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I compiti prefissati dal Concilio laterano V


Restituire, rivivificare, ricuperare: tali sono i compiti che Egidio da Viterbo affida al concilio. Più preoccupato di rendere conto della distinzione fra una Chiesa santa e i suoi membri peccatori, Caietano (che qualche anno più tardi sarà confrontato a Lutero), nel suo discorso del 17 maggio 1512, diretto particolarmente contro il conciliabolo di Pisa, insiste sull’ecclesiologia. Il concilio deve impegnarsi in
un quadruplice compito: reformatio (riforma della chiesa), restitutio (ripristino dei costumi allentati), revocatio (reiezione degli eretici), roboratio (rimessa in vigore delle antiche leggi). Anche Caietano preconizza nella chiesa un rafforzamento giuridico e una migliore scelta delle persone responsabili. Ci furono molti altri discorsi che invocavano una riforma della chiesa, che in generale si accontentavano di invocare il ritorno agli instituta: il diritto, i costumi, le tradizioni, l’insegnamento delle Scritture, dei Padri e dei Dottori, del magistero.
Questa enumerazione dei fondamenti della vita ecclesiale riveste un qualche interesse, ma non offre di per se, alcuna soluzione alla crisi vista nella sua profondità. In realtà si può affermare che il concilio Laterano V ha piuttosto tentato di affrontare le difficoltà, immediate, evitando di risolvere dei punti troppo controversi. Si sa che la sua opera più duratura fu da un lato il riconoscimento dell’unione dei cristiani maroniti con Roma, divenuta una realtà già dal Duecento ma riportata all’attualità dalla Santa Sede; dall’altro, la ratifica del concordato con Francesco I che sigilla, a vantaggio della monarchia francese, una riconciliazione e riorganizzazione dei suoi rapporti con la Chiesa, divenuta necessaria. È vero anche che all’inizio del 1517 raggiunse il concilio un ragguardevole programma di riforma, il De reformandis moribus, inoltrato da Giovan Francesco Pico della Mirandola, che insiste, anche lui, sul ritorno agli instituta, le antiche leggi, aggiungendovi le esigenze delle leggi naturali; ma mette l’accento sulla forza e sulla necessità del buon esempio. Finché infatti, il papa, i vescovi, e i principi non si conformeranno alle leggi e al bene, non si potrà impedire che i loro subalterni, osservandoli confondano il male col bene. Il vantaggio di questa concezione gerarchica e aristocratica è quello di designare specificatamente i protagonisti della riforma nella cristianità. Con Giovan Francesco si passa così dallo spirito velleitario del concilio Laterano V, in cui egli denuncia con chiarezza i discorsi tanto generici da risultare vuoti, a una riforma di tipo morale e intellettuale (pone cioè l’accento sulla volontà profonda che deve presiedere a un rinnovamento della chiesa; egli predica il ritorno alla pietas – comportamento cristiano – e alla paideia – ideale educativo che raccoglie il meglio dell’antichità). Si può dunque affermare che nel Concilio Laterano V la ricerca di una riforma vi appare di tatto come imprigionata dallo stesso sistema.

Tratto da LA RIFORMA PROTESTANTE di Alessia Muliere
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