2
videoclip, infatti, che non parli di Bachelorette di Bjork (1997) o di Like a Rolling
Stone dei Rolling Stones (1995). Resta purtroppo un certo alone di oscurità
intorno al loro autore, il quale a volte non viene neanche menzionato. In altri casi
se ne parla in maniera un po’ sintetica, abbozzando che si tratta di una personalità
“interessante”. Più rari sono i tentativi di definire alcune caratteristiche della sua
opera, come il recente “Gondry e il video meta-narrativo”
1
, che descrive una
tecnica utilizzata dal regista in sole due opere. Un po’ poco, considerando che la
sua produzione raggiunge oggi oltre settanta videoclip, caratterizzati da tematiche
ricorrenti ed uno stile inconfondibile.
Questa scarsa attenzione è in realtà il sintomo di una situazione più generale, che
riguarda l'intero ambito della produzione e degli studi sul videoclip. All’interno
del magma indistinto del flusso neo-televisivo, dove i videoclip sfumano l’ uno
nell’altro senza lasciare traccia alcuna (né di se stessi né, tanto meno, dei propri
artefici), le opere di Michel Gondry non sono le uniche ad essersi guadagnate
popolarità e considerazione estetica. Nel diffuso anonimato che soffoca gli autori
della “forma breve” sono ormai parecchi i nomi di quelli che, timidamente,
possiamo definire autori. Alcuni di essi, ad esempio Chris Cunningam, Spike
Jonze o Mark Romanek, sono diventati (soprattutto per il pubblico più attento)
personalità importanti, accompagnate da un corpus di opere dal notevole spessore.
Opere dotate di coerenza tematica e solidità stilistica, oltre che di autori sui quali
si è scritto molto poco. Il punto è che sono proprio i suddetti nomi ad aver dato
nuova vitalità al videoclip. Negli anni ’90 grazie a loro, senza rinnegare la propria
anima pubblicitaria ma anzi sfruttando i limiti dell’ imperativo promozionale, il
clip ha raggiunto la sua maturità linguistica. Esso è diventando una forma
paradigmatica del linguaggio audiovisivo; un modello capace di influenzare il suo
contenitore televisivo e addirittura, fatto per alcuni inaudito, il cinema.
La prima motivazione del buco teorico rispetto ai “nuovi autori” è quindi una
relativa attualità del fenomeno. Relativa perché sono ormai dieci anni che il
meglio della produzione videomusicale porta la firma di Michel Gondry o di
Stephane Sednaoui, e almeno venti nel caso di Anton Corbjin o Jean-Baptiste
Mondino. La seconda, e più importante, motivazione invece è da ricercare nello
stato attuale degli studi sul videoclip. La ricerca, copiosa e ricca di contributi
1
in DI MARINO B., Clip. 20 anni di musica in video (1981-2001), Roma, Castelvecchi, 2001, pp.
3
provenienti dai più disparati ambiti disciplinari, è terribilmente dispersiva. La
doppia anima (estetica e pubblicitaria) del videoclip attira l’ interesse, oltre che di
studiosi del cinema, di sociologi, semiologi, filosofi, ecc. Si fa davvero fatica a
trovare qualche definizione stabile, ad individuare delle costanti nella ricerca.
Alcuni si concentrano sul significato di questa forma, vedendola quasi come un
paradigma dell’esperienza contemporanea (quei casi in cui il videoclip è studiato
come fenomeno postmoderno). Per altri invece si tratta di un mezzo per studiare i
fenomeni di costume e le dinamiche di consumo giovanili, un punto di vista
interessante quando non sminuisce il fenomeno, trasformandolo da giovanile in
giovanilistico. Nell’ ambito degli studi sul cinema invece si tentano di capirne i
meccanismi di funzionamento, in rapporto al contesto televisivo o alla messa in
scena della performance e del corpo della star. Questi contributi confluiscono
nella forma del libro o, più spesso, dell’articolo e del saggio breve; a testimoniare
l’ampio interesse nato negli ultimi anni intorno al videoclip. Non è nostro
interesse comunque tracciare una sintesi esauriente di tutte le direzioni prese dalla
ricerca, ci basta evidenziarne la pluralità per chiarire che lo studio del videoclip è
un campo estremamente problematico. A tutto ciò contribuisce poi la velocissima
evoluzione del mezzo, il quale mette in gioco soluzioni tecniche continuamente
nuove, destinate a rapida obsolescenza. Isolare delle tendenze stilistiche è difficile
sia per l’enormità della produzione che per la difficoltà a riconoscere fenomeni
stabili tra una moda e l’altra. Ma la produzione non è solo quantitativamente
considerevole, è anche difficilmente recuperabile. I videoclip raggiungono la meta
del supporto materiale solo quando viene pubblicata la videografia di qualche nota
pop star. Altrimenti bisogna affidarsi alla programmazione di Mtv e tenersi pronti
col videoregistratore.
Non è casuale allora che l’unica definizione costante del videoclip sia quella di un
oggetto ambiguo, ibrido e sfuggente. “I videoclip sono ibridi mostruosi”, scriverà
Dick Hebdige
2
, e alle sue parole faranno eco tantissimi altri studiosi. Una
definizione che si riferisce alla sua perenne ambivalenza tra forma d'arte e
strumento promozionale, oltre che alla varietà di forme espressive che esso
83-87
2
HEBDIGE D., Hiding in the light. On images and things, London, Comedia/Routledge, 1988;
trad. it. La lambretta e il videoclip. Cose e consumi dell’ immaginario contemporaneo, Torino,
E.D.T., 1991
4
miscela e condensa: cinema, arti visive, pubblicità, musica pop, diventano degli
enormi contenitori da cui il clip attinge temi, citazioni, iconografia, ecc.
In un contesto simile concentrarsi su una singola personalità, su quella che
possiamo definire una poetica, potrà sembrare addirittura prematuro. Eppure, a
mio parere, è l’unico modo per comprendere a pieno i meccanismi linguistici del
videoclip, magari superando certe facili generalizzazioni, dovute più alle difficoltà
insite nella ricerca che ad uno sguardo troppo frettoloso. I testi sul videoclip, ad
esempio, sono tutti concordi nel considerare il montaggio accelerato un aspetto
distintivo di questa forma. Un vero e proprio leitmotiv che risale agli studi degli
anni ‘80 e che torna anche in quelli più recenti. Pur essendo un tratto stilistico
ricorrente, nella maggior parte della produzione (quella comunque più banale), il
“montaggio accelerato” non è assolutamente una regola fissa. Tantissime sono le
opere degli anni ’90 che hanno proposto uno stile diverso, privo di un abuso del
montaggio. Si può addirittura individuare una tendenza, soprattutto in alcuni
autori, all’ utilizzo di un linguaggio estremamente scarno, fatto di pochi
movimenti di macchina o di un’ inedito utilizzo del piano-sequenza. Alla fine
continuare a parlare del frenetico montaggio del clip «a portato ad una definizione
ormai stereotipata di questa forma, sopratutto alla luce dei suoi recenti sviluppi».
3
Nel 1995 Franck Dupont scriveva: «Qu’ est-ce qu’ un clip? Ou plutôt, devrait-on
dire, qu’ était-ce qu’ un clip, tant la nature originelle de nombreuses réalisations a
marqué, à juste titre, les esprits»
4
, il critico francese richiamava l’attenzione, già
dieci anni fa, sul grado di maturità a cui era giunto il videoclip, ormai lontano dal
suo stile consueto. L’ articolo si spingeva però oltre, introducendo alcuni tra gli
artefici del cambiamento, ovvero Michel Gondry e Stéphane Sednaoui, senza
dimenticare di ricordare un importante precursore francese, Jean-Baptiste
Mondino. Per la prima volta si parlava di autori, di nomi e cognomi che non
fossero quelli della pop star di turno. Sono passati dieci anni ed il fenomeno è
diventato ancora più evidente, le “giovani promesse” individuate dal critico
francese sono cresciute e hanno riscritto alcune di quelle che sembravano le
“regole” del videoclip. Il primo ad accorgersi del mutamento è stato il pubblico.
Gli ascoltatori di musica rock hanno seguito con notevole interesse l’evolversi di
3
PEVERINI P., Il videoclip. Strategie e figure di una forma breve, Roma, Meltemi, 2004
4
DUPONT F., A propos du clip, "Cahiers du Cinéma", numero speciale, 1995
5
un fenomeno che nasce col clip stesso, ovvero la collaborazione tra musicisti e
registi nello sviluppo di un inedito immaginario videomusicale. I successori di
David Bowie e Julien Temple sono proprio i nuovi autori di cui stiamo parlando,
insieme ad alcuni dei più importanti musicisti rock contemporanei. Così è
accaduto che il numeroso pubblico dei Radiohead ha potuto conoscere ed
apprezzare i video del gruppo girati da Jonathan Glazer, mentre i fan dell’
elettronica minimale di Aphex Twin si sono interessati all’opera, altrettanto
estrema, di Chris Cunningham e quelli di Bjork al caleidoscopico lavoro di
Michel Gondry. Il mercato ovviamente non è rimasto affatto insensibile alle
richieste sempre maggiori di un pubblico decisamente stufo di doversi adattare
alla programmazione di Mtv, la quale relega le opere più interessanti (salvo quelle
legate ai musicisti più noti) nelle ore che seguono la mezzanotte. Alla fine sono
stati i registi stessi a venire incontro al mercato. Nel 2003 Michel Gondry, Spike
Jonze e Chris Cunningham hanno dato vita, col supporto della Palm Pictures, a
Directors Label. Un’ etichetta che già da tre anni produce raccolte di dvd
incentrate sul lavoro dei registi di videoclip più innovativi degli ultimi anni.
Attualmente giunta al suo settimo volume, “The Work Of Director” è la prima
iniziativa seria che non raccoglie i video del cantante o del complesso pop, ma
quelli dell' autore che li ha creati. Questi volumi contengono materiale selezionato
dagli stessi registi, spesso introvabile; e sono corredati da un libretto ricco
d’informazioni, da interviste e delucidazioni tecniche dei registi sui video.
I tempi sono notevolmente maturi per avventurarsi nell’opera (spesso prolifica) di
questi autori; per cercare di individuarne gli elementi ricorrenti, decifrarne lo stile
e tentare di interpretarne la poetica. La ricerca del particolare non potrà non
giovare ai futuri tentativi di tracciare una mappa generale, e quindi ad una più
chiara comprensione del videoclip. Un fenomeno neanche più tanto “sfuggente”,
dal momento che gli occhi delle nuove generazioni si sono definitivamente
abituati ad uno stile che dal clip si è esteso all’ intero flusso delle reti tematiche
(Mtv) e al cinema stesso. Dare uno sguardo all' opera di Michel Gondry significa
quindi osservare più da vicino, e in maniera più analitica, le recenti trasformazioni
del videoclip. Magari qualche stereotipo potrebbe iniziare a crollare: ad esempio
quello del montaggio frammentato davanti ad un inedito utilizzo del piano-
sequenza, o quello di un eccessivo sfarzo tecnico davanti all’uso di tecniche
minimali, “trucchi” che ricordano quasi quelli di George Méliès; infine quello che
6
vuole il clip come forma priva di significato se non all' interno del palinsesto, e
quindi del progetto comunicativo dell’emittente. Riconoscere invece in un
videoclip la presenza di tematiche, di contenuti ben precisi, può essere un modo
per renderlo un oggetto un po’ più concreto e meno sfuggente. Scoprire i legami
che esso intrattiene con il pensiero contemporaneo, può forse servire ad eliminare
qualche pregiudizio; a togliere un po’ di puzza da sotto al naso da chi lo considera
un fenomeno superficiale, a chi è poco incline a considerare come Arte i prodotti
del pop. Sono tutte questioni che cercherò di approfondire e sviscerare nella
pagine successive, per adesso mi limito a sottolineare che la collana The work of
director, estrapolando i video dal caotico flusso di Mtv, ed accorpandoli sotto il
segno dell' autorialità, dimostra chiaramente che essi hanno un significato anche
fuori dal palinsesto televisivo. E’ la prova (se ancora ce ne fosse bisogno) che
queste opere nascono da un’ idea forte, da una progettualità ben precisa e da un
uso motivato della tecnica, mai fine a se stesso. I video di Michel Gondry, in
particolar modo, sono la prova che si può stupire ed affascinare lo spettatore
anche senza dispiegare un effetto dietro l’altro, anche con dei video dalla struttura
calcolata al millimetro, dove nessuna immagine può essere scambiata con un'altra
o anche solo sacrificata. Battersi per la dignità artistica e l’autonomia linguistica
del clip, non vuol dire certo pretendere che esso diventi qualcos’altro da quello
che è. Non bisogna dimenticare che il video è anche uno strumento promozionale,
una forma di pubblicità. A mio parere il suo valore è proprio questo, quello di
essere una forma d’arte tenuta a confrontarsi costantemente col gusto del pubblico
e quindi obbligata ad elaborare soluzioni stilistiche sperimentali, ma pur sempre
accessibili. Dieci anni fa John Walker ha scritto: " Come i dischi i video musicali
sono sia merci che creazioni artistiche. In quanto tali essi possiedono sia un valore
di scambio che un valore d'uso, e il primo non invalida necessariamente il
secondo".
5
In Italia, di recente, Bruno Di Marino si è espresso sulla necessità di
analizzare il videoclip da una prospettiva estetica, in un paese dove i pregiudizi su
questa forma sono ancora molto forti.
Rimane difficile far comprendere che, accanto a videoclip brutti, banali e ripetitivi, la cui unica
funzione è quella di far vendere più dischi, si realizzano lavori innovativi e originali e che ai
5
WALKER J., Crossovers: Art into Pop/Pop into Art, London, Comedia Methuen, 1987; trad. it.
L'Immagine Pop. Musica e arti visive da Andy Warhol alla realtà virtuale, Torino, Edt., 1994
7
semplici mestieranti più o meno dignitosi, si affiancano autori con un proprio stile definito e
riconoscibile.
6
La dignità artistica del clip è dunque una questione su cui si sono soffermati in
molti, ma evidentemente non è stata ancora ribadita a sufficienza se ancora il
nome dell'autore viene relegato nell'oblio: ad esempio sui testi, come in Musica da
vedere di Gianni Sibilla (dove i videoclip sono attribuiti al gruppo o all'artista
pop); o ancora su Mtv, dove molti “contenitori” omettono il nome dell'autore;
infine nelle università, dove il videoclip viene raramente studiato.
La seguente tesi si divide in tre parti. Nella prima mi occuperò delle opere
dell’autore nelle quali compare lo schermo televisivo. In particolare di quei video
dove la televisione assume un ruolo centrale, diventando la protagonista del clip e
modificando le dinamiche di percezione della realtà. Nello stesso capitolo mi
occuperò anche di inserire i primi esperimenti di Michel Gondry nel contesto
culturale degli Anni '80; uno scenario nel quale si incrociano i destini dell’autore,
del videoclip e della cultura contemporanea. Questa contestualizzazione è
motivata dal fatto che il sottoscritto, come molti altri, considera il videoclip come
una forma d’arte paradigmatica della cultura postmoderna. Così come crede che le
radici della poetica del regista francese appartengano a quella stessa cultura.
Nel secondo capitolo mi occuperò di alcuni video dell’autore nei quali lo schermo
televisivo funge da semplice comparsa. Queste opere si fondano su una
confusione costante tra immagine e realtà, complice una macchina da presa che,
attraverso diverse tecniche, compie una costante mise en abyme del proprio punto
di vista. Tutto questo nel tentativo di esplorare degli spazi chiusi (dei palazzi ed
un night club) che invece si rivelano come potenzialmente infiniti. Luoghi privi di
qualsiasi rassicurante confine; nei quali interno ed esterno, vicino e lontano, si
confondono e si sovrappongono, trascinando lo sguardo nel totale
disorientamento. Ancora di disorientamento si parlerà, nel secondo paragrafo, per
definire il soggetto che guarda e che si muove nell’ universo quotidiano creato
dall’ autore. Di fronte ad un’ esperienza caotica e fatta di mille stimoli contrastanti
la protagonista di Let Forever Be (dei Chemical Brothers, 1995) non può fare altro
che moltiplicarsi ed evadere dalla realtà. La frantumazione del soggetto, il quale
6
DI MARINO B., Clip. 20 anni di musica in video (1981-2001), Roma, Castelvecchi, 2001
8
tenta di orientarsi in un mondo caotico, torna sottoforma di allucinazione sintetica,
dovuta all’abuso di stupefacenti, in Like a Rolling Stone dei Rolling Stones. Di
questo video parlerò nel terzo paragrafo, dedicato alle strategie di messa in scena
della performance, tecniche che ho diviso in due gruppi distinti: da un lato i clip
nei quali il gruppo che suona viene moltiplicato, quasi fino al punto di smarrire la
propria identità; dall’altro invece i video nei quali il gruppo che suona viene
trasfigurato dall’alterazione dell’immagine. E’ il caso proprio di Like a Rolling
Stone, dove ad esser distorto è lo sguardo della protagonista, mentre in Fell in love
with a girl la performance è filtrata da un ipotetico schermo, talmente vicino ai
nostri occhi da consentirci di vederne soltanto i pixel.
Nella terza ed ultima parte mi concentrerò su alcuni temi presenti nei primi video
del regista; quelli realizzati con i Oui Oui, sua prima band, e in quelli creati
successivamente per Bjork. In queste opere fa la sua comparsa un mondo naturale,
sottoforma di bosco o campagna, completamente estraneo alla civiltà moderna.
Accompagnato spesso ad una piccola provincia fuori dal tempo e legata al mondo
delle tradizioni. Nello stesso tempo però il regista elabora una visione della città
apparentemente opposta, fatta di caos e di disorientamento. La metropoli si
presenta come luogo in costante espansione, nel quale le strade (e le immagini) si
moltiplicano lasciando l’uomo in preda alla confusione. Questa opposizione tra
città e campagna, tra cultura e natura, è in realtà pura apparenza. Nell’analisi dei
video si vedrà che la natura messa in scena dall’autore non è quell’ universo puro
ed innocente che pretende di sembrare. La stessa opposizione tra natura e cultura è
meno netta di quel che sembra, soprattutto in quei video che sviluppano il tema
del viaggio, nei quali il paesaggio contemporaneo si presenta in tutta la sua
“uniformità”.
Pur partendo dai primi esperimenti del regista e dagli anni '80, non seguirò un
percorso cronologico. Ho scelto invece di isolare tre tematiche presenti all'interno
di tutto il percorso dell' artista, dagli esordi fino agli ultimi video. Gli stessi inizi
dell’ autore infatti sono spezzati in due capitoli, divisi tra le collaborazioni con
Jean-Luis Bonpoint (nel primo) ed i video dei Oui Oui (nel terzo). Si tratta quindi
di un punto di vista sincronico; motivato dalla presenza costante, nell’ arco di
circa un ventennio, degli stessi temi e dal fatto che essi fanno tutti parte di un
medesima concezione dell' immagine e della realtà.