Skip to content

Il “giusto” e l’“utile” nella concezione tucididea

Qual è il criterio in base al quale gli Stati prendono le loro decisioni nelle Storie? 
Ovviamente è il criterio dell’utile, del vantaggio, dell’interesse, spesso contrapposto al giusto. 
⇓ 
L’analisi che segue verterà, da un lato, sulla contrapposizione tra utile e giusto, dall’altro, sui diversi significati che assume il concetto di “utile”. 
Contrasto tra giusto e utile
È uno dei principali problemi delle relazioni internazionali e della politica internazionale, soprattutto nelle decisioni in politica estera: quando i 2 concetti si scontrano, le Storie e l’esperienza insegnano che molto spesso è l’utile a prevalere. Ad esempio, gli Ateniesi, posti di fronte all’alternativa tra perdere l’impero o mantenerlo con tutti i mezzi possibili, 2 personaggi così diversi come Pericle e Cleone ragionano in termini molto simili: 
− Pericle dice che il vostro impero, di fatto, è una tirannide: certo illegale a conquistarsi, ma rischiosissimo a deporsi (II.63) ⇒ l’impero è forse illegale, ingiusto, ma è vantaggioso e meno pericoloso abbandonarlo; 
− Cleone, pur avendo idee molto diverse da Pericle, afferma anche lui (in occasione della rivolta di Mitilene) che se fu legittimo il loro moto, è dunque iniquo il vostro dominio. Se, pur contro il diritto, vi proponete egualmente di farlo valere, non sfuma per ciò il dovere di correggerli duramente, in contrasto con la giustizia, ma in accordo con il vostro profitto. Ovvero lasciate cadere il vostro impero e interpretate la parte dei galantuomini (III.40). 

⇓ 
Per mantenere l’impero occorre usare tutti i mezzi necessari, anche se sono ingiusti. 
Prima dello scoppio della guerra, avviene il dibattito tra Corinzi ed Ateniesi. In particolare, questi ultimi rispondono davanti agli Spartani difendendo l’operato di Atene e ricordando agli Spartani che loro stessi in passato si sono comportati come Atene, finché, per calcolo d’utilità, ora sbandierate il concetto di giustizia (I.76) ⇒ anche in questo caso, il concetto di giustizia è strumentalizzato a favore dell’utile, al calcolo d’interesse. 
Qual è il senso di tutti questi interventi? 
Molto semplicemente, essi sanciscono l’autonomia della politica, che va limitata al suo ambito, alle sue leggi. La separazione tra politica e morale di solito viene fatta risalire all’Età moderna, e a Machiavelli in particolare, ma tale separazione esisteva già nel pensiero classico: una volta creato un impero che si vuole conservare, considerazioni di giusto/ingiusto sono semplicemente fuori luogo, perché non bisogna confondere le leggi della politica con le leggi della giustizia, della morale, della religione. Il perché queste idee si siano diffuse principalmente a partire da Machiavelli è abbastanza evidente: tra l’epoca classica di Tucidide e l’epoca moderna di Machiavelli c’è il pensiero cristiano, il quale, fin dall’inizio si sforza di conciliare questi 2 aspetti (politica e morale), perché ritenuti complementari. Soltanto con la crisi dell’Impero e del Papato, questo tentativo di riconciliazione entra in crisi. 
⇓ La concezione tucididea delle relazioni internazionali può essere definito realismo amorale = gli Stati agiscono secondo i propri interessi, a prescindere dalla giustizia. È un fatto naturale = riconducibile alla natura umana, alla phýsis, contrapposta alla legge positiva, al nómos. La differenza sta nel fatto che la legge naturale è una costante, è eterna ⇒ non si può esprimerne un giudizio di tipo morale. Le leggi positive, invece, sono frutto dell’azione umana ⇒ sono delle variabili, molto precarie, che cambiano in continuazione. 
Gli Stati sono esseri umani su larga scala ⇒ il fatto che si muovano in base al loro interesse è un fatto naturale. Ed è per questo che risulta essere inappropriato esprimere giudizi di valore a riguardo. 
Nella teoria classica, Tucidide non è il solo a formulare simili idee, le quali vanno invece ricondotte ad un contesto più ampio del pensiero politico greco della seconda metà del V secolo, all’interno di quella posizione fatta propria dai sofisti, in base alla quale, senza avanzare giudizi di carattere morale, si dichiara semplicemente che il più forte sottometterà sempre il più debole e darà il nome di giustizia, di legge, a ciò che viene deciso sulla base dei propri interessi ⇒ il dominio del più forte è naturale e dunque non può essere giudicato né biasimato: comandare è vantaggioso; al contrario, farsi guidare da considerazioni di giustizia può essere molto pericoloso, se non addirittura contro natura. 
L’uso strumentale di valori come quelli di giustizia, amicizia, lealtà, vincoli di sangue è evidente nel corso delle Storie, dal momento che vengono spesso usati per nascondere motivazioni legate prevalentemente all’utile. Tipico è il caso di Atene, che insiste più volte sulla legittimità del suo impero, ricordando le imprese del passato, – e in particolare, la lotta contro i Persiani – che in realtà gli stessi Ateniesi, nel dialogo con i Meli, riconoscono essere semplici chiacchiere. 
Di solito, il giusto ha 2 dimensioni: 
− dimensione legale = le alleanze: dal punto di vista legale, rispettare vincoli di alleanza è giusto, ma, in realtà, si rivela essere spesso solo un pretesto. 
Ermocrate denuncia le alleanze ateniesi: gli Ateniesi stanno arrivando in Sicilia con il pretesto di un’alleanza, attenti alle proprie opportunità manovrano con quel loro scaltro stile politico, protetti dallo schermo legittimo di un’alleanza (IV.60) 
Anche nel dialogo con i Meli si propone questo concetto, quando gli Ateniesi affermano che i concetti della giustizia affiorano e assumono corpo nel linguaggio degli uomini quando la bilancia della necessità sta sospesa in equilibrio tra due forze pari. Se no, a seconda; i più potenti agiscono, i deboli si flettono ⇒ ancora una volta si afferma che la giustizia è subordinata ai rapporti di forza, se non nel caso in cui questi rapporti di forza siano alla pari. 
Tra l’altro, i trattati vengono spesso disattesi. È il caso soprattutto della Pace di Nicia, che lo stesso Tucidide definisce come un periodo di tregua non solida, durante il quale le due parti si infersero a vicenda ferite gravissime (V.25) ⇒ ognuna delle parti cerca di salvaguardare i propri interessi, e il vincolo legale non è sufficiente per frenare questo interesse. 
− dimensione morale-religiosa: ad esempio, i Tebani accusano gli Ateniesi di empietà, perché hanno fortificato il tempio di Delio, hanno profanato l’acqua del dio, ecc. Gli Ateniesi rispondono che era umano sperare, anche dal dio, una certa indulgenza per tutti quei gesti che gli uomini compiono sotto l’incubo della guerra (IV.98) ⇒ ci sono necessità più stringenti del rispetto religioso, davanti alle quali anche la legge religiosa deve piegarsi. 
Ancora una volta, il dialogo tra i Meli e gli Ateniesi offre elementi a conferma di questo aspetto, in particolare al punto in cui i Meli affermano che non sia volontà del dio di sopprimerci: poiché ci erigiamo innocenti a contrasto di chi viola il giusto (V.104). al che gli Ateniesi rispondono – similmente a quanto avevano risposto ai Tebani – che persino tra gli dei si applica la legge del più forte, che nel cosmo divino, come in quello umano, urga eterno, trionfante, radicato nel seno stesso della natura, un impulso: a dominare, ovunque s’imponga la propria forza. È una legge (V.105). 

Entrambe vengono drasticamente ridotte, circoscritte, spesso subordinate ai rapporti di forza a servizio dell’interesse. 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
Valuta questi appunti:

Continua a leggere:

Puoi scaricare gratuitamente questo appunto in versione integrale.