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“Utopisti”, realisti e il primo “grande dibattito”

“Utopisti”, realisti e il primo “grande dibattito” 

Fino alla seconda metà del ‘700 non esistono sistematiche prese di posizione dal punto di vista teorico. 
Nella seconda metà del ‘700, invece, le cose cambiano, grazie ai cosiddetti philosophes = degli intellettuali progressisti, figli dell’Illuminismo, che cominciano a contestare i punti principali della politica di potenza della tradizione realista, argomentando che esiste 
− una vera politica = la politica economica, e soprattutto il libero commercio. È questa la “vera” politica perché tutti guadagnano qualcosa in una pacifica attività commerciale ⇒ essendo più ricchi, non ci si fa più la guerra. 
− una falsa politica = la politica di potenza. Essa viene ritenuta “falsa” perché è stata condotta e giustificata sulla base degli interessi non dei popoli, ma di interessi dinastici particolari ⇒ questa falsa politica porta ad atti di aggressione, di instabilità, di guerra e di violenza. 

Nella pratica, la “vera” politica non viene seguita perché gli Stati sono in mano a governi autocratici, a monarchi che considerano la Stato una loro proprietà. Se tutto questo cambiasse, cambierebbe anche la conduzione degli affari internazionali. 
A questo punto, possiamo collegarci al saggio Per la pace perpetua del 1795 di Kant, nel quale egli propone una teoria normativa su quello che si dovrebbe fare per porre fine alla guerra tra gli Stati. Kant delinea 3 condizioni: 
1. la costituzione di ogni stato deve essere repubblicana = un governo retto da leggi ⇒ persino il re è sottoposto al vincolo delle leggi. Inoltre, un governo di questo tipo ha una qualche forma di opinione pubblica che, per quanto vincolata, condiziona comunque in qualche modo le decisioni del governo ⇒ essendo le guerre lo “sport dei re”, la presenza dell’opinione pubblica rende più difficile il ricorso alla forza. 

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Diversamente da tutta la tradizione realista, indifferente alla politica domestica di un paese, i liberali danno invece notevole importanza alla forma di governo, arrivando anche a stabilire quale sia meglio. 
2. il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati [il foedus pacificus]: per Kant sarebbe auspicabile che, proprio come i selvaggi hanno rinunciato alla loro libertà, sottoponendosi al potere civile, gli Stati facessero altrettanto. MA, essendo questo pressoché impossibile, come “surrogato negativo”, come seconda soluzione, Kant dice di accontentarsi che venga costituita questa Confederazione di repubbliche = gli Stati rinunciano volontariamente all’uso della forza nei loro rapporti. 

3. il diritto cosmopolita dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità ⇒ si parla di una regola minima di diritto internazionale = il “diritto di visita/ospitalità” = diritto di ogni uomo di essere trattato similmente se si comporta in modo pacifico ⇒ ogni uomo può essere libero di spostarsi in altri paesi senza essere trattato in modo ostile, a patto che si comporti in modo pacifico. Questa libera circolazione degli individui è importante, perché è precondizione per il libero commercio ⇒ le 3 condizioni non basterebbero a garantire la pace se non ci fosse questa prospettiva di un tornaconto, di un reciproco guadagno, che si ottiene fondamentalmente dalle interazioni commerciali (lo spirito commerciale non può accordarsi con la guerra, indice della ripresa da parte di Kant delle idee dei philosophes). 

Da queste formule, i filosofi della politica hanno discusso in modo molto raffinato e spesso incomprensibile. Possiamo però limitarci a dire che da queste idee derivano 3 versioni di liberalismo: 
1. dal primo articolo di Kant nasce il cosiddetto LIBERALISMO REPUBBLICANO, all’interno del quale si distingue soprattutto la famosa teoria della pace democratica di M. Doyle, che appunto riprende Kant ⇒ questo filone di liberalismo insiste soprattutto sull’aspetto interno degli Stati, sul ruolo dell’opinione pubblica, sul ruolo degli individui e sul ruolo delle idee liberali. 
2. dal foedus pacificus per alcuni deriva il cosiddetto LIBERALISMO ORGANIZZATIVO, che ripone la propria fiducia sulle istituzioni internazionali, in una sorta di “ingegneria istituzionale” che permette agli Stati di risolvere parte dei loro problemi. A questo filone appartiene ad esempio la teoria dei regimi di R. Keohane. Per tutto l’800, questo è sicuramente il filone meno sviluppato; si comincia a parlare di “organizzazioni internazionali” soprattutto agli inizi del XX secolo e soprattutto con la fine della Prima guerra mondiale. 
3. dal nesso tra il diritto di ospitalità e il libero commercio, nel quale tutti guadagnano qualcosa, nasce il cosiddetto LIBERALISMO COMMERCIALE, ossia di tutte quelle teorie dette teorie dell’interdipendenza, che insistono proprio sui rapporti economici, troppo preziosi da essere rotti. 

Tra i primi liberali (fine ‘700 – prima metà dell’800), sono sicuramente da ricordare le figure di: 
− J. Bentham: il suo nome viene spesso associato al concetto di utilitarismo. Bentham infatti riprende la “classica” questione: come si riconosce ciò che è buono da ciò che non lo è? 
Secondo gli Illuministi, il criterio discriminante era la ragione. Questa, tuttavia, era una dottrina aristocratica, per pochi intellettuali. 
Bentham, invece, propone un criterio razionale molto più semplice: è buona ogni azione che produca il maggiore bene possibile per la maggior parte possibile degli individui. 
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C’è innanzitutto un’idea di progresso della razza umana, non solo morale ma anche materiale; c’è poi l’importante ruolo affidato all’istruzione, grazie alla quale gli esseri umani possono essere migliorati: essa infatti deve far capire agli uomini che il loro interesse può essere ritrovato nell’interesse generale (→ teoria dell’armonia degli interessi). 
Per mantenere l’ordine, Bentham è molto scettico sul ruolo di un’eventuale organizzazione sovrastatale e propone invece un Tribunale internazionale, privo però di alcun potere coattivo, perché, se gli uomini sono razionali, non dovrebbe essere neppure necessario applicare il verdetto di questo tribunale, dal momento che la condanna dell’Opinione pubblica internazionale è, secondo Bentham, una punizione sufficiente. 
− J. Stuart Mill: anche egli sottolinea il ruolo dell’opinione pubblica e il ruolo delle istituzioni liberali a livello interno. Anche Mill, come Bentham, parla di un Tribunale internazionale, con una funzione perlopiù morale e, infine, dà ampio spazio all’importanza dell’istruzione, nell’abituare gli uomini ad usare la ragione. 
− R. Cobden: questo è l’autore legato più di tutti all’esame del ruolo del commercio internazionale. Secondo Cobden, oltre al vantaggio economico, il commercio induce ad atteggiamenti di tipo pacifico. Questa è una verità eterna: maggiore è il livello degli scambi commerciali tra nazioni, minore è il pericolo di guerra. 
L’idea di interdipendenza parte proprio da questo punto: laddove gli Stati sono integrati sul piano commerciale, essi guadagnano molto dagli scambi ⇒ una guerra sarebbe troppo costosa, perché andrebbe a rompere questa rete di mutui vantaggi. 
Cobden è famoso anche per il suo feroce attacco contro il principio dell’equilibrio di potenza, una chimera, una scusa per fare la guerra, un concetto che guarda solo al lato militare e non a quello civile e, in particolare, commerciale dei rapporti tra gli Stati. 

Tutte queste idee vengono riprese con pieno vigore all’inizio del XX secolo. 
Nel famoso saggio The Twenty Years’ Crisis, 1919-1939, E. H. Carr (storico esperto soprattutto della Rivoluzione bolscevica) sostiene che nessuna comunità politica, nazionale o internazionale, potrebbe esistere se le popolazioni non si sottomettessero a determinate regole di comportamento. La domanda relativa al perché gli individui si sottomettano a tali regole costituisce il problema fondamentale della filosofia politica. 
Parlando in generale, le risposte date a questo interrogativo si dividono in 2 categorie, corrispondenti alle tesi diametralmente opposte di 
− coloro che considerano la politica una funzione dell’etica: essi ritengono sia dovere dell’individuo sottomettersi per il bene della comunità nel suo insieme, sacrificando il proprio interesse a quello degli altri che sono in maggior numero, o per altro modo più meritevoli 

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Il “bene” costituito dall’interesse personale dovrebbe essere subordinato al “bene” costituito dalla fedeltà e dall’abnegazione nel nome di un fine più elevato dell’interesse individuale. 
e di 
− coloro che considerano l’etica una funzione della politica: essi ritengono che chi governa lo fa perché è più forte, mentre coloro che sono governati si sottomettono perché sono più deboli. 

Secondo Carr, entrambe queste risposte si prestano ad alcune obiezioni: da un lato, l’uomo moderno è riluttante a credere che ragione e dovere siano talvolta in contrasto; d’altra parte, uomini di ogni epoca non sono riusciti ad appagarsi dell’ipotesi che la base razionale del dovere sia puramente il diritto del più forte. 
Uno dei punti di forza del pensiero utopista del XVIII e XIX secolo fu il suo evidente successo nell’affrontare entrambe queste obiezioni allo stesso tempo ⇒ l’utopista, prendendo le mosse dal primato dell’etica, crede necessariamente in un concetto di dovere che sia etico nella sostanza e indipendente dal diritto del più forte. Inoltre è riuscito a convincersi che il dovere dell’individuo di sottomettersi alle regole stabilite nell’interesse della comunità possa essere giustificato in nome della ragione, e che il bene maggiore per il maggior numero sia un fine razionale anche per coloro che non fanno parte della maggioranza. 
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Nel perseguire il proprio interesse, l’individuo consegue quello della comunità, e promuovendo l’interesse comune promuove anche il proprio. 
In ciò consiste la famosa teoria dell’armonia degli interessi, ed essa è il corollario necessario del postulato che le leggi morali possono essere fondate ragionando correttamente ⇒ ammettere che vi possa essere una divergenza di interessi sarebbe fatale per tale postulato; ogni evidente contrasto di interessi deve quindi essere spiegato come se fosse il risultato di un errore di calcolo. 
La scuola di economia politica creata da Adam Smith sul principio del laissez-faire è stata la principale responsabile della diffusione della teoria dell’armonia degli interessi. L’obiettivo di questa scuola consisteva nel promuovere la rimozione dei controlli statali dalla gestione dell’economia ⇒ gli esponenti di questa linea di pensiero si sforzarono di dimostrare che si poteva fare affidamento sugli individui per promuovere gli interessi della comunità, facendo a meno di controlli esterni, per la semplice ragione che i loro interessi coincidevano con quelli comuni. 
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L’armonia degli interessi fornisce una solida base razionale alla moralità, perché l’amore per il prossimo si trasforma in una versione illuminata dell’amore per se stessi. 
Tuttavia, secondo Carr, l’ipotesi che esista una generale e fondamentale armonia degli interessi è prima facie una paradosso, perché, non appena il capitalismo industriale e il sistema di classe divennero la struttura della società, la teoria dell’armonia degli interessi acquistò un nuovo significato e si trasformò nell’ideologia di un gruppo dominante il quale, essendo interessato al mantenimento del proprio predominio, affermava l’esistenza di un’identità fra i propri interessi e quelli della collettività nel suo insieme. 
Successivamente, si ritenne che ciò che era vero per gli individui lo fosse anche per gli Stati. Esattamente come gli individui, perseguendo il proprio bene, conseguono inconsapevolmente il bene della collettività, così gli Stati, facendo il proprio utile, giovano all’umanità intera ⇒ il mercato libero universale venne giustificato sostenendo che il massimo interesse economico di ciascuno Stato si identificava con il massimo interesse economico del mondo intero. 
La medesima condizione di espansione apparentemente infinita che aveva incoraggiato a credere nell’armonia degli interessi economici rese possibile credere nell’armonia politica di movimenti nazionali rivali. La maggior parte degli scrittori liberali continuò a credere, fino al 1918, che le nazioni, sviluppando il proprio nazionalismo, promuovessero la causa dell’internazionalismo. Wilson e molti altri fautori dei trattati di pace videro nel concetto di autodeterminazione la chiave di volta della pace mondiale. 
La guerra in Europa costrinse Woodrow Wilson a fare delle relazioni internazionali il suo principale argomento di pensiero e discussione, sviluppando soprattutto l’anima politica del liberalismo. 
Di fronte alla guerra sottomarina che i tedeschi stanno conducendo nel 1917, Wilson si esprime, definendola una guerra contro l’umanità… Non c’è alcuna discriminazione. La sfida è a tutta l’umanità. 
L’elemento principale che più caratterizza tutto il suo pensiero è la sua insistenza sulla necessità di una condotta morale sia nella vita pubblica che in quella privata. Il nome di Wilson, infatti, divenne il simbolo di un atteggiamento idealistico nei confronti degli affari esteri. Per lui, il dovere personale e nazionale di agire secondo giustizia andava oltre il dovere di osservare gli obblighi legali ⇒ l’America, un paese cosmopolita dal punto di vista della popolazione e relativamente libero dalle interferenze politiche europee, aveva secondo Wilson una grande occasione per porsi come esempio di un comportamento onorabile e pacifico nei confronti delle altre nazioni. 
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Gli USA sono la nazione mediatrice del mondo: siamo composti dalle nazioni del mondo; mediamo il loro sangue, le loro tradizioni, i loro sentimenti, le loro passioni… Noi siamo dunque in grado di capire tutte le nazioni, nel loro complesso. 
Gli USA entrano in guerra per rivendicare i diritti, i diritti umani, di cui siamo gli unici campioni. 
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Esistono dei diritti universali, ai quali tutti dovremmo piegarci: Giustizia, Libertà, Diritto. 
Wilson era anche consapevole che una politica pacifica non era sempre fattibile; non sempre la pace rientrava tra le scelte di una nazione ⇒ la guerra poteva essere uno strumento necessario della politica e una delle giustificazioni del suo utilizzo era la difesa dell’onore e dell’indipendenza di una nazione, senza i quali la nazione non potrebbe svolgere il proprio ruolo nel mondo: il primo fondamentale obbligo è il mantenimento dell’integrità della nostra sovranità. C’è poi anche il mantenimento della nostra libertà di sviluppare le nostre istituzioni politiche senza alcun impedimento; e infine c’è la determinazione e l’obbligo ad essere il fratello più forte a sostegno di tutti coloro in questo emisfero che perseguono gli stessi ideali di libertà. 
C’è solo una scelta che noi non possiamo fare, che non siamo in grado di fare: non sceglieremo la via della sottomissione e sopportare che i più sacri diritti della nostra nazione e del nostro popolo vengano ignorati o violati… Il diritto è più prezioso della pace, e dovremo combattere per tutte quelle cose che più ci stanno a cuore: per la democrazia, per il diritto di coloro che si sono sottomessi ad un’autorità di avere voce nel loro governo, per i diritti e le libertà delle piccole nazioni, per un dominio universale del diritto… 
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Secondo Wilson, un assetto stabile del mondo doveva basarsi sulla maggiore soddisfazione possibile di tutte le parti, e non sull’ambizione di una sola parte. Il suo timore principale, di fronte alla conclusione della guerra, era che gli Alleati avessero imposto una pace punitiva, e dunque instabile: i trattati e gli accordi che concluderanno questa guerra devono contenere i termini che creeranno la pace, termini che saranno in grado di mantenere e garantire la pace, termini che dovranno avere l’approvazione di tutta l’umanità, e non termini che rispecchieranno solamente gli interessi e gli obiettivi di pochi… Solo un’Europa tranquilla può essere un’Europa stabile. Dovrà esserci non un equilibrio di potenza, ma una comunione di potenza; non rivalità organizzate, ma una pace comune organizzata… Dovrà esserci una pace senza vittoria. 
Non dovranno esserci annessioni, né contributi, né danni punitivi… Le aspirazioni nazionali dovranno essere rispettate; i popoli dovranno essere governati e dominati solo con il loro consenso. “Autodeterminazione” non è una semplice frase. È un principio imperativo di azione. 
Ancora prima che l’America entrasse del primo conflitto mondiale, Wilson aveva già espresso il suo desiderio che le nazioni partecipassero in uno sforzo organizzato per preservare la pace. Il progresso della guerra lo convinse del fatto che il mondo aveva ormai raggiunto uno sviluppo politico e tecnologico tale per cui era possibile e necessario costruire una lega delle nazioni, che avrebbe abolito il vecchio sistema delle alleanze e, attraverso una nuova diplomazia, unito le nazioni del mondo contro un’aggressione: le nazioni del mondo sono diventate l’una il vicino dell’altra. È nel loro interesse che esse cerchino di capirsi a vicenda. E per fare ciò, è imperativo che esse si accordino nel cooperare per una causa comune, il cui principio guida sia una giustizia imparziale. 
Solo le democrazie, secondo Wilson, avrebbero potuto costruire con successo una simile istituzione, perché si sarebbe così basata fortemente sulla loro capacità di portare certi problemi agli occhi dell’Opinione pubblica mondiale: nessun governo autocratico può essere ritenuto affidabile. Dovrà essere una lega dell’onore, una parternariato di opinioni. 
L’analisi che Wilson fa delle cause della guerra va a toccare temi quali il reciproco sospetto, di alleanze, di intrighi, di spionaggio, ma non parla MAI di interessi e potere. 
Tuttavia, quando nel 1876 si celebrò il centenario di La ricchezza delle nazioni, erano già presenti i sintomi di un incipiente tracollo della teoria dell’armonia degli interessi. Nessun paese, a parte la Gran Bretagna, era stato tanto potente, dal punto di vista commerciale, da poter credere nell’armonia internazionale degli interessi economici. Anzi, verso il 1840, Friedrich List cominciò a predicare al pubblico tedesco una dottrina secondo la quale, mentre il libero commercio era la politica congeniale a una potenza industriale dominante come la Gran Bretagna, soltanto il protezionismo avrebbe potuto permettere a Stati più deboli di sottrarsi alla stretta britannica ⇒ ben presto l’industria americana e quella tedesca, costruite all’ombra di tariffe protezioniste, cominciarono a erodere il monopolio industriale mondiale della Gran Bretagna. 
Il nazionalismo cominciò a mostrare il suo aspetto sinistro e a degenerare nell’imperialismo. Sotto le tensioni crescenti nella seconda metà del XIX secolo, alcuni ritennero che la competizione nella sfera economica implicasse esattamente ciò che Darwin aveva proclamato essere la legge di natura dal punto di vista biologico: la sopravvivenza del più forte a spese del più debole ⇒ il bene della collettività si identificava ancora con il bene dei suoi singoli membri, ma solo di quelli che prendevano parte attiva alla lotta per la sopravvivenza. 
La teoria del progresso conseguito attraverso l’eliminazione delle nazioni non adatte a esistere sembrò il degno corollario alla teoria del progresso ottenuto attraverso l’eliminazione degli individui non adatti a sopravvivere. 
Secondo Carr, però, un aspetto dell’argomento era stato trascurato: nel lungo periodo il bene della collettività e il bene degli individui coincidevano ancora; però questa armonia finale veniva preceduta da una lotta per la sopravvivenza in cui non solo il bene ma persino l’esistenza stessa dei vinti non erano affatto presi in considerazione ⇒ la moralità, a queste condizioni, non presentava alcuna attrattiva razionale per i potenziali vinti e l’intero sistema etico finiva con l’essere costruito sul sacrificio del fratello più debole. 
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Dopo il 1919, in Europa, l’economia pianificata, fondata sull’assunzione che non esista alcuna armonia naturale degli interessi e che essi debbano essere armonizzati in modo artificiale dall’azione dello Stato, divenne la prassi, se non la teoria, in quasi tutti gli Stati. 
Dal punto di vista politico, la teoria dell’identità degli interessi ha comunemente preso la forma del presupposto che ogni Stato condivida l’interesse a mantenere la pace e che, di conseguenza, ogni Stato che desideri sovvertire la pace è al tempo stesso irrazionale e immorale. 
Dopo il 1918 fu facile convincere coloro che vivevano nei paesi anglosassoni che la guerra non portava giovamento a nessuno. MA lo stesso argomento non risultò particolarmente convincente per i tedeschi, che avevano ottenuto grandi vantaggi dalle guerre del 1866 e del 1870 e attribuivano le loro sofferenze recenti non alla guerra del 1914, bensì al fatto di averla persa. Tuttavia questi popoli avevano poca influenza sulla formazione delle teorie contemporanee delle IR, che venivano formulate quasi esclusivamente nei paesi di lingua inglese ⇒ gli scrittori britannici e americani continuavano ad assumere che l’inutilità della guerra era stata irrefutabilmente dimostrata dall’esperienza del 1914-18. 
Questa idea dell’inutilità della guerra era già stata formulata nel 1908 da N. Angell (che si concentra sugli aspetti più economici del liberalismo), nell’opera The Great Illusion. 
Angell sottolinea come nel mondo contemporaneo ci fosse un’interdipendenza tale che una qualunque interferenza avrebbe influenzato non solo le parti direttamente coinvolte, ma tutta una serie di membri che, a prima vista, non hanno alcuna connessione immediata. 
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La “grande illusione” consiste nel credere che i fattori che costituiscono la prosperità di un paese siano unicamente correlati con il potere militare. Invece, secondo Angell, bisogna accettare il fatto che essi vanno dalla ricchezza naturale di un paese, al suo carattere industriale, alla disciplina sociale, ad un processo di anni, secoli, generazioni di trasformazioni, dal punto di vista commerciale e finanziario. 
È chiaro che esiste anche la possibilità che uno stato si doti di uno straordinario apparato militare, senza lo scopo di conquista di un territorio o di distruzione del commercio di un nemico, ma per “proteggere” o, indirettamente aiutare, il proprio commercio e le proprie industrie ⇒ Angell ammette la possibilità della guerra difensiva, ancora giustificabile, ma, di fronte ad un’aggressione sarebbe comunque meglio ricorrere ad una qualche forma di arbitrato in un sistema collettivo a livello internazionale. 
La storia del commercio dei piccoli Stati mostra come il prestigio politico dei grandi Stati in realtà non garantisca loro alcun vantaggio commerciale. 
Acquisire proprietà con la forza è ormai il modo meno proficuo per garantirsi un certo profitto; anzi, secondo Angell, la potenza e l’importanza del commercio ha reso ormai impossibili simili avventure. Si immagini ad esempio una Germania, leader assoluto in Europa. Come si comporterebbe con le altre nazioni europee? Le impoverirebbe? Secondo Angell questo sarebbe puro suicidio, perché non ci sarebbero mercati per soddisfare la sua produzione. Se, viceversa, la Germania prendesse misure tali da trasformare i suoi rivali in competitori commerciali, non dovrebbe sobbarcarsi tutti quegli enormi costi che la guerra implicherebbe in modo inevitabile ⇒ la guerra tra grandi potenze industriali è ormai futile, perché in vincitore non può permettersi di saccheggiare il vinto. Questo è il paradosso, la futilità della conquista – la grande illusione che la storia dell’impero inglese ha così bene illustrato. 
Si combattono ancora guerre perché ci sono forti elementi di irrazionalità tra le opinioni pubbliche, resi ancora più gravi dall’uso esasperato di simboli nazionalisti. 
MA, come Lenin ebbe modo di osservare, la pace in sé è un obiettivo privo di senso: l’interesse comune a mantenere la pace, infatti, maschera il fatto che alcuni Stati desiderano mantenere lo status quo senza dover combattere per esso, mentre altri vorrebbero cambiarlo senza dover combattere per realizzare questo fine. 
Ogni conflitto internazionale diviene così inutile e illusorio. È solo necessario individuare il bene comune, che corrisponde al massimo beneficio per tutti i contendenti; il solo ostacolo a quella scoperta è la stupidità degli uomini politici ⇒ gli utopisti, certi di aver compreso che cosa costituisca il bene comune, arrogano a se stessi il monopolio della saggezza. Quasi tutte le dichiarazioni finali delle conferenze economiche internazionali tenute nel periodo tra le 2 guerre mondiali erano viziate dal presupposto che esistesse una “soluzione”, un “piano” che, equilibrando in modo ragionevole gli interessi particolari, sarebbe stato favorevole a tutti in ugual misura e non avrebbe arrecato danno a nessuno. 
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Secondo Carr, dobbiamo rifiutare, in quanto inadeguato e fuorviante, il tentativo di fondare la moralità internazionale su una presunta armonia di interessi che identifica l’interesse dell’intera comunità degli Stati con quello di ciascuno di essi. 
La transizione dall’armonia apparente al conflitto evidente degli interessi può essere collocata a cavallo tra i 2 secoli; essa trovò la sua prima espressione nelle politiche coloniali. 
La Prima guerra mondiale, che fu conseguenza di queste tensioni crescenti, le rese ancora più gravi, intensificandone le cause fondamentali. Una delle ragioni del carattere vendicativo, senza precedenti, dei trattati di pace, e in particolare delle loro clausole economiche, fu che gli uomini dotati di senso pratico non credevano più che esistesse una sottesa armonia di interessi tra vincitori e vinti: l’obiettivo era quello di eliminare il rivale, il cui recuperato benessere economico avrebbe potuto minacciare il loro stesso benessere. 
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Il presupposto fondamentale dell’utopismo era andato in frantumi. 
Il realismo entra nella teoria politica al seguito dell’utopismo e come una sorta di reazione ad esso. 
La conquista più importante del realismo moderno consiste nell’aver rivelato non solo gli aspetti deterministi del processo storico, ma anche il carattere relativo e pragmatico del pensiero stesso. 
Il realismo è stato così messo in condizioni di dimostrare che le teorie intellettuali e i modelli etici degli utopisti, lungi dall’essere espressione di principi assoluti e aprioristici, sono storicamente determinati, poiché sono sia il prodotto di circostanze e interessi, sia strumenti messi a punto per l’avanzamento di quegli stessi interessi. 
Bertrand Russell ha osservato che le nozioni etiche sono molto raramente la causa, ma quasi sempre un effetto, un mezzo per rivendicare alle nostre preferenze l’autorità di leggi universali, e non, come ci fa comodo immaginare, il fondamento reale di tali preferenze. 
Questo è di gran lunga l’attacco più formidabile che il pensiero utopico abbia mai dovuto affrontare, dal momento che con esso le sue stesse fondamenta sono minate dalla critica realista. 
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Le teorie del bene collettivo, che attentamente analizzate altro non sono che un elegante travestimento di qualche interesse particolare, sono comuni tanto negli affari internazionali quanto in quelli nazionali. L’utopista sostiene che ciò che è meglio per il mondo è anche meglio per il suo paese; e poi rovescia l’argomento trasformandolo nell’affermazione secondo cui ciò che è meglio per il suo paese è meglio per il mondo, essendo le 2 proposizioni, dal punto di vista dell’utopista, identiche. 
Secondo i realisti, invece, le teorie relative alla morale sociale sono sempre il prodotto di un gruppo dominante, che si identifica con la comunità nel suo complesso e che possiede strumenti negati ai gruppi subordinati o agli individui per imporre la propria visione del mondo alla collettività. Le teorie relative alla morale in campo internazionale sono, per lo stesso motivo e in virtù dello stesso processo, il prodotto di Stati, o gruppi di Stati, dominanti ⇒ nella misura in cui la supposta armonia degli interessi ha una qualche base reale, essa è creata dal potere schiacciante del gruppo dominante, e costituisce un’eccellente dimostrazione della massima di Machiavelli secondo cui la morale è un prodotto del potere. 
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Così come gli appelli alla “solidarietà nazionale” nella politica interna provengono sempre dal gruppo dominante, allo stesso modo gli appelli alla solidarietà internazionale e all’unione mondiale provengono dagli Stati dominanti che possono sperare di esercitare il loro controllo sul mondo unificato. 
I paesi che lottano per farsi largo con la forza nel gruppo dominante tendono invece a invocare il nazionalismo contro l’internazionalismo delle grandi potenze. 
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La nascita delle IR come disciplina accademica deve essere collocata negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale (la prima cattedra di IR fu fondata nel 1918 in Galles) e sin dall’inizio ha una fortissima valenza normativa = gli utopisti vogliono studiare in modo sistematico, “scientifico”, le cause della guerra per prevenirla. 
Alcuni nomi: A. Zimmern, P. Noel Baker, L. Woolf. 
Una critica al saggio di Carr è quella di L. M. Ashworth, nel saggio Where are the Idealist in Interwar International Relations?. 
In esso, Ashworth critica l’uso che Carr fa del concetto di “idealismo” nell’ambito delle IR. 
In particolare, Ashwoth identifica 3 problemi: 
1. la presentazione del concetto di idealismo non descrive accuratamente tutti questi scrittori che sono stati etichettati come “idealisti” 

Esiste una grande confusione, e soprattutto, mancanza di accordo, su cosa indichi veramente il concetto di “idealismo” e l’intercambiarlo con il termine di “utopismo” – il termine preferito da Carr – non aiuta a semplificare le cose. 
Nel periodo tra le 2 guerre mondiali, inoltre, i termini “idealismo” e “realismo” sono spesso stati usati in modi contraddittori: a volte essi erano usati per descrivere modelli di pensiero, altre volte per descrivere particolari gruppi. 
Il più famoso esempio di questo uso negli anni ’20 si deve a F. E. Smith, una delle principali figure del Partito Conservatore inglese. Smith definì l’idealismo in 3 modi: 
a. lo spirito che porta un individuo o un gruppo di individui ad avere uno standard di vita più altezzoso di altri; 
b. la concezione filosofica secondo cui nel mondo esterno le cose immediatamente conoscibili sono le idee; 
c. l’antitesi della “scuola dell’auto-interesse” (= il realismo). 

Nei tardi anni ’30, il realismo divenne invece quel concetto che indicava coloro che desideravano un ritorno alla cosiddetta diplomazia pre-1914, ossia all’equilibrio di potenza, alle alleanze militari e alla diplomazia segreta. Al contrario, idealismo indicava, in senso dispregiativo, coloro che avevano supportato il sistema di sicurezza collettivo della Lega delle Nazioni. 
Inoltre, come già accennato, questi termini venivano usati anche per indicare diversi gruppi. In particolare: 
− il realismo era usato per indicare soprattutto i conservatori; 
− l’idealismo per indicare i liberali; 
− infine, gli scrittori socialisti preferivano vedersi come un mix bilanciato di realismo ed idealismo. 

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Da questo punto di vista, secondo Ashworth, Carr non offre una chiara idea di cosa sia in realtà l’idealismo, se esso sia un modello di pensiero o un modo per definire un particolare gruppo di pensatori. 
2. il termine “idealismo” oscura i maggiori dibattiti teoretici e politici tra un ampio numero di scrittori etichettati come “idealisti”, mentre al tempo stesso amplifica le differenze supposte tra realisti ed idealisti 

Nell’ambito delle IR, nel periodo tra le 2 guerre mondiali in molti cercarono di dare una definizione di realismo ed idealismo. 
In generale, possiamo distinguere tra: 
− autori che considerano realismo ed idealismo come 2 parti di uno stesso predominante paradigma realista, come John Herz, Herbert Butterfield, Arnold Wolfers e, più recentemente, Martin Griffith. 
− autori che considerano l’idealismo come un paradigma separato, con elementi non-realisti perfettamente identificabili, tra cui Hedley Bull, Kenneth Thompson, John Vasquez e Trevor Taylor. 

Inoltre, soprattutto in Gran Bretagna, si diffusero altri ambiti di dibattito: 
− un primo ambito riguardava la questione se il capitalismo fosse o no la causa della guerra; 
− un secondo ambito si focalizzava sul valore della Lega delle Nazioni, anche se il dibattito si concentrò più sul “come” usare tale istituzione che sul consenso circa la sua importanza. 

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Non deriva altro che ulteriore confusione su cosa sia l’idealismo. 
3. l’idealismo, così come viene utilizzato nell’ambito delle IR, si confonde con l’uso più specifico che ne viene fatto nell’ambito della teoria politica. 

In particolare, Ashworth sottolinea come il problema consista nel fatto che molti degli scrittori etichettati come “idealisti” nell’ambito delle IR, dal punto di vista della teoria politica siano in realtà più materialisti (= essi tendono a vedere pensieri e idee come un riflesso di questioni e condizioni materiali; oppure essi credono che il pensiero debba essere forgiato da cambiamenti delle condizioni materiali) che idealisti. 
Ashworth prosegue a questo punto la sua analisi proponendo le 3 critiche mosse da Peter Wilson all’idealismo, dimostrando come nessuno di questi elementi si trovi nel pensiero di 5 autori, etichettati da Carr come utopisti – Norman Angell, Leonard Woolf, Philip Noel Baker, H. N. Brailsford, David Mitrany: 
a. gli utopisti prestano scarsa attenzione ai fatti e all’analisi delle cause e degli effetti: in realtà, secondo Ashworth, l’attenzione ai dettagli fattuali è un attributo comune ai 5 scrittori sotto esame, dato che le loro opere, almeno del periodo tra le due guerre mondiali, sono profondamente tese ad analizzare le cause e gli effetti di certi eventi. 

b. gli utopisti sottostimano il ruolo del potere nella politica internazionale, mentre sovrastimano il ruolo della morale, del diritto e dell’opinione pubblica: in realtà, anche in questo caso, tutti e 5 gli autori sotto esame hanno una visione progressista del potere. Ad esempio, per Angell proprio la presenza di un potere irresponsabile, insieme ad una bassa opinione della mente pubblica, rende alcune autorità internazionali, come la Lega delle Nazioni, una precondizione necessaria per un mondo più pacifico. 

c. gli utopisti non riescono a riconoscere che il loro professare l’esistenza di interessi universali non è altro che la promozione di un particolare status quo: è questo forse l’aspetto più problematico, anche se un elemento – la difesa dello status quo – può essere facilmente confutato, dal momento che le idee di tutti e 5 gli autori furono usate per promuovere piuttosto cambiamenti radicali alla contemporanea conduzione degli affari internazionali. 

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Secondo Ashworth, il problema dell’analisi di Carr consiste nel fatto che egli ha delineato una teoria che già esisteva nel periodo tra le 2 guerre mondiali e, soprattutto, che la sua teoria non ebbe i risvolti pratici da lui indicati. Più precisamente, gli autori che secondo la sua analisi ed etichettatura avrebbero dovuto sostenere la politica estera di Chamberlain, in realtà non erano affatto sostenitori della sua politica di appeasement. 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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