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Africa: oro e schiavi

I portoghesi cominciarono a fondare le loro stazioni commerciali lungo la costa africana per agevolare la via diretta verso l’India; a partire dal 1500 anche altre potenze europee cominciano a stabilire alcuni insediamenti lungo le coste del continente nero. Ma al di la dell’India, cosa spinge le potenze europee ad impegnarsi in terre così lontane e pericolose? 
La risposta è l’oro. Da alcuni secoli ormai la maggior parte dell’oro arrivava in Europa attraverso i mercanti dei paesi nordafricani, i quali lo importavano dal Sudan attraverso le vie carovaniere transahariane. Gli insediamenti lungo le coste dell’Africa consentirono agli europei di aggirare gli arabi ed importare l’oro direttamente alla fonte. Per tutto il quattrocento e per alcuni decenni del cinquecento (quando il mercato sarà inondato dalla produzione americana), l’oro della Guinea, della Costa d’Oro (oggi Ghana) e del Mozambico, costituirà la ricchezza delle grandi compagnie commerciali europee, e continuerà ad esserlo anche nei secoli successivi, affiancandosi al sempre più redditizio mercato degli schiavi. 
Sulla deportazione di schiavi dall’Africa nera c’è molto da dire; per prima cose esistevano due tratte degli schivi: la prima agiva dalla costa occidentale alle Americhe, la seconda dalla costa orientale verso l’India e il mondo arabo.

Per quanto riguarda la tratta dell’Atlantico essa cominciò a svilupparsi nel cinquecento e già nel seicento il suo valore come commercio aveva superato quello del commercio dell’oro. Nel settecento la deportazione di schiavi nelle Americhe raggiunse il culmine e intere popolazioni stanziate lungo le coste occidentali (sopratutto dell’Africa equatoriale) vennero deportate in massa. Le navi salpavano dalle coste occidentali dell’Africa cariche di schiavi; arrivate nelle Americhe li vendevano imbarcando al loro posto le materie prime prodotte dalle colonie; quindi si dirigevano verso i porti europei dove scambiavano i prodotti coloniali con tessuti e armi prodotti in Europa; barattavano infine questi prodotti con le tribù africane della costa, che fornivano loro in cambio gli schiavi provenienti dall’interno. Era il cosiddetto commercio triangolare che assicuro profitti più che cospicui alle compagnie commerciali europee e anche agli stessi africani impegnati nel rifornire gli europei di schiavi neri catturati nelle zone più remote dell’interno.

Solo a partire dall’inizio dell’ottocento le colonie americane cominciarono a divenire più indipendenti (nel senso che il numero di chiavi si automanteneva e non c’era più spazio per nuove piantagioni), determinando così una contrazione della domanda. Inoltre in questo periodo gli stati europei cominciarono progressivamente a dichiarare criminale la tratta negriera e ad impegnarsi attivamente a reprimerla a partire dalla metà del secolo. Con alcuni strascichi fino agli anni ottanta dell’ottocento il commercio degli schiavi si esaurirà pressoché del tutto con la fine del secolo.

Ma quali furono i numeri? È difficile dirlo e spesso gli storici africani tendono a sovrastimare il fenomeno quanto quelli anglosassoni a sminuirlo; tuttavia secondo stime:
- fra 1450 e 1600 vennero deportati 400 mila africani
- fra 1600 e 1700 il numero sfiora i 2 milioni
- fra 1700 e 1800 supera i 6 milioni
- fra 1800 e 1900 si riduce 3,3 milioni.
- a questi numeri vanno aggiunti anche gli sciavi deportati dalla costa orientale: circa 1,2 milioni secondo le stime.

La tratta lungo la costa orientale era un fenomeno molto antico, risalente al IX secolo (ma abbiamo notizia di esso anche presso mercanti dell’antica Grecia!); tradizionalmente veniva praticato da mercanti egiziani e mediorientali. Gli schiavi venivano generalmente inviati in Egitto o verso l’Impero ottomano, in certi periodi anche verso le piantagioni portoghesi di Goa, in India. A parte nel corso del 18° secolo il fenomeno rimase tuttavia abbastanza limitato e si esaurì (o perlomeno divenne clandestino) introno alla metà dell’ottocento, quando l’intera Africa orientale cominciò a divenire possedimento diretto delle potenze europee. 

In conclusione possiamo dire che, geograficamente, il fenomeno schiavistico interessò solo le aree raggiungibili dalla costa occidentale  e, sia pure in  misura minore, da quella orientale; alcune zone però, come gran parte dell’Africa meridionale (che erano sottopopolate quando vi arrivarono gli europei), non venne mai coinvolto nella tratta degli sciavi, se non come luogo di destinazione. Circa 13 (e forse anche più) milioni di africani vennero trasportati in America come schiavi. Molti morirono durante il viaggio, molti altri di fatiche e stenti durante il duro lavoro nelle piantagioni. Quelli che sopravissero e i loro figli, sono da considerarsi fra i principali colonizzatori dell’America latina e degli Stati Uniti. 

Altro discorso importante è quanto la tratta degli schiavi abbia ridotto la popolazione africana di allora e quanto ciò abbia pesato sullo sviluppo del continente, anche alla luce della suo cronico sottopopolalamento. Se come sembra probabile la tratta negriera non ne ha inficiato le potenzialità demografiche nel lungo periodo, è però vero che, almeno per quanto riguarda il 18° e il 19° secolo, il continuo prelievo di schiavi da alcune zone dell’Africa centrale, deve aver prodotto delle carenze di forza lavoro tali da rallentarne il possibile sviluppo. Rimandiamo comunque al libro per l’approfondimento di questo aspetto, peraltro di difficile trattazione per la mancanza di dati attendibili e per la difficoltà di ricostruire i possibili tassi di sviluppo demografico dell’Africa di allora.

Già nella premessa abbiamo avuto modo di citare come la presenza europea fino alla seconda metà dell’ottocento, fosse rimasta molto limitata e circoscritta alla coste. Abbiamo detto che le popolazioni non costiere (e quindi la stragrande maggioranza degli abitanti dell’Africa nera), non subirono in maniera apprezzabile l’influenza degli europei e se non fosse stato per la tratta degli schiavi (peraltro portata avanti dalle stesse popolazioni africane impegnate nella vendita di schiavi agli europei), la presenza dei bianchi lungo le coste non avrebbe prodotto nessun mutamento nelle secolari strutture economiche e sociali delle popolazioni dell’interno.

Se un evoluzione anche presso le popolazioni dell’interno vi è stata, in seguito all’arrivo degli europei, essa è stata trasmessa loro dalle popolazioni africane stanziate lungo le coste, le sole che avessero potuto apprendere qualcosa dagli europei. Vale quindi la pena di soffermarsi sul rapporto fra queste popolazioni “costiere” e gli europei che con esse interagivano, vuoi per il commercio dell’oro, vuoi per quello degli schiavi.
Secondo il nostro eminente libro, il rapporto fra europei ed africani fu di sostanziale parità e rispetto reciproco dall’antichità fino al seicento-settecento; tanto che sarebbe più coretto parlare di una società costiera africana che includeva in se anche gli europei che vivevano presso di essa, piuttosto che di poche centinaia di europei stanziati affianco ai villaggi delle popolazioni africane lungo la costa. Ovvero non di due comunità distinte che dialogano reciprocamente, ma di una sola comunità, composta per la quasi totalità da neri, ma nella quale vivono e trovano un loro posto e ruolo, anche i pochi bianchi arrivati dall’Europa. In una comunità di questo tipo ognuno impara dall’altro, gli africani apprendono la tecnologia europea e gli europei i riti e la cultura africane, o, perlomeno, ne subiscono l’influenza. A sostegno di questa tesi anche la considerazione che fra cinquecento al seicento, il modo di vivere di un contadino europeo e di uno nero africano, non erano ancora incolmabili, nel senso che erano entrambi assolutamente analfabeti e vivevano in grande povertà. Invero le abitazioni africane venivano chiamate case dagli europei fino al 17° secolo circa, dopo saranno viste dispregiante solo come capanne. 
La notevole evoluzione sociale, economica e culturale che caratterizzò l’Europa del settecento e più ancora dell’ottocento, unita alla visione misera e priva di dignità che ispiravano gli africani deportati come schiavi nelle stive delle negriere agli occhi degli spettatori europei, contribuirono a produrre l’idea di un salto di civiltà fra i due continenti. Il nero non fu più visto come un uomo diverso, infedele, arretrato tecnologicamente, ma comunque uomo al pari del bianco, ma come l’esponente selvaggio e rozzo, lo schiavo sporco, di una subcultura umana arretrata e spregevole. Questa fu effettivamente la visione che s’impadronì del discernimento europeo fra settecento, ottocento ed inizio novecento.
Quindi in definitiva è facile supporre che almeno fino al settecento fra i due gruppi che abitavano le coste del continente nero vi sia stato un certo interscambio culturale reciproco, mentre nei secoli successivi, tale interscambio sia progressivamente diventato a senso unico, per tradursi, a partire dalla seconda metà dell’ottocento, in una imposizione forzata agli africani della cultura, della religione, della lingua.. in pratica dei modelli europei. Sull’entità dell’interscambio fra cinquecento e ottocento è difficile esprimersi: gli europei erano molto pochi e mancano fonti precise; tuttavia possiamo ritenere che se anche esso fu limitato nella maggior parte dei casi, almeno in due zone esso assunse proporzioni significative: in sud Africa con i boeri e nella zona del golfo di Guinea, dove più numerosa era la presenza europea per via del commercio dell’oro e degli schiavi.

Tratto da AFRICA: LA STORIA RITROVATA di Lorenzo Possamai
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