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Balancing e bandwagoning

Balancing e bandwagoning, nelle loro forme pure, sono categorie concettuali assai problematiche 

Gli Stati possono controbilanciarsi con altri mezzi, ad esempio riarmandosi, e non solo con le alleanze; 
le possibilità di scelta sono molto più ampie: 
si può mantenere una stretta neutralità, 
si possono allacciare legami con altri Stati ancora, 
si può giungere ad un qualche compromesso con lo Stato più forte, ma senza che questo significhi necessariamente stringere un’alleanza; 
i 2 termini racchiudono 2 ulteriori dicotomie: quella tra alleanze offensive e difensive e quella tra resistenza e accomodamento nei confronti di un potenziale nemico. 
Tutto questo conduce ad un’ulteriore osservazione: nel cosiddetto modello dell’aggregazione di potenza si assume che gli interessi degli alleati siano convergenti. MA così facendo si è venuto trascurando un fatto elementare = accanto agli interessi identici, in comune o comunque compatibili, coesistono molto spesso interessi diversi tra gli alleati, interessi che, se incrociati con i rapporti di forza, innescano tutta una serie di problematiche spesso ignorate. 
La cosa è tanto più paradossale se si nota che molti “classici”, che pure vengono spesso ricordati dal realismo contemporaneo, sono perfettamente consapevoli del fatto che i rapporti interalleati non si esauriscono nel perseguimento dell’interesse comune (esempio, le Storie di Tucidide). 
Il realismo contemporaneo, è bene precisare, non ignora le difficoltà e le tensioni che caratterizzano i rapporti tra gli alleati, MA il punto non è mai stato oggetto di una riflessione sistematica. 
Una significativa eccezione è costituita, secondo Cesa, da un brillante articolo di P. Schroeder, il cui appello è però passato quasi del tutto inosservato. Egli critica la concezione consolidata che vede le alleanze principalmente come “armi di potenza” (weapons of power) e a questa contrappone la sua interpretazione delle alleanze come “strumento di gestione” del conflitto (tools of management). 
NB: Schroeder è uno storico, non uno scienziato politico ⇒ probabilmente egli avverte in misura minore il peso della teoria tradizionale. 

Le sue tesi possono essere riassunte brevemente nel seguente modo: 
− il desiderio di “aggregare la potenza” contro una minaccia non è sempre vitale nella formazione di un’alleanza; 
− tutte le alleanze funzionano, in certa misura, come pacta de contrahendo, limitando e controllando le azioni degli stessi alleati; 
− alcune alleanze possono essere usate per far sì che un avversario si unisca a noi, evitando così lo scontro diretto. 
Per Schroeder, questa concezione delle alleanze si colloca a metà strada tra 2 modi opposti di pensare la politica internazionale, uno che sottolinea il conflitto (= realismo) e l’altro che invece richiama la nostra attenzione sui fenomeni cooperativi (= liberalismo): le alleanze, infatti, racchiudono aspetti tanto associativi quanto conflittuali. 
A ben guardare, però, secondo Cesa, le tesi di Schroeder si prestano ad essere lette in una chiave tutta realista, anche se egli sottolinea un elemento cruciale, sfuggito al realismo nel suo complesso a causa della sua insistenza quasi ossessiva sull’equilibrio di potenza: la rivalità e la competizione tra gli Stati si estendono persino all’interno delle alleanze. 
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Siamo proprio alla prospettiva opposta rispetto a quella comunemente adottata. Tuttavia, ciò che è notevole è che essa è perfettamente coerente con il realismo. 
La diffusione del modello dell’aggregazione di potenza ha dunque fatto sì che il problema dei rapporti interalleati non abbia ricevuto l’attenzione che merita, ciò non significa, tuttavia, che esso sia stato del tutto ignorato. 
Ecco alcune direzioni lungo le quali si è articolata la ricerca: 

− “teoria economica delle alleanze”, frutto di una estensione del tipico dilemma dell’azione collettiva operata da M. Olson e R. Zeckhauser: questo modello si applica ad ogni organizzazione internazionale volontaria (la NATO in particolare), caratterizzata dall’esistenza di un qualche interesse in comune tra i suoi membri ⇒ sono i membri più grandi, quelli per i quali il bene pubblico ha il maggiore valore assoluto, che ne pagheranno il costo di produzione in misura sproporzionata; 
− un’altra strada battuta è quella che muove dal tipo di sistema internazionale: per Waltz vi sono importanti differenze nei rapporti tra alleati che si trovano in un sistema bipolare e alleati che invece interagiscono in un sistema multipolare. In quest’ultimo, dato che le amicizie e le inimicizie sono più ambigue e incerte, la maggiore complessità sistemica predispone gli Stati a 2 tipi di errori: 
- chainganging (= incatenamento) = legarsi troppo strettamente ad alleati il cui appoggio viene giudicato vitale ⇒ correre il rischio di essere trascinati in situazioni pericolose, se non addirittura in una guerra; 
- buck-passing (= scaricabarile) = fare eccessivo affidamento sugli altri nel far fronte ad una minaccia ⇒ l’incertezza cronica sull’affidabilità degli allineamenti può indurre a non opporsi risolutamente ad uno Stato aggressivo nella speranza che altri si facciano carico dell’incombenza. 

La teoria di Waltz è stata poi ulteriormente approfondita da J. J. Mearsheimer, il quale distingue tra 
multipolarismo “sbilanciato” 
multipolarismo “bilanciato”, 
a seconda che nel sistema internazionale vi sia o non vi sia, rispettivamente, un aspirante egemone. È nel secondo caso che la tendenza al buck-passing sarà più marcata. 
Infine, è proprio muovendo da considerazioni legate alla polarità del sistema internazionale che G. H. Snyder ha elaborato quella che rimane, secondo Cesa, l’idea più penetrante per rendere conto di alcuni aspetti centrali dei rapporti tra alleati = il loro costante oscillare tra il timore di “abbandono” e quello di “intrappolamento”: le iniziative prese per scongiurare la prima eventualità rendono più probabile la seconda, e viceversa. Da qui quello che Snyder chiama il “dilemma della sicurezza delle alleanze”. 
Per Snyder, tale dilemma si presenta in forma più acuta nei sistemi multipolari, nei quali l’alta dipendenza tra gli alleati si accompagna a credibili ipotesi di riallineamento ⇒ il bisogno di evitare l’“abbandono” spinge a politiche che generano anche il rischio di “intrappolamento”. 
Nei sistemi bipolari, per contro, l’“abbandono” è meno probabile ⇒ il dilemma si manifesta in forme latenti e stemperate. 
Occorre dedicare una certa attenzione anche alle vicende interne di un’alleanza, soprattutto in considerazione del fatto che di esse non sappiamo molto. Infatti, se gli alleati sono di norma legati da un qualche interesse in comune, questo non sopprime affatto l’esistenza di interessi che comuni non sono ⇒ una visione d’insieme delle alleanze deve cercare di cogliere simultaneamente questi loro molteplici aspetti. 
Un’operazione indispensabile per fare un po’ di chiarezza e introdurre un minimo di ordine sarà allora quella di costruire una tipologia. È solo dopo aver chiarito di quale tipo di alleanza stiamo parlando che si potranno avanzare ipotesi più precise e più mirate. 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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