1.1 
 
L’evoluzione dell’universalismo economico 
americano da Roosevelt a Truman 
 
Il 5 giugno 1947 il Segretario di Stato americano  George C. Marshall, in occasione del 
conferimento di una laurea honoris causa alla sua persona presso l’università di Harvard, tenne il 
celebre discorso i cui contenuti  vennero riassunti con il nome di “Piano Marshall”. Secondo gran 
parte della critica, come si vedrà in seguito, le parole che egli pronunciò  non presentavano le 
caratteristiche di un vero e proprio piano, ma furono piuttosto le vicende che le precedettero e le 
seguirono a delinearlo; tuttavia la data del 5 giugno  insieme a quella antecedente del 12 marzo 
(quella della cosiddetta “Dottrina Truman” di cui si parlerà più avanti) vengono generalmente 
considerate come momenti simbolo del 1947, anno in cui i principi ispiratori e le linee guida della 
politica mondiale degli Stati Uniti apparvero significativamente modificati rispetto a quelli seguiti 
durante la seconda guerra mondiale.        
  
Prima di esaminare le vicende  che accompagnarono questi due momenti nella definizione del 
nuovo quadro entro il quale operarono i policy makers dell’amministrazione Truman, è necessario 
dunque analizzare brevemente i tratti caratteristici della politica americana negli anni della 
presidenza Roosevelt. Questi, Presidente degli Stati Uniti  dal 1932, morì il 12 aprile 1945, pochi 
mesi dopo la sua terza  rielezione alla più alta carica.        
La sua scomparsa avvenne in un contesto internazionale che nel corso del biennio successivo  
avrebbe subito profondi mutamenti.  Tale contesto era in gran parte frutto dell’azione dello stesso 
Roosevelt  e aveva avuto  come ultimo riferimento la Conferenza di Yalta (Crimea) del febbraio del 
’45. Non è questa la sede per entrare nella complessa problematica che riguarda quell’evento né per 
ripercorrere i nodi e le svolte dell’acceso dibattito storiografico sull’argomento. E’ importante però 
osservare che, pur avendo un valore riassuntivo e simbolico “Yalta” non è che un tassello del più 
vasto e complesso disegno della politica di Roosevelt. Si è parlato, per riassumere di un implicito  “ 
[…] scambio tra  il disegno di una tendenziale internazionalizzazione del New Deal (delle sue 
strutture portanti e dei suoi  scopi di civiltà), perseguito da Roosevelt e lasciato passare in qualche 
modo da Stalin, e il riconoscimento per l’Unione Sovietica di un ruolo primario nella 
  
determinazione dell’assetto del potere territoriale entro la massa continentale eurasiatica (non senza 
la facoltà di concorrere indirettamente al controllo di più vasti equilibri sistemici)”.  (1) 
In effetti, il tema delle sfere d’influenza non compare se non di sfuggita nei verbali e nei 
documenti della Conferenza di Yalta. Di ciò si era parlato, è vero, durante l’incontro tra Churchill e 
Stalin dell’ottobre ’44 a Mosca (gli interessi sovietici avrebbero dovuto prevalere per il 90% in 
Romania e per il 75% in Bulgaria , quelli britannici al 90% in Grecia, mentre per l’Ungheria e per la 
Jugoslavia vi sarebbe stata una compartecipazione al 50%) e lo stesso Stalin  ne aveva manifestato 
al leader comunista jugoslavo Gilas la propria interpretazione  (all’interno della sfera d’influenza il 
paese controllante aveva la facoltà di estendere il proprio sistema sociale al paese controllato). Ma 
la Casa Bianca si impegnò per superare questi potenziali ostacoli al proprio disegno universalistico.  
Non solo Roosevelt non partecipò ai colloqui di Mosca, limitandosi ad inviare un proprio 
osservatore e un telegramma che precisava il preventivo disimpegno  degli USA rispetto  agli 
eventuali punti di vista espressi da Churchill, ma a Yalta lavorò al raggiungimento di un’importante 
intesa che sconfessò   quanto concordato nell’autunno precedente nella capitale sovietica:  la 
“Dichiarazione sull’Europa liberata”. Questo documento che fu aggiunto ai comunicati e ai 
protocolli finali, menzionava l’impegno degli Stati Uniti della Gran Bretagna e dell’Unione 
Sovietica a coordinare la loro politica “ […] sull’assistenza da portare ai popoli dell’Europa liberata 
dalla dominazione della Germania nazista e ai popoli già satelliti dell’Asse”, aiutandoli a “[…] 
risolvere democraticamente i loro problemi politici ed economici” e a “[…] stabilire autorità 
governative provvisorie in cui siano largamente rappresentati tutti gli elementi democratici della 
popolazione e che si impegnino a creare al più presto, attraverso libere elezioni, governi 
responsabili davanti alla volontà popolare”. (2) 
La “Dichiarazione sull’Europa liberata”, era espressione di un universalismo democratico che 
guardava anche al di là dell’Europa stessa e si fondava su idee di riforma che non si limitavano 
all’aspetto giuridico–formale della democrazia. Roosevelt pensava a una vera e propria 
internazionalizzazione del New Deal (quella formula  politica ed economica, cioè, attraverso la 
quale egli era riuscito, nel corso degli anni ’30, a risollevare le sorti del suo paese, negativamente 
segnate dalla crisi economica del 1929 al momento della sua ascesa politica).  “Lo Stato con 
Roosevelt – osserva Salvadori – diventò il mediatore  istituzionale del rapporti fra le classi sociali; e 
in quest’opera di  mediazione acquistò potenti strumenti di controllo anche economico.” (3) 
All’interno del paese, in breve,  il New Deal si era concretizzato  in una serie di provvedimenti 
legislativi e amministrativi che riguardarono: l’abbandono della base aurea del dollaro nel ’33 e la 
riduzione del suo valore fino al cinquanta per cento; misure a sostegno dell’agricoltura (riduzione 
  
tasso d’indebitamento, erogazione di crediti di miglioramento, ecc.);  riorganizzazione industriale 
(finanziamenti alle piccole e medie imprese, minimi salariali, ecc.); difesa del risparmio (depositi 
bancari sottoposti ad assicurazione obbligatoria, ecc.); lotta alla disoccupazione  (attraverso notevoli 
stanziamenti in favore delle opere pubbliche gestiti dalla Civil Works Administration, dalla Works 
Progress Administration e dalla Public Works Administration); pianificazione e sviluppo regionale 
di aree depresse e creazione di agenzie governative regionali (come ad esempio la Tennessee Valley 
Authority) per la gestione dei programmi elaborati e coordinati dagli organi federali; 
regolamentazione dell’attività di Borsa; disciplina della sicurezza sociale attraverso il Social 
Security Act  del 1935 (una serie di norme che tra l’altro prevedevano indennità di disoccupazione, 
pensioni per la vecchiaia, assistenza sanitaria ai bambini, libertà di organizzazione sindacale, 
contrattazione collettiva, riduzione dell’orario di lavoro).   
“Il nuovo ruolo dello Stato, come regolatore della vita economica – sottolinea Salvadori – per 
quanto discusso, era ormai consolidato. La necessità che il governo intervenisse nella sfera dei 
rapporti fra capitale e lavoro, necessità che i repubblicani avevano tanto a lungo respinto, era una 
realtà riconosciuta”. (4) 
Il trasferiremento di questo tipo di approccio dalla politica interna alla politica estera, in modo 
apparentemente paradossale, si tradusse nella difesa e nella promozione dei principi del libero 
scambio e della “porta aperta”,  dei mercati mondiali concepiti, cioè, come un’entità unica, un “one 
world”. Il paradosso, però, era solo apparente, perché questo “mondo unico” doveva essere 
politicamente e democraticamente diretto, così che le iniziative private potessero liberamente 
competere senza beneficiare di eventuali posizioni di privilegio all’interno di spazi tutelati da 
politiche di potenza. Un tale disegno  richiedeva da una lato un’attività di cooperazione 
internazionale che garantisse relazioni pacifiche  e istituzioni internazionali in grado di realizzare i 
due principi sopra menzionati, dall’altro l’opposizione a forme di organizzazione economico-
sociale autarchiche modellate sulla concezione della “economia dei grandi spazi”. Quest’ultima 
teoria aveva trovato negli anni trenta ampia attuazione, soprattutto nella politica economica tedesca, 
la cui gestione fu affidata da Hitler a Schacht, governatore della Reichsbank. 
Oltre all’impiego di una serie di strumenti para–monetari (principalmente buoni speciali 
negoziabili ma solo parzialmente scontabili), che consentissero una espansione dell’occupazione e  
del reddito difendendo al contempo la parità ufficiale del marco, il “sistema Schacht” (così fu 
definito) si concretizzò nel “Neuer Plan”, un modello economico che promuoveva la 
bilateralizzazione del commercio estero attraverso accordi di compensazione, introduceva 
limitazioni quantitative alle importazioni, sovvenzionava le esportazioni e formulava l’ipotesi della 
  
creazione di un grande spazio economico tedesco nell’Europa Orientale, che andava ad aggiungersi 
al Commonwealth britannico e ad altri possibili grandi spazi come quello dell’Italia  nel 
Mediterraneo e quello del Giappone in Asia orientale. 
Contro questa forma di autarchismo si batté la politica estera  di Roosevelt e dei suoi più fedeli 
collaboratori (il consigliere personale del Presidente Harry Hopkins, il Segretario al Tesoro 
Morgenthau e il suo collaboratore White, il Segretario alla guerra Stimson e il vice-presidente 
Wallace). Frenata negli anni trenta dal Neutrality Act (un provvedimento attraverso il quale il 
Congresso volle ribadire nel ’35 la volontà del Paese di astenersi da impegni diretti negli affari 
politici mondiali),  essa emerse con vigore nel corso del secondo conflitto mondiale. Una prima 
iniziativa di rilievo, tuttavia, era già stata presa a un anno dalla elezione di Roosevelt. Nel  
novembre del 1933, infatti, erano stati allacciati i rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica, verso 
la quale  Roosevelt diede molti  segnali di disponibilità a una stretta cooperazione politica e 
strategica,  che corrispondevano, anche se per il momento non ebbero seguito, a sue costanti 
aspettative  di fondo circa il ruolo che l’URSS avrebbe potuto svolgere a sostegno della propria 
politica. (5) 
In tale ottica, pertanto, rientrò l’estensione all’Unione Sovietica, nel novembre del ’41, del primo 
provvedimento del nuovo corso della politica estera della Casa Bianca: il “Lend-Lease Act”, una 
disposizione legislativa che attribuiva al Presidente la facoltà di ordinare la costruzione o l’acquisto 
di materiale militare e civile e la sua consegna a ogni Paese la cui difesa fosse ritenuta di vitale 
importanza per la sicurezza degli USA, in cambio  di pagamenti  in moneta o in natura o di 
particolari vantaggi stabiliti dal Presidente stesso. 
La decisione di allargare a Mosca questa forma di aiuto rese evidenti i contrasti tra Roosevelt e 
l’entourage del Dipartimento di Stato, contrario a qualsiasi forma di concessione, non solo 
territoriale ma anche eventualmente economica, all’URSS, e ormai sempre più emarginato dalla 
elaborazione e dalla conduzione della politica estera statunitense. Riassumiamo brevemente i 
momenti più significativi di questa politica nel corso della seconda guerra mondiale: “Lend-Lease 
Act”,  la “Carta Atlantica” del 14 agosto 1941, la “Dichiarazione delle Nazioni Unite” del primo 
gennaio 1942; il vertice di Washington del maggio del ’42 tra Roosevelt e Molotov nel quale 
Roosvelt prospettò per la prima volta la teoria dei “quattro gendarmi” – USA, URSS, Gran 
Bretagna e Cina – ai quali dovevano essere riservate le forze militari necessarie a gestire una 
politica internazionale  volta al mantenimento dello status quo che sarebbe derivato dalla vittoria 
della guerra delle Nazioni Unite, e ancora  la Conferenza di Teheran del novembre del ’43, dalla 
quale scaturì un organo interalleato, la “Commissione Consultiva  Europea” (European Advisory 
  
Commission); la Conferenza di Bretton Woods del luglio ’44 con i suoi principi (sistema di cambi 
fissi e libera convertibilità delle valute, collaborazione finanziaria, agevolazione e sviluppo dei 
commerci, individuazione e pronta correzione degli squilibri commerciali e finanziari) e le sue 
istituzioni (il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale). Poi la Conferenza di 
Dumbarton Oaks dell’agosto del ’44, nella quale si discusse il progetto di una nuova istituzione 
internazionale che doveva sorgere sulle ceneri della Società delle Nazioni e  che avrebbe consentito,  
attraverso la costituzione di un particolare organo esecutivo al suo interno (il Consiglio di 
Sicurezza), alle  grandi potenze vincitrici di svolgere la funzione dei “quattro gendarmi” prospettata 
da Roosvelt. Infine la già più volte citata Conferenza di Yalta del febbraio ’45, due soli mesi prima 
della morte del Presidente USA, che oltre a occuparsi della questione polacca e a redigere la 
“Dichiarazione sull’Europa liberata”, trattò altri temi rilevanti come la decisione di dividere il 
territorio tedesco in  quattro zone di occupazione alleata (Stati Uniti, URSS, Gran Bretagna e 
Francia) sottoposte ad una commissione centrale mista di amministrazione e di controllo, e come il 
problema delle amministrazioni fiduciarie (trusteeships), da attuarsi sotto l’egida della futura 
organizzazione delle Nazioni Unite,   alle quali sarebbero stati sottoposti i territori già in regime di 
mandato al tempo Società delle Nazioni, quelli sottratti ai paesi nemici e quelli che ne avessero fatta 
esplicita richiesta. 
Come già accennato, l’ascesa al potere del vice-presidente Truman (vicino ai democratici 
conservatori  del Sud e  scelto da Roosevelt  con l’intento di catturare i voti dei  cittadini  ostili al 
progressismo del New Deal ) non si tradusse in un immediato e completo stravolgimento di quanto 
elaborato dall’amministrazione precedente. L’evoluzione dell’universalismo si sarebbe realizzata 
nell’arco del biennio successivo.  A delinearne i contenuti avrebbero contribuito da un lato 
l’affermarsi di personalità le cui concezioni della realtà internazionale erano state in precedenza 
trascurate, dall’altro il  verificarsi di un complesso di vicende  che determinarono una revisione al 
disegno di Yalta. 
La nuova amministrazione, tuttavia, adottò fin dai primi tempi  alcune misure,  come la 
sostituzione di Stettinius con Byrnes alla guida della Segreteria di Stato e  la sospensione della leva 
economica del New Deal, cioè il Lend-Lease Act, che delineavano segnali di cambiamento. Il primo 
provvedimento assumeva importanza più che per la sostituzione in sé   (“[…] Byrnes –  sostiene 
J.E. Miller – emerse come l’erede dell’opinione di Roosevelt che la cooperazione con i sovietici era 
la chiave per la creazione di un ordine mondiale pacificamente riformato.” (6) ), per il 
contemporaneo ritorno, che si realizzò nelle alte sfere del Dipartimento di Stato da parte  di un 
cospicuo numero di membri della diplomazia di carriera fortemente critici nei confronti del New 
  
Deal. Alcuni di loro, inoltre, si insediarono ed esercitarono considerevoli funzioni  all’interno di 
una nuova istituzione, creata dall’amministrazione Truman, con  compiti di consulenza, 
pianificazione e direzione in materia di sicurezza: il Consiglio Nazionale di Sicurezza (National 
Security Council). 
All’interno della diplomazia di carriera la figura più eminente fu quella  di George F. Kennan 
(responsabile nel 1947, come si vedrà, del Policy Planning Staff), il quale si opponeva alla 
concezione del “one world” rooseveltiano, all’interno del quale l’Europa era considerata solo la 
parte di un tutto internazionalmente governato anche attraverso la collaborazione dell’URSS,  e 
professava la convinzione della natura espansionistica del regime sovietico. Tale espansionismo  
avrebbe causato la divisione del mondo in due zone d'influenza e  andava, dunque, a tutti i costi 
contenuto per evitare spiacevoli esiti per la sicurezza degli USA. Di conseguenza per Kennan 
l’Europa non aveva quel ruolo marginale che il “one world” sembrava attribuirle, bensì 
rappresentava un vero e proprio baluardo contro la minaccia comunista e bisognava pertanto 
sostenerla e difenderla. 
Attorno a questa teoria, definita del “contenimento” crebbero i consensi di gran parte della 
amministrazione Truman.  Su questi consensi pesarono anche alcune vicende, di cui si accennerà tra 
breve, caratterizzanti il quadro internazionale nel corso del 1946 e dei primi del 1947.  
  
La stessa Unione Sovietica, inoltre, durante il biennio 1945-47 sembrò muoversi verso un 
abbandono della politica di collaborazione con gli USA per indirizzarsi verso le logiche tradizionali 
della politica di potenza. A questo atteggiamento, secondo Mammarella, probabilmente  contribuì, 
tra l’altro,  l’influenza del nazionalismo grande–russo ricomparso nel corso della guerra “ […] per 
galvanizzare la resistenza del popolo sovietico e alimentato e irrobustito dalla vittoria”. (7) 
Nella divisione in tre tappe principali dell’evoluzione della guerra fredda elaborata da Elena Aga 
Rossi (8), il primo periodo, dal 1943 al ’45, viene definito  della “grande alleanza”.  Durante quegli 
anni la situazione fu caratterizzata da questi  dati di fondo: le potenze erano ancora unite dagli 
obiettivi comuni della sconfitta dell’Asse e del tentativo di dar vita ad un futuro nuovo ordine 
mondiale basato su forme di cooperazione internazionale; il riconoscimento dell’URSS al rango di 
potenza dominante in Europa ne rendeva la collaborazione postbellica importante e necessaria; i 
leader occidentali credevano che Mosca si sarebbe trattenuta dall’uso dei suoi enormi poteri dopo la 
guerra a causa della sue precarie condizioni economiche e che l’URSS, in cambio degli aiuti 
economici, avrebbe potuto abbandonare la sua politica espansionistica; i leader sovietici si 
aspettavano anch’essi una collaborazione durevole, ma la interpretavano sotto altre prospettive che 
  
facevano loro ritenere  la politica di cooperazione con Mosca la più indispensabile agli alleati che ai 
sovietici; il futuro dell’alleanza doveva essere garantito dalla forza militare sovietica;  era prevista 
un’imminente crisi economica dell’Occidente capitalistico, si ipotizzavano possibili dissidi fra i 
paesi occidentali a causa  delle contraddizioni tra i loro interessi. 
Dopo la “grande alleanza” e prima della terza tappa, quella della rottura definitiva  verificatasi 
negli anni 1947-48, definiti come anni dello “spostamento verso la Guerra Fredda e della nascita di 
un sistema mondiale bipolare”, la Aga Rossi inserisce il secondo periodo, la “pausa” nel biennio 
1945-47. Durante questo intervallo non si può più parlare di alleanza, ma ancora nemmeno di 
Guerra Fredda. Il fatto più importante di questo altro momento fu il rapido deterioramento dei 
rapporti tra USA e URSS, i cui scopi per l’organizzazione del nuovo ordine internazionale 
divennero chiaramente incompatibili. Mosca iniziò la riorganizzazione politica degli Stati 
dell’Europa Orientale come parte di una politica di stabilizzazione interna alla sua “sfera 
d’influenza”. Questo atteggiamento, secondo la Aga Rossi, non fu una risposta a particolari 
iniziative di Washington, ma corrispondeva piuttosto a esigenze strutturali del sistema stalinista, 
poiché solo l’imposizione di sistemi socio politici analoghi a quello sovietico potevano, dal punto di 
vista del Cremlino, garantire la stabilità e il controllo sugli altri paesi. La concezione di “sfere 
d’influenza” che avevano gli Stati Uniti non richiedeva il controllo politico sui paesi subordinati, 
ma si basava sulla nozione di libero mercato come strumento di dominio dell’economia USA e in 
generale del sistema capitalistico. La crisi postbellica europea rappresentava una minaccia contro 
questo obiettivo e poteva essere sfruttata dall’URSS. Inoltre la Gran Bretagna, cioè la sola potenza 
che potesse fare da contrappeso all’Unione Sovietica  in Europa era, anch’essa in pieno declino.   
L’elaborazione di queste nuove posizioni, delineate dalla Aga Rossi, durante questo biennio, fu 
accompagnata da alcuni eventi di rilievo sul panorama internazionale.        
Nel corso del ’46 Mosca fu presente attivamente nel Medio Oriente fornendo appoggio alle 
correnti autonomiste azere e curde in Iran e  lavorando alla stipulazione di un vantaggioso accordo 
petrolifero. I curdi erano riusciti addirittura nel gennaio ’46 a dar vita  ad un proprio stato la 
Repubblica di Mahabad. L’immediata reazione britannica alla crisi in Iran portò alla repressione dei 
movimenti azero e curdo, alla fine dopo meno di un anno di vita, della Repubblica di Mahabad e 
alla instaurazione di un governo filo-occidentale a Teheran. Mosca, che nel frattempo aveva 
ottenuto l’accordo petrolifero, non oppose resistenza a questi sviluppi. 
Un'altra vicenda importante fu il tentativo sovietico di ottenere dalla Turchia, nella seconda metà 
del ’46, la revisione della Convenzione di Montreux del 1936 sugli Stretti turchi, attraverso una 
proposta di  accordo per la  loro difesa comune.  In base a quanto stabilito a Montreux  le navi 
  
militari  avevano libero accesso negli stretti fino ad una certa stazza in tempo di pace, mentre in 
tempo di guerra il diritto di passaggio era interdetto a tutte. All’iniziativa politica di Mosca, respinta 
dalla Turchia, si aggiunsero, creando situazioni di instabilità, le pressioni sovietiche su questioni di 
frontiera relative soprattutto alle zone abitate dalle minoranze nazionali armena e curda fortemente 
represse da Ankara. Anche qui, come in Iran e come in Grecia, dove era in atto una guerra civile tra 
il fronte monarchico e conservatore al governo e i partigiani comunisti, la reazione britannica non si 
fece attendere.           
La Gran Bretagna, tuttavia,  alle prese con gravi difficoltà economiche e finanziarie, all’inizio del 
’47 non era più in grado di abbinare al proprio sostegno politico gli aiuti economici che in 
precedenza non aveva fatto mancare alle forze governative turche e greche.  
L’appello agli Stati Uniti, affinché si sostituissero agli inglesi nel sostegno economico  ai governi 
della Turchia e della Grecia per evitare i rischi  che, secondo Londra, correva il Mediterraneo 
orientale a causa dell’espansionismo sovietico, fu accolto con favore dall’amministrazione Truman 
e in particolare dai vertici del Dipartimento di Stato (alla cui guida dall’inizio del ’47 il Gen. 
Marshall aveva sostituito Byrnes).  
Il 12 marzo 1947,  dinanzi al Congresso, il Presidente Truman annunciò l’iniziativa di un 
programma di aiuti per un totale di 400 milioni di dollari in favore della Grecia e della Turchia, 
giustificando questo provvedimento con un discorso al quale fu attribuito il nome di “Dottrina 
Truman”. In esso il Presidente, tra l’altro, sottolineava l’intenzione degli Stati Uniti di intervenire a 
sostegno di tutte quelle popolazioni che resistevano ai tentativi di coercizione da parte di minoranze 
armate  o di pressioni esterne. “[…] La dottrina Truman –  sostiene D’Agata –   rappresentava la 
vittoria a Washington degli antiroosveltiani più radicali […] ovvero il successo dell’interpretazione 
estesa ed estrema della teoria del ‘contenimento’. Una tale interpretazione è quella cui propriamente 
spetta il nome di ‘guerra fredda’, le cui origini e le cui responsabilità sono oggetto di una sterminata 
letteratura e di una discussione che difficilmente sarà mai conclusa, laddove per quanto riguarda la 
sua formale dichiarazione pochi dubbi ancora sussistono circa l’opportunità di individuarla nel 
messaggio presidenziale del 12 marzo 1947”. (9) 
Proprio in quei giorni era in corso a Mosca una Conferenza delle potenze vincitrici sulla 
questione della Germania, che si protrasse fino al mese successivo senza che, tuttavia, si riuscisse a 
trovare un accordo né sul destino della Germania, né sul tema delle sue riparazioni. 
L’insuccesso dei colloqui di Mosca si aggiungeva ai fatti sopra accennati e ad altri eventi che 
avevano caratterizzato il biennio 1945-47: il notevole ruolo che esercitavano i partiti comunisti 
nello scenario politico italiano e francese;  il crescente influsso che stava acquisendo l’URSS in 
  
Europa orientale; il rigido inverno 1946-47 che aveva peggiorato  le difficoltà economiche in cui 
versava l’Europa  Occidentale a causa dei forti squilibri nelle bilance dei pagamenti,  i rischi di 
instabilità  e la necessità di intervenire  a sostegno della ripresa economica che ne conseguivano; la 
fine, prevista nel giugno ’47 del programma di aiuti UNRRA (United Nations Relief and 
Rehabilitation Administration) concepiti nel giugno ’45 come la soluzione alle temporanee  
difficoltà postbelliche che avrebbero altrimenti impedito l’attuazione degli accordi di Bretton 
Woods (il totale dei fondi UNRRA nell’Europa occidentale ammontò a circa 10 miliardi di dollari, 
il 74% dei quali forniti dagli Stati Uniti);  la vittoria  da parte dei repubblicani nelle elezioni di 
“mezzo termine” nell’autunno ’46 per il rinnovo del Congresso USA e la conseguente esigenza che 
ne derivava di trovare in  politica estera  una soluzione bipartitica che poteva essere fornita solo da  
un irrigidimento con Mosca.   Tutti questi elementi  contribuivano a  rafforzare le ragioni dei policy 
makers americani sostenitori del  “contenimento” e ad incoraggiarli  a intraprendere delle iniziative.
 Questo fenomeno è sottolineato dalla Aga Rossi, la quale sostiene che “[…] il permanere di 
truppe sovietiche in Iran, la pressione sovietica sulla Turchia e la questione tedesca, il 
rafforzamento dei partiti comunisti in Francia e in Italia, furono tutti elementi che dettero forza agli 
argomenti di coloro che sostenevano la necessità di un’azione rapida e incisiva. Il Piano Marshall – 
prosegue – fu la risposta concreta a timori veri o presunti, ma allora sentiti come incombenti e nello 
stesso tempo segnò una svolta definitiva nei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica e nella loro 
evoluzione verso la guerra fredda”. (10) 
Nella primavera del ’47, come evidenzia Charles S. Maier, anche i  vecchi sostenitori della 
cooperazione tra Oriente e Occidente si erano convertiti all’idea della possibilità di  ripresa 
economica soltanto tra i paesi occidentali: “Essentially by the spring of 1947, the earlier advocates 
of East-West economic cooperation were largely converted: better to throw their energies into 
Western economic recovery than no recovery at all”. (11) 
In quello stesso periodo, pertanto si intensificarono gli sforzi dell’amministrazione statunitense 
nella definizione di un programma che, da un lato, consentisse all’Europa Occidentale di affrontare 
il processo di ricostruzione e di ripresa postbelliche,  di acquisire quel livello di benessere 
economico e sociale indispensabile ai fini della stabilità politica e, dall’altro, favorisse un processo 
di integrazione  tale da condurla alla formazione degli Stati Uniti d’Europa. Questi ultimi avrebbero 
costituito il principale partner commerciale, politico e militare degli USA. 
“Se non era prevalsa, nel 1945, contro l’eredità lasciata dalla più ampia visione di Roosevelt e di 
Corder Hull- osserva Maier – la concezione di Kennan aveva però  influenti sostenitori che 
guadagnarono terreno sotto l’amministrazione Truman con l’intensificarsi della guerra fredda”. (12)        
  
Sia lo State War  Navy Coordinating Committee (SWNCC) che il Policy Planning Staff (PPS) 
del Dipartimento di Stato (un organismo creato in quella stessa primavera del ’47 e la cui leadership 
fu affidata a Kennan), elaborarono, quindi, tra i mesi di aprile e maggio del ’47, dei rapporti su 
possibili interventi in favore dei paesi europei.  
Nella relazione dello SWNCC il concetto di aiuto regionale non era ancora presente, la Germania 
non veniva considerata come un eventuale beneficiario, le situazioni in Italia e in  Ungheria 
apparivano come le più urgenti. Il rapporto del PPS, invece, prevedeva un’azione a breve e 
un’azione a lungo termine. La prima doveva concretizzarsi in un programma volto ad incrementare 
la produzione di carbone nella Renania della quale avrebbero dovuto beneficiare i Paesi europei. La 
seconda, data la maggiore complessità, doveva essere affidata all’iniziativa degli stessi Europei. La 
proposta doveva essere rivolta a tutti i Paesi dell’Europa, ma in modo tale che l’Europa orientale, 
egemonizzata dall’URSS, o si autoescludesse non essendo disposta ad accettare i principi sui quali 
si sarebbe basato il programma di ripresa economica (in particolare quello della integrazione) o 
accettasse provvedendo di conseguenza  ad abbandonare  le linee guida esclusiviste verso le quali la 
stava dirigendo l’influenza sovietica.  
Questi studi  confermavano la necessità di una leva economica alla politica estera statunitense   
sostenuta dal Sottosegretario di Stato Dean Acheson il 18 aprile ’47: “Bisognerà utilizzare sempre 
più il nostro secondo strumento di politica estera, cioè il potere economico, in modo da frenare 
l’espansionismo, l’infiltrazione politica dell’URSS e da permettere alla stabilità politica e al 
benessere economico di impiantarsi”. (13) Lo stesso Acheson nel discorso tenuto il mese successivo 
al Delta Club di Cleveland sottolineava l’esigenza di intervenire in Europa per rimediare al “dollar 
gap”  (causato dalla  crisi di produttività e dalle esigue esportazioni che ne derivavano)  
responsabile dei problemi della ripresa europea. 
Alle parole di Acheson si unirono quelle  del Segretario di Stato Aggiunto per gli Affari 
Economici  William L. Clayton che il 27 maggio, di ritorno da un viaggio in Europa dipingeva un 
panorama allarmante e descriveva  una situazione sull’orlo del collasso: “Europe is steadily 
deteriorating. The political position reflects the economic. One political crisis after another merely 
denotes the existence of grave economic distress. Millions of people in the cities are slowly 
starving… 
The modern system of division of labor has almost broken down in Europe”. (14)   
Il discorso di Marshall il 5 giugno ’47 a Harvard risentì, ovviamente, di questo nuovo quadro 
concettuale consolidatosi nella primavera di quello stesso anno. Il suo ruolo nel nuovo contesto 
della politica estera americana era stato quello di ascoltare e di incoraggiare i membri del 
  
Dipartimento di Stato a formulare progetti. A Harvard, in breve, egli espresse il desiderio degli Stati 
Uniti di impegnarsi a sostenere l’Europa nell’opera di ricostruzione e di ripresa postbelliche a 
condizione che l’iniziativa provenisse dagli stessi europei  che avrebbero dovuto coordinarsi al fine 
della predisposizione di un programma da presentare agli USA. Marshall (o meglio il suo assistente 
Bohlen che redasse il discorso letto dal Segretario di Stato) si basò essenzialmente sul 
memorandum di Clayton e sul rapporto del PPS di Kennan , del quale seguì, tra l’altro, il parere di 
rivolgere la proposta a tutta l’Europa, sicché si può che il nome di Marshall restò associato al Piano 
“soltanto casualmente”. (15) 
Esaminati i tratti essenziali attraverso i quali si realizzò il processo di evoluzione 
dell’universalismo americano è opportuno, ora,  analizzare con maggiore attenzione come la 
storiografia lo ha discusso e interpretato. Si esporranno in particolare le tesi di C. S. Maier, di J. 
Gimbel, di E. Di Nolfo, di M.J. Hogan e di A.S. Milward.   
L’analisi di Maier parte dal presupposto che l’iniziativa americana muoveva da una visione 
globale  politica ed economica della realtà internazionale. Non è corretto, secondo Maier, limitarsi a 
concepire l’ERP come uno strumento di assistenza economica attraverso cui  ottenere risultati 
politici,  impedire, cioè, che l’Europa cadesse preda del comunismo. Non solo, infatti, il disegno dei 
policy makers statunitensi conteneva obiettivi sia politici che economici, ma questi erano fra loro 
strettamente collegati: “From its conceptualization in 1947 to its transformation into a program of 
military assistance by 1951, the European Recovery Program integrated a wide range of policy 
aspirations: political and economic. It began in response to a perceived crisis – political and 
economic at the same time.” (16) Due sono, secondo Maier, le basi concettuali del Piano: a quella 
del legame tra  politica ed economia si affiancava la sua “portata europea” e il suo tentativo di 
conciliare ruoli nazionali differenti. Il primo orientamento viene definito da Maier “politica della 
produttività”. I policy makers statunitensi, in altre parole, erano convinti che alla base della stabilità 
politica vi fosse il benessere economico e che alle radici di quest’ultimo vi fosse un sistema 
economico fondato sui principi della produttività quale era quello degli USA.  L’impiego di una 
tecnologia sempre più efficiente e la realizzazione di economie di scala erano alla base degli 
incrementi di produzione e della redditività dei fattori. Maggiore era la produzione, maggiore era la 
crescita economica, maggiori erano i benefici non solo per le imprese ma anche per le forze 
lavorative. Le prime, avendo incrementato i propri fatturati e incoraggiate dalle prospettive di 
consumi più elevati, erano più disponibili a concessioni salariali; le seconde percependo  redditi 
reali più alti erano destinate ad abbandonare  la conflittualità sociale e a riconoscere la 
indispensabilità della collaborazione interclassista  per il raggiungimento di condizioni economiche 
  
più favorevoli. “In breve – osserva Maier – il consenso sulla produttività e sulla crescita doveva 
prendere il posto dei conflitti in materia di distribuzione della ricchezza.” (17) 
Era essenziale, quindi, che si instaurasse un diverso rapporto tra organizzazioni del lavoro ed 
imprese. Se non era possibile eliminare la concezione marxista del mercato del lavoro, essa andava 
comunque isolata. Era fondamentale nei programmi americani che la componente non comunista  
del mondo del lavoro detenesse il controllo delle organizzazioni sindacali. 
Un  concetto importante e strettamente legato a quello di produttività è, secondo Maier, quello 
delle “strozzature” ( “bottlenecks”). Un sistema economico poteva  presentare dei problemi 
temporanei, delle “strozzature” appunto,  che  non eliminate ,  gli impedivano di muoversi sulla 
strada della crescita economica minacciando, conseguentemente, la sua stabilità politica. 
Strozzature economiche –  disagio sociale –  instabilità politica –  pericolo comunista. Questo era 
l’indesiderato destino che i policy makers americani (soprattutto nel rapporto del PPS di Kennan del 
23 maggio ’47) temevano per i Paesi europei se gli USA non fossero intervenuti al più presto contro  
le singole “strozzature” che li colpivano.            
  
Maier afferma, infatti, che, nell’ottica statunitense, i Paesi europei all’inizio del ’47 erano alle 
prese,  con una serie di “bottlenecks” che andavano affrontate ed eliminate:  “Nell’Europa del 
dopoguerra il carbone, i generi alimentari, i trasporti costituivano le principali strozzature. 
L’esigenza di importare prodotti di prima necessità faceva della carenza di valuta estera, e 
soprattutto di dollari, un altro ostacolo principale. […] Il concetto dell’intervento contro le 
strozzature continuò ad animare i programmatori e gli altri dirigenti dell’ECA negli anni successivi. 
Gli impedimenti che ostacolavano la capacità produttiva tedesca […] dovevano essere rimossi; agli 
impedimenti a danno della stabilità finanziaria francese doveva esser posto rimedio mediante la 
riforma fiscale; gli ostacoli al commercio e ai pagamenti multilaterali in Europa dovevano essere 
rimossi inducendo la Gran Bretagna ad un atteggiamento di maggiore cooperazione, e così via. In 
ogni situazione, i responsabili della politica americana individuavano un latente dinamismo 
economico che aveva bisogno solo di essere liberato dai freni consunti di ordine tecnologico, 
psicologico e politico. Se gli Stati Uniti erano riusciti a superare i propri conflitti di natura politica 
con l’espansione economica, la teoria delle strozzature induceva a ritenere che la stessa soluzione 
fosse applicabile anche all’Europa. […] Washington chiedeva solo che gli europei facessero i loro 
programmi, collaborassero unitariamente e accordassero alla ripresa economica la priorità sugli 
obiettivi di parte”. (18) 
  
 Alcuni problemi dell’economia europea forse risalivano alla stessa economia statunitense e alla 
probabile sopravvalutazione del dollaro: “The dollar was probably valued too high, not only in 
terms of other currencies, but in terms of basic postwar commodities. Yet the Europeans had 
agreed that the dollar was a reserve currency; they would accept  the value that the Americans 
themselves decided”. (19) 
La seconda base concettuale dell’ERP introdotta da Maier era strettamente legata alla prima. La 
portata  europea del Piano si traduceva in un atteggiamento che pur avendo un obiettivo generale, 
quale era quello di un’Europa integrata, teneva in considerazione la specificità, i diversi ruoli, le 
diverse specializzazioni funzionali, i diversi compiti da assegnare ai vari Paesi europei. “L’’Europa’ 
di Washington – sottolinea Maier – non era un continente omogeneo, ma una regione con ruoli 
funzionalmente interdipendenti, dettati dalla storia e dalle risorse”. (20) Un tale approccio 
consentiva una gestione flessibile dell’ERP e, pertanto, meno soggetta alle delusioni della opinione 
pubblica. Nello stesso tempo gli Europei erano consapevoli delle maggiori opportunità offerte loro 
dalla differenziazione (un mezzo “per far valere le rispettive priorità nazionali e politiche”); inoltre 
il programma operava come “una rete di sostegno e di impegno reciproci, e non solamente come 
una cornice imperiale”. 
All’interno di questo seconda direttiva nella impostazione della politica di Washington, prevalse 
una concezione regionale del Continente europeo. “L’idea di un approccio regionale – afferma 
Maier – […] rappresentava il ritorno alla concezione politica di George F. Kennan e di altri, che 
erano stati i primi sostenitori dell’accettazione di una franca divisione dell’Europa: cedere l’Oriente 
all’influenza  di  Mosca, ma   unificando   apertamente l’Occidente   contro il comunismo.” (21) 
Tre erano, secondo Maier, le problematiche principali legate alla concezione europea del Piano 
Marshall: il futuro della Germania; il ruolo politico della Francia e dell’Italia; la struttura degli 
scambi commerciali e dei pagamenti internazionali. 
In Germania il problema  era  essenzialmente di ordine economico. Gli Americani, secondo 
Maier, consideravano esauriti gli estremismi politici; andava, pertanto, consolidata la stabilità 
attraverso la ripresa economica tedesca, che   avrebbe rappresentato, con le sue enormi potenzialità, 
la “ molla principale del futuro benessere europeo”. Era, infatti, la Germania, e non un altro paese, 
che avrebbe potuto in futuro fornire eccedenze della propria capacità industriale. Sulla necessità di 
rimettere il moto l’apparato economico tedesco aveva insistito molto l’ex Presidente Hoover e  sulla 
stessa lunghezza d’onda si inserivano le considerazioni del Segretario per il Commercio, Averell 
Harriman: “Non potremo far rivivere un’economia dell’Europa occidentale autosufficiente senza 
una Germania florida    che svolga il proprio ruolo di unità produttiva e di consumo.” (22) 
  
Gli Stati Uniti non sottovalutavano, quindi, la questione tedesca, anche se il problema tedesco 
era  strettamente legato a quello francese: era difficile far accettare alla Francia, in cui erano forti le 
opposizioni di sinistra (comunisti) e di destra (gollisti), il reinserimento economico europeo della 
Germania.  
Dal punto di vista americano (e in particolare di quello del facente funzioni di Segretario di Stato 
Roberto Lovett), secondo Maier, le questioni relative alla Francia, e anche  all’Italia (i  due paesi in 
cui operavano i più forti partiti comunisti dell’Europa occidentale) venivano considerate non sotto 
l’aspetto economico, ma sotto quello politico. La funzione dell’ERP “ […] non era tanto di istituire 
centri sovranazionali di sviluppo e di produttività economica, quanto di assicurare semplicemente la 
stabilità politica”. (23) 
A testimonianza di queste preoccupazioni americane, Maier rileva come, dopo l’ondata di 
scioperi dell’autunno ’47 in Italia, il National Security Council, avesse valutato l’eventualità di una 
divisione in due del territorio italiano con il Sud  controllato dalle forze militari, mentre il Nord  
lasciato nelle mani dei comunisti. A poche settimane  dalle elezioni  politiche  in Italia, allarmato  
dal colpo di stato in Cecoslovacchia, lo stesso Kennan aveva formulato l’ipotesi di favorire un 
golpe “nell’Italia settentrionale e di prendere sotto controllo il Sud anziché correre il rischio di 
perdere le imminenti elezioni”. (24)  
Il terzo problema legato all’approccio regionale del Piano Marshall, era un problema di lungo 
periodo. Una volta affrontate ed eliminate, rispettando i loro ruoli nazionali, le singole “strozzature” 
che colpivano i vari Paesi europei, questi   dovevano poi muoversi insieme – attraverso una propria 
organizzazione sovranazionale –   sulla strada della integrazione e della formazione, nell’arco di un 
quadriennio, di un vasto ed efficiente sistema internazionale di scambi e pagamenti. 
Fu nella risoluzione di un tale problema che, secondo Maier, gli Stati Uniti incontrarono gli 
ostacoli più difficili. La differenziazione dei tratti distintivi dei Paesi europei – elemento 
fondamentale della politica economica estera di Washington – fu, infatti, sfruttata dai policy makers 
europei in funzione dei rispettivi interessi nazionali. Ognuno “ […]cercava di affermare un proprio 
ruolo distinto […]” tendendo a “ […] esaltare il più possibile l’indipendenza nazionale […]”. Tutto 
ciò, ovviamente contrastava con quanto auspicato dagli USA. Inoltre, “il fatto che le controversie 
relative all’organizzazione dell’OECE, ai pagamenti multilaterali, all’impiego dei fondi di 
contropartita, ecc., dessero luogo a compromessi, testimoniava che la stessa politica americana 
conteneva in sé tendenze contrastanti”. (25) 
Maier sottolinea come all’interno dell’amministrazione Truman furono sempre più evidenti le 
diversità di vedute e di scopi. Il Tesoro americano premeva per il superamento, innanzitutto, dei