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La politica come settore essenziale dela vita romana


Soldato e contribuente, il cittadino romano non è un soggetto passivo e obbediente a coloro che lo governano; egli è anche membro di una comunità, il populus romanus, dotato di sommo grado di autonomia e di iniziativa. Il cittadino romano è provvisto di una volontà e un’opinione che può esprimere sugli affari comuni. Di qui la necessità elementare di riunire i cittadini in un’assemblea, che è una realtà concreta e prosaica: la riunione in uno spazio preciso di tutti gli aventi diritto. Roma in realtà aveva più di un’assemblea, composte, di principio e di fatto, dagli stessi cittadini, convocati e ripartiti in modo differente a seconda della natura e dello scopo di tali assemblee. Ciò che caratterizza le assemblee romane è il fatto che esse risultano non dalla riunione di un numero indefinito di individui ma di un numero limitato e preciso di unità di raggruppamento in seno alle quali ogni individuo dà il suo parere ma la cui unica decisione registrata sarà quella collettiva. I poveri, infinitamente più numerosi dei ricchi e toccati molto poco dalla mobilitazione e dall’imposta diretta, sono praticamente privi di influenza poiché la maggioranza che si calcola è quella delle tribù o delle centurie, non quella degli individui. Le assemblee romane hanno una competenza generale che abbraccia tutti gli aspetti della vita collettiva ma che si esercita essenzialmente in due settori: ricompense e punizioni (concessione di cariche pubbliche, elezione dei magistrati e giudizi criminali) e l’elaborazione di regole e decisioni (ovvero leggi e plebisciti), norme e decisioni che possono ricoprire quasi tutte le materie: diritto pubblico, privato, diplomazia, guerra, pace ecc. In linea di massima nulla regola la competenza e la sovranità del popolo. Le assemblee romane non si riuniscono mai di pieno diritto e a scadenze fisse, ma su un ordine del giorno e su una convocazione che può essere fatta solo da un magistrato giuridicamente competente di quell’ordine del giorno; il popolo non è in grado di riunirsi autonomamente: dipende agli dei, dalla tradizione, dalla consuetudine. Il popolo non può nemmeno esprimersi da se liberamente. Il semplice cittadino a Roma, non sceglie la questione per cui lo si interpella e non delibera. Quale che sia l’assemblea -elettorale, legislativa o giudiziaria - il popolo nei suoi comizi e il cittadino non fanno che risponder in modo binario (si o no) a una domanda che viene loro posta. Ciò vale anche per le elezioni. Così il singolo cittadino non è solo privo del diritto di iniziativa ma anche del diritto di partecipazione a un dibattito, del diritto di interrogare di discutere e di emendare una risposta.

In latino non c’è nessun termine che designi l’uomo politico, se non quella stessa parola che designa il cittadino, civis; l’uomo politico ideale è il bonus o l’optimus civis. Roma è una città censitaria dove non tutti potevano essere ammessi alle cariche pubbliche; la politica, intesa come l’accesso alle magistrature, non è solo una carriera, ma è anche generatrice di status, determina cioè non solo l’influenza e il potere ma anche la dignità, le precedenze giuridiche ufficiali, il quadro giuridico delle condizioni sociali. Modella e organizza una gran parte della vita sociale. Lo status di senatore non comporta solo il monopolio della deliberazione e delle cariche politiche: esso comprende anche delle insigne esteriori, dei previlegi id precedenza, ma allo stesso modo vantaggi particolari nel diritto privato o criminale. In quanto determinatrice di status la politica tende a dominare il sociale. Buon soldato, buon ufficiale, buon generale, il politico romano è anche quell’uomo dal giudizio illuminato, circondato da consulenti, da clienti che per effetto del suo sapere, del suo buonsenso e moralità esprime ancili diritto, illumina il pretore, contribuisce così alla salvezza della patria, rendendo se possibile ad ognuno ciò che gli spetta.


Tratto da L'UOMO NELLA SOCIETÀ ROMANA di Alessia Muliere
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