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 ξ  Il deterioramento del tessuto istituzionale e la bassa reazione da parte della 
società civile locale. 
 
Anche se la nascita della Sacra Corona Unita (SCU) si può collocare a metà degli anni 
Ottanta, il territorio pugliese era già da tempo frequentato da numerosi esponenti dei 
sodalizi mafiosi provenienti dalle altre regioni vicine. In particolare, erano presenti 
individui legati alla Camorra e alla ‘Ndrangheta a seguito delle disposizioni previste 
dall’istituto del soggiorno obbligato, che aveva anche portato alla creazione di una sorta 
di colonia di siciliani affiliati alle principali famiglie di Cosa Nostra. 
Nelle carceri pugliesi, in quegli anni, erano presenti numerosi detenuti provenienti dalle 
regioni di origine delle cosiddette mafie tradizionali. Ad esempio, i detenuti 
appartenenti alla NCO di Cutolo erano stati inviati in istituti di pena lontani dalle aree di 
origine per evitare che in carcere si riproducessero le contrapposizioni che avevano 
causato, alla fine degli anni Settanta, una violenta guerra con lo schieramento rivale: la 
Nuova Famiglia. 
Inoltre la Puglia si trovava in un’area strategica per lo sviluppo di alcuni traffici illeciti, 
quali il contrabbando di tabacchi che, a seguito della chiusura del porto franco di 
Tangeri(1959-1960), si era spostato lungo la via adriatica. 
Altro fattore determinante, l’assenza di gruppi criminali autoctoni sul territorio, che 
rendeva la Puglia un luogo di naturale sconfinamento per le altre organizzazioni 
criminali mafiose, che si trovavano quindi ad avere a disposizione un mercato criminale 
sostanzialmente libero da una concorrenza locale. Per diversi anni i rapporti con la 
delinquenza pugliese furono di natura utilitaristica, senza che si verificassero episodi di 
assimilazione dei piccoli gruppi locali o di creazione di realtà criminali autonome. 
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Verso la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, la situazione cominciò a 
cambiare. La presenza camorrista negli istituti di pena e negli ambienti delinquenziali, 
iniziò a far sentire in maniera sempre maggiore la propria influenza, attraverso 
un’azione di proselitismo volta a far entrare nelle fila della Nuova Camorra Organizzata 
un gran numero di giovani affiliati locali. Tale iniziativa però, suscitò il malcontento di 
molti che percepivano sempre più l’invadenza dei cutoliani negli affari locali. Fu così 
che nacque la Sacra Corona Unita, proprio con l’obiettivo di arginare il proselitismo 
nelle carceri da parte della NCO e di proteggere il territorio pugliese dall’invadenza e 
dall’infiltrazione delle altre organizzazioni mafiose. 
Fin dall’inizio, la nuova organizzazione si presenta come un organo che mira a tenere 
insieme le diverse anime della criminalità regionale ma il progetto naufraga in poco 
tempo. La struttura centralizzata voluta dal suo fondatore, Giuseppe Rogoli, non regge 
all’elevata conflittualità esistente tra i vari clan criminali e viene quindi sostituita da 
un’organizzazione più fluida, frammentata e caratterizzata da una grande segmentazione 
territoriale con la rifondazione del sodalizio: la Nuova Sacra Corona Unita (1983). 
Negli anni successivi, si assiste alla nascita di moltissime associazioni criminali che si 
fondono e si scompongono in continuazione. Nel 1984, ad esempio, viene ritrovato lo 
statuto di fondazione di una consorteria denominata Famiglia Salentina Libera che si 
proponeva di respingere ogni tipo di intervento da parte della SCU nel Salento e di 
riaffermare la completa autonomia dei leccesi sul territorio. Nel 1986, nasce la Nuova 
Famiglia Salentina che aveva come obiettivo una convivenza pacifica con la SCU, 
basata sulla spartizione del territorio. Nel 1987, anche nella provincia di Bari, si assiste 
alla nascita di una nuova associazione, La Rosa, guidata da Oronzo Romano a cui si 
aggiungono altri gruppi criminali come quello guidato da Savino Parisi, nel quartiere 
barese di Japigia, e quello di Salvatore Annacondia, legato a Cosa Nostra. In ultimo 
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bisogna ricordare la Rosa dei Venti nata nel 1990 per scissione dalla SCU, su iniziativa 
di due detenuti. 
La Sacra Corona Unita però è rimasta l’associazione criminale più agguerrita e temibile, 
in grado di esercitare un controllo capillare sul territorio tanto da far rientrare la Puglia 
tra le aree mafiose considerate dalla Commissione Parlamentare Antimafia come 
“regioni di insediamento tradizionale” insieme alla Sicilia, alla Calabria e alla 
Campania. 
Pur cercando di rivestirsi, da un punto di vista simbolico, di un’identità ispirata alla 
cultura mafiosa tradizionale, mutuando dalla ‘Ndrangheta anche formule e rituali di 
affiliazione, la SCU nelle dinamiche di comportamento ha rivelato uno spessore ben 
diverso, come dimostra l’estrema eterogeneità socio-culturale dei suoi affiliati, la loro 
scarsa attitudine alla segretezza, la bassa tenuta del vincolo associativo, la vocazione 
prevalentemente utilitaristica del sodalizio, la tendenza all’ostentazione piuttosto che 
alla dissimulazione e alla riservatezza e l’uso talvolta eccessivo della violenza. 
Tutti questi fattori sono stati anche all’origine di un sentimento di disillusione da parte 
di molti affiliati che hanno in seguito deciso di collaborare con le autorità. Infatti, già 
all’indomani della storica sentenza del 1991 con cui venne riconosciuta la “mafiosità” 
dell’organizzazione pugliese, cominciarono le prime collaborazioni con la giustizia che, 
insieme alla forte offensiva giudiziaria iniziata negli anni Novanta, hanno 
ridimensionato notevolmente la portata criminale della SCU. 
Ma proprio le caratteristiche principali del sodalizio pugliese, in particolare la fluidità 
delle sue strutture interne, la forte versatilità dei suoi interessi e la crescente vocazione 
imprenditoriale, hanno fatto sì che essa continuasse ad avere contatti e rapporti di 
collaborazione con organizzazioni criminali anche molto diverse tra loro. 
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Nella seconda metà degli anni Novanta, infatti, il territorio pugliese è tornato ad essere 
luogo di interessi criminali esterni alla regione, in particolare stranieri. La Puglia 
rappresenta ancora oggi un territorio strategico per alcuni traffici, in particolare di 
sostanze stupefacenti e di esseri umani, soprattutto da e verso l’Albania. Sembra che la 
regione sia diventata un importante crocevia per l’approvvigionamento di droghe, anche 
da parte delle altre mafie tradizionali, e che le organizzazioni pugliesi facciano da 
intermediarie fra queste e gruppi criminali albanesi e di origine balcanica. 
La tesi è quindi articolata, come accennavo all’inizio, in due parti distinte che si 
compongono di due capitoli ciascuna. Nel primo capitolo ho affrontato il problema di 
definire cosa si intenda per mafia. La questione è stata dibattuta, nel corso degli anni, da 
molti studiosi che hanno prodotto varie interpretazioni del fenomeno mafioso, 
contribuendo ad arricchire il bagaglio di conoscenze e gli strumenti grazie ai quali si 
cerca di analizzare un fenomeno così complesso, pur nell’assenza di definizioni chiare e 
condivise. Esistono due grandi correnti di definizioni e interpretazioni della mafia: una, 
chiamata culturalista, focalizza l’attenzione sull’aspetto culturale del fenomeno e 
interpreta la mafia come una subcultura, l’altra, quella organizzativa, la interpreta come 
un fenomeno organizzativo, assimilandola ad un fenomeno molto più vasto, quello della 
criminalità organizzata. 
Per illustrare tale definizione verranno presentati alcuni studi significativi. In primo 
luogo, faremo riferimento a Gaetano Mosca, il quale distingueva tra uno “spirito di 
mafia” e una mafia intesa come un insieme di organizzazioni criminali, rifacendosi, in 
maniera abbastanza evidente, alla corrente culturalista, di cui furono sostenitori anche 
altri studiosi, tra cui il sociologo tedesco Hess e l’olandese Blok. 
Contributo fondamentale è stato, senza alcun dubbio, quello di un altro studioso 
straniero, Alan Block, il quale ha introdotto una distinzione molto importante, 
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soprattutto per quanto riguarda l’analisi del fenomeno, quella tra power syndicate e 
interprise syndicate, utilizzata, in seguito, anche da altri studiosi come, ad esempio, 
Catanzaro. Si tratta di distinguere tra due tipi di organizzazione: una ha come obiettivo 
principale il controllo del territorio, l’altra lo scopo di coordinare i traffici illeciti. Anche 
se queste due sfere di interesse sono concettualmente distinguibili, nella realtà si 
trovano spesso in un rapporto di reciproca funzionalità, oltre ad essere quasi sempre 
intrecciate e sovrapposte tra loro. La distinzione di Block, però, permette di tenere conto 
delle ambivalenze organizzative che spesso le organizzazioni mafiose presentano 
(Sciarrone, 1998). 
L’altra corrente, invece, quella organizzativa, nel nostro Paese è stata sviluppata da Pino 
Arlacchi che, partendo dall’analogia tra mafia e impresa, ha identificato le 
caratteristiche principali dell’impresa mafiosa, riprendendo anche i concetti di impresa e 
imprenditorialità di Schumpeter, e arrivando ad affermare che l’impresa mafiosa 
differisce dalle altre principalmente per i metodi utilizzati, in particolare per il ricorso 
alla violenza e all’intimidazione (Arlacchi, 1983). 
Diego Gambetta, invece, definisce la mafia come “un’industria della protezione privata” 
ritenendo che la violenza sia solo un mezzo, e non il fine, di questo particolare tipo di 
impresa, la cui risorsa principale è appunto la fornitura di protezione, da essa prodotta e 
venduta (Santino, 2006). 
L’ultimo contributo da me presentato è quello di Rocco Sciarrone, il quale dà una 
definizione articolata del fenomeno mafioso, intendendolo come un fenomeno 
multidimensionale. Un aspetto ulteriormente interessante del suo lavoro è l’analisi dei 
fenomeni di propagazione della mafia in territori diversi da quelli d’origine come, ad 
esempio, la Puglia, di cui mi sono occupata, e il Piemonte, oltre all’individuazione di 
uno schema analitico con cui distinguere categorie ideal-tipiche di imprenditori, definite 
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in base al comportamento imprenditoriale in ambienti caratterizzati da presenza mafiosa 
e in base alle specifiche modalità di interazione con i mafiosi. 
Il primo capitolo si conclude poi con la presentazione dello sviluppo che la legislazione 
antimafia ha avuto nel nostro Paese. 
Nel secondo capitolo ho tracciato il percorso storico che ha portato alla formazione 
dalle Sacra Corona Unita in Puglia, partendo dalla nascita e dalla diffusione del 
fenomeno mafioso nella regione ad opera della NCO di Cutolo, fino ad arrivare alle 
molteplici e successive divisioni interne che hanno portato l’organizzazione ad avere la 
tipica struttura frammentaria, che ancora oggi la caratterizza, e affrontando anche le 
tematiche riguardanti l’inizio dell’azione giudiziaria nei confronti dell’associazione. Ho 
poi presentato la sua organizzazione interna, preoccupandomi di evidenziare come essa 
abbia precise regole e rituali, mutuati dalle tradizioni delle altre mafie presenti sul 
territorio nazionale, che regolano, non solo l’entrata e l’uscita dal sodalizio, ma anche il 
comportamento che ogni affiliato è tenuto ad avere in virtù della “dote” ricoperta da 
ciascuno. 
La seconda parte del mio lavoro, quella più propriamente di ricerca, costituita da 
documenti reperiti grazie anche all’aiuto di due magistrati, appartenenti l’uno alla DDA 
di Bari e l’altro alla DDA di Lecce, che ho intervistato durante un mio soggiorno in 
Puglia, si apre con il terzo capitolo, interamente dedicato ad un clan che ha la propria 
base operativa in un quartiere della città di Bari, il rione Japigia, ma che opera 
sull’intero territorio provinciale: il clan Parisi. La realizzazione di questo capitolo si 
basa interamente sull’analisi del Procedimento penale nr. 12406/96-21 prodotto dalla 
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari, Direzione Distrettuale Antimafia, 
frutto dell’indagine condotta dal Sostituto Procuratore, Dr. Giuseppe Scelsi, che ho 
anche avuto modo di incontrare. 
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Grazie alle informazioni da lui fornitemi e alla documentazione giudiziale di cui 
disponevo, ho cercato di tracciare un quadro che rappresentasse le caratteristiche 
organizzative e strutturali del clan Parisi, occupandomi della sua organizzazione 
gerarchica, del sistema assistenziale riservato ad ogni affiliato, dell’esercizio del potere 
mafioso messo in atto dai suoi principali esponenti, del sistema di comunicazione 
utilizzato dagli associati per comunicare tra loro e con chi è detenuto nel carcere della 
città, dell’area territoriale di influenza del clan ed, infine, dei mezzi finanziari grazie ai 
quali il sodalizio riesce a mantenere il controllo dell’intera provincia barese. 
Nel quarto ed ultimo capitolo, infine, ho parlato della criminalità organizzata di stampo 
mafioso presente nel Salento, dato le sue diverse caratteristiche che la differenziano da 
quella operante sul resto del territorio pugliese. La realizzazione di questo capitolo è 
stata possibile solo grazie al prezioso aiuto fornitomi dal Procuratore Aggiunto della 
Procura della Repubblica, Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, il Dr. Cataldo 
Motta che, oltre ad avermi rilasciato una lunga intervista, mi ha anche consegnato le 
Relazioni relative all’attività della DDA di Lecce, riguardanti il periodo che va dal 1° 
luglio 1998 al 30 giugno 2007, ricoprendo, quindi, quasi dieci anni di indagini da lui 
condotte e una lezione, da lui tenuta nell’ottobre del 2007, alla scuola Allievi Ufficiali 
dei Carabinieri di Palermo sulla Sacra Corona Unita e sui suoi rapporti con la 
criminalità dei Paesi dell’Est. Ho così potuto tracciare una breve storia relativa allo 
sviluppo della SCU su questo territorio, evidenziando le differenze esistenti sia con le 
organizzazioni operanti sul resto del territorio regionale, sia quelle esistenti al suo 
interno e che hanno portato allo sviluppo di realtà criminali differenti tra una provincia 
e l’altra. Il capitolo si chiude con un paragrafo relativo ai rapporti che l’organizzazione 
salentina ha instaurato, negli ultimi anni, con le organizzazioni criminali dei Paesi 
dell’Est e che destano nuove preoccupazioni tra gli addetti ai lavori. 
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CAP I: Che cos’è la mafia? Tentativi di 
definizione 
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Se cercassimo la definizione di mafia sul vocabolario troveremmo scritto che è: 
“Un’organizzazione criminosa, sorta in Sicilia nella prima metà del sec. XIX, con la 
pretesa di sostituirsi ai pubblici poteri nell’attuazione di una forma primitiva di 
giustizia, che si regge sulla legge della segretezza e dell’omertà e che ricorre a 
intimidazioni, estorsioni, sequestri di persona e omicidi allo scopo di proteggere 
interessi economici privati o di procurarsi guadagni illeciti; e/o Gruppo, categoria di 
persone unite per conseguire o conservare con ogni mezzo lecito e illecito, i propri 
interessi particolari, anche a danno di quelli pubblici.”(Il nuovo Zingarelli, Ed. 
Zanichelli,1992). 
L. Violante in Non è la piovra del 1994 la definisce così: 
“La mafia non è una piovra, né un cancro. Non è né misteriosa né invincibile. Per 
combatterla efficacemente e per vincerla occorrono analisi razionali. E’ fatta di uomini, 
danaro, armi, relazioni politiche e relazioni finanziarie. E’ costituita essenzialmente da 
tre grandi organizzazioni criminali, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra, e da 
un’organizzazione minore, la Sacra Corona Unita, che è radicata in Puglia. Queste 
organizzazioni hanno in comune il controllo del territorio, i rapporti con la politica e 
l’internazionalizzazione.” (Violante, 1994, p. 3). Tale definizione mi sembra più 
completa ed esaustiva della precedente perché contiene al proprio interno tutti gli 
elementi che caratterizzano le organizzazioni di stampo mafioso. La mafia e le 
organizzazioni di tipo mafioso in generale, non sono malattie incurabili della società, 
ma organizzazioni imprenditorial-criminali il cui scopo è il controllo del territorio al 
fine di conoscerne in profondità le attività che vi si svolgono per poi poter attuare 
estorsioni, appropriarsi di nuove fette di mercato, conoscere in anticipo eventuali nuovi 
avversari e potersi tutelare da improvvisi interventi delle forze dell’ordine. Tale 
definizione ha anche al proprio interno la risoluzione del fenomeno: infatti la mafia non 
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è né una bestia invincibile, né una malattia incurabile, può allora essere sconfitta. 
Bisogna quindi smantellare le organizzazioni, arrestare gli uomini, sequestrare i beni 
frutto delle attività illecite e neutralizzare le alleanze. 
Ma che cos’è dunque la mafia? Come può essere meglio definita? È un’organizzazione 
criminale o una mentalità, una società segreta o semplicemente uno stato d’animo? 
Esiste veramente la mafia o esistono solo i mafiosi? Che rapporto c’è tra mafia e 
società, tra mafia e istituzioni? E’ una patologia della società o un fenomeno strutturale 
legato al contesto sociale nel quale nasce e si sviluppa? 
A queste e a molte altre domande hanno tentato di dare risposta numerosi sociologi e 
scienziati politici, non arrivando però a formulare definizioni chiare e condivise, ma 
ricalcando spesso idee diffuse, luoghi comuni e stereotipi dominanti. Ad esempio uno 
stereotipo che alcuni studiosi hanno contribuito a diffondere e ad avvalorare è quello 
secondo il quale esisterebbe una mafia “tradizionale” ed una “moderna”, facendo 
distinzione tra gli antichi uomini d’onore e i contemporanei imprenditori criminali senza 
scrupoli e senza onore (Santino, 2006, p. 11). Tale idea ricalca un diffuso luogo comune 
che vorrebbe la distinzione tra una mafia buona in un passato non ben collocato, ed una 
mafia contemporanea cattiva, interessata solo alla ricchezza, che avrebbe preso il posto 
della prima trasformandosi in semplice delinquenza e perdendo quei tratti distintivi di 
rispetto e onore tipici della tradizione mafiosa. 
In generale, si potrebbero distinguere due grandi correnti di definizioni e interpretazioni 
sulla mafia: una focalizza l’attenzione sull’aspetto culturale del fenomeno, l’altra invece 
lo presenta come un fenomeno organizzativo. La prima corrente interpretativa, che è 
stata definita culturalista, tende a considerare la mafia una cultura, o una subcultura, 
tipica dei contesti sociali in cui è nata e si è sviluppata.  
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La seconda, che è stata definita organizzativa, tende invece ad assimilare il fenomeno 
mafioso ad un fenomeno molto più vasto ed estremamente eterogeneo, quello della 
criminalità organizzata (Sciarrone, 1998) 
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1.1 Interpretazioni teoriche 
 
Agli inizi del Novecento, Gaetano Mosca distingueva tra uno “spirito di mafia” e una 
mafia intesa come un insieme di associazioni criminali: due fenomeni sociali distinti ma 
collegati tra loro. Lo spirito di mafia “è una maniera di sentire che, come la superbia, 
come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un 
dato ordine di rapporti sociali”, e ancora: ”consiste nel reputare segno di debolezza 
ricorrere alla giustizia ufficiale, alla polizia e alla magistratura, per la riparazione dei 
torti o piuttosto di certi torti ricevuti”(Sciarrone, 1998, p. 4). 
Esempio ancora più lampante di interpretazione di tipo culturalista è rappresentato dal 
lavoro del sociologo tedesco Hess che, nel 1970, sosteneva che la “mafiosità” fosse una 
sorta di forma mentis diffusa in tutto il sistema subculturale siciliano. Una forma di 
comportamento quindi, derivato “da una straordinaria debolezza degli organi del potere 
ufficiale, dalla diffidenza, anzi dall’ostilità della popolazione verso gli organi statali”(La 
Spina, 2005, p. 18), comportamento caratterizzato anche da una duplice morale che 
vede in maniera positiva i legami personali, soprattutto familiari, mentre in maniera 
distaccata e formale le istituzioni statali. 
Secondo Hess dunque, era sbagliato parlare di mafia come di un’organizzazione 
unitaria, si poteva forse parlare dell’esistenza di tante piccole organizzazioni 
indipendenti e spesso in conflitto tra loro, basate su relazioni informali tra persone 
appartenenti alle stesse reti sociali. Per Hess la soluzione era quindi colpire le cause 
sociali del fenomeno attraverso riforme mirate più che opporre uno Stato forte e potente 
come “antidoto al comportamento mafioso”. 
Altro importante contributo arriva da un altro studioso straniero: l’olandese Blok che 
interpreta la mafia come “un modus vivendi tra le richieste della struttura politica 
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formale da un lato e le tradizionali esigenze locali dall’altro […] possiamo quindi 
considerare il mafioso come una sorta di intermediario politico o mediatore di potere dal 
momento che la sua ragion d’essere risiede nella capacità di ottenere il controllo dei 
canali che collegano l’infrastruttura locale del villaggio alla sovrastruttura della società 
più vasta.”(La Spina, 2005, p. 19).Lo studioso olandese fa quindi riferimento ai mafiosi 
come a dei mediatori: prima, durante il periodo borbonico,  tra i grandi proprietari 
terrieri e i poveri braccianti e poi, dopo l’unificazione del Paese, tra la città e le 
campagne, in connivenza con coloro che ricoprivano cariche pubbliche.  
Ma uno dei contributi certamente più significativi, soprattutto per quanto riguarda 
l’analisi del fenomeno, è la distinzione di Alan Block tra power syndicate e enterprise 
syndicate. Si tratta di distinguere tra un’organizzazione il cui obiettivo principale è il 
controllo del territorio e una il cui scopo è il coordinamento dei traffici illeciti. Si tratta 
di due sfere di interesse concettualmente ed empiricamente distinguibili ma che quasi 
sempre sono intrecciate tra loro, in un rapporto di reciproca funzionalità (Sciarrone, 
1998, p. 43).  
Tale concetto è stato più volte riutilizzato anche da altri studiosi come ad esempio da 
Raimondo Catanzaro. Egli, riprendendo la distinzione tra i due tipi di crimine 
organizzato, enterprise syndicate e power syndicate, descrive i mafiosi come 
“imprenditori della protezione violenta” (Santino, 2006, p. 31). Catanzaro quindi si 
chiede se sia la strutturale mancanza di fiducia a produrre una domanda di garanzia per 
quanto riguarda i traffici, leciti o illeciti che siano, con una conseguente incentivazione 
dell’offerta di protezione, o invece se sia l’offerta di protezione a creare la domanda. In 
altre parole si chiede se sia la diffusa situazione di insicurezza sociale ed economica a 
spingere gli imprenditori a chiedere delle garanzie di sicurezza sulle loro transazioni 
rivolgendosi ai mafiosi, oppure se siano questi ultimi ad imporre la loro protezione. 
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Catanzaro è dell’avviso che la tesi migliore sia la seconda e cioè che sia l’offerta di 
protezione a creare la domanda. In questo modo, infatti, si riuscirebbe a spiegare la 
sfiducia senza dover ricorrere ad altre cause difficilmente documentabili come ad 
esempio dover ricorrere alla dominazione spagnola quale responsabile della sfiducia 
diffusa in tutto il Mezzogiorno. Inoltre, si riuscirebbe a dare una spiegazione unitaria 
della nascita e della diffusione del fenomeno mafioso. Con ciò non si vuole escludere 
l’importanza della domanda di protezione che si intreccia fortemente con l’offerta anche 
perché non bisogna dimenticare che, in quanto power syndicate, una delle caratteristiche 
principali della mafia è il controllo, non solo del territorio, ma anche e soprattutto degli 
uomini e la sua abilità nel manipolarli a proprio vantaggio (Santino, 2006, p. 31-32). 
In Italia, il modello imprenditoriale di interpretazione del fenomeno mafioso, è stato 
sviluppato da Arlacchi che, partendo dall’analogia tra mafia e impresa, identifica le 
caratteristiche specifiche dell’impresa mafiosa che differisce da quella legale, 
soprattutto per quanto riguarda il metodo (Longo, 1997, p. 61).  
Arlacchi riprende la vecchia distinzione tra una mafia tradizionale e una moderna le cui 
differenze qualitative sono da ricercare nel passaggio dei mafiosi da un ruolo di 
mediazione ad un ruolo di accumulazione di capitale. Ricorrendo alle categorie di 
impresa e di imprenditorialità di Schumpeter, riesce a riassumere tre dimensioni 
importanti del fenomeno: l’aspetto innovativo, rispetto al passato, determinato 
dall’ingresso dei mafiosi nel quadro economico; l’introduzione della razionalità e del 
calcolo capitalistico nelle scelte economiche dell’imprenditore mafioso; l’aspetto 
irrazionale e aggressivo dell’attività economica mafiosa, che si esprime con una corsa 
sfrenata all’accumulazione di ricchezza. 
Utilizza anche le caratteristiche schumpeteriane attribuite all’imprenditore, focalizzando 
la propria attenzione soprattutto sulla definizione dell’imprenditore come “innovatore”.