il velo è simbolo di 
rispettabilità,  e questo si nota negli scritti delle femministe iraniane che 
rivendicano il diritto di portare il velo per distinguersi dai costumi meno 
retti. 
Certamente non tutte le donne possono essere d’accordo. Alcune 
signore, che ho conosciuto, sono emigrate dalla loro patria  proprio a 
causa di questi obblighi, forse anche perché hanno vissuto l’epoca più 
drastica, l’era post rivoluzionaria che ha probabilmente esagerato nel 
dare un assetto più rigido ai costumi.  
L’interesse per la religione è dettato soprattutto  dal fatto che, 
volendo avvicinarsi alla conoscenza del modo di gestire la relazione 
coniugale, bisogna prima di tutto capire quali sono i meccanismi di base 
della formazione di un unione matrimoniale, poichè, essendo la religione 
un modus vivendi, essi sono strettamente legati alla legge dettata dal 
Corano.  
A nostro parere il fenomeno migratorio e la stabilità del nucleo 
familiare sono due concetti  che vanno osservati di pari passo per 
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verificare l’esattezza della tesi che dimostra la realizzazione, nel caso di 
stabilità familiare, di un emigrazione positiva. 
Sembra infatti che i vincoli matrimoniali “stabili” aiutino ad 
affrontare e tollerare, in condizioni migliori, i cambiamenti prodotti delle 
nuove esperienze ed a elaborare i rispettivi lutti conseguenti alle perdite 
degli oggetti cari lasciati in patria, laddove la situazione migratoria 
potrebbe invece acuire i conflitti e determinare la rottura dell’unione 
matrimoniale. 
Questo tipo di conflitto si può manifestare nella diversità con cui i 
vari componenti della famiglia reagiscono di fronte al nuovo paese ; 
alcuni lo accettano, altri lo rifiutano, si sentono offesi per l’imposizione 
da parte di colui che ha voluto emigrare e vogliono tornare a casa. 
Nel corso della ricerca abbiamo notato che è importante 
interessarsi agli sviluppi della tradizione familiare iraniana, in modo da 
osservare quali saranno le modalità di gestione familiare quando si 
troveranno di fronte all’industrializzazione, che, come sappiamo, ha 
determinato numerosi cambiamenti nella famiglia occidentale : si è, 
infatti,  passati da una famiglia patriarcale ad una nucleare, si è avuto 
l’inizio del doppio lavoro per la donna, i divorzi, i problemi per i figli.