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La comprensione della letteratura: la forma dell’espressione


Caduto il carattere fondante della finzione, cosa succede? Succede che dalla seconda parte del XVIII secolo subentra una definizione di letteratura che mette l’accento non più sulla finzione ma sul bello. Il bello, come spiega Kant nella Critica della facoltà di giudizio (1790) ha il proprio fine in se stesso; un opinione condivisa da tutta la nascente tradizione romantica.
Da questo momento la letteratura rinvia solo a se stessa. Il linguaggio comune è utilitaristico e strumentale; la letteratura trova, invece, il proprio fine in se stessa. La letteratura, scrive il Tesoro della lingua francese, è l’uso estetico del linguaggio scritto. Per molto tempo il versante romantico di questa idea è stato il più valorizzato; era un versante che separava nettamente la letteratura dalla vita, e considerava la letteratura una redenzione della vita (Proust diceva che la vita veramente vissuta è solo la letteratura), oppure, a partire dalla fine del XIX secolo, la sola esperienza autentica dell’assoluto e del nulla (Sartre che nella Nausea fa fuggire il suo Roquentin con l’ascolto di un’aria jazz, evitandogli la tragedia della vita contingente).
È una idea che ha però anche un suo versante formalista, un versante con cui oggi si ha maggiore confidenza; esso distingue il linguaggio letterario dal linguaggio comune, o individualizza l’uso letterario del linguaggio comune. Si dice che ogni segno, ogni linguaggio, sia fatalmente sia trasparenza sia ostacolo. L’uso comune del linguaggio tende a farsi dimenticare appena inteso (è cioè un linguaggio transitivo, impercettibile) mentre l’uso letterario coltiva la propria opacità (è cioè intransitivo, percettibile). Questa polarità può essere esplicitata in molti modi:
- Il linguaggio comune è: più denotativo (parla per segni esteriori), più trascurato, più referenziale e pragmatico.
- Il linguaggio letterario è: più connotativo (parla identificando il contenuto); è più ambiguo, espressivo, perlocutorio; più sistematico, coerente, organizzato; più immaginativo ed estetico.
La letteratura, dunque, sfrutta le proprietà del mezzo linguistico senza scopo pratico. Nasce così la definizione formalista di letteratura. Dal Romanticismo a Mallarmè la letteratura, come diceva Foucault, è pura e semplice manifestazione di un linguaggio che non ha per legge che di affermare la propria esistenza scoscesa.
La letteratura viene dunque definita adesso sulla base della forma dell’espressione, NON del contenuto. Siamo passati da una definizione della letteratura sulla base del contenuto ad una definizione della letteratura che va connotata sulla base dell’espressione (quella che Genette chiamava dizione).
I formalisti russi hanno dato all’uso propriamente letterario della lingua il nome di letterarietà. La letterarietà diventa dunque la proprietà distintiva del testo letterario.
Qui sembra che teoria della letteratura (la critica della critica) e la teoria letteraria (in questo caso il formalismo) sembrano coincidere in questo concetto. I formalisti tentavano con esso di rendere lo studio letterario autonomo definendone in modo specifico l’oggetto. Essi ponevano l’accento sugli aspetti giudicati specificamente letterari dell’opera, distinguendo il linguaggio letterario da quello comune, o non letterario.
Per i formalisti il linguaggio letterario è motivato (dunque non arbitrario), autotelico (e non lineare) e autoreferenziale (non utilitaristico).
Ma dunque? In che cosa consiste la proprietà, l’essenza dei testi letterari? Per i formalisti è lo straniamento il criterio di letterarietà, e l’oscurità. La letteratura, e l’arte in generale, aggiorna la sensibilità linguistica dei lettori con procedimenti che disturbano le forme abituali e automatiche della loro percezione. Ma certi procedimenti finiscono per essere assimilati e diventare comuni, così il formalismo approda ad una storia della letterarietà come rinnovarsi dello straniamento attraverso il ridistribuirsi dei procedimenti letterari.

Tratto da TEORIA DELLA LETTERATURA di Gherardo Fabretti
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