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Diderot

Società e democrazia
Critico, letterato, romanziere, filosofo, Diderot è stato, insieme a D'Alembert, il principale animatore dell'Encyclopédie, di quel monumento del sapere illuministico che illustrava il progresso dell'attività umana in tutti i suoi campi. Anche per Diderot, come per Voltaire, il razionalismo è il criterio metodico per revisionare i presupposti del sapere, della moralità e della politica. Per conoscere gli individui e per governare i cittadini bisogna servirsi senza pregiudizi della ragione e rimettere in discussione ciò che è troppo "costituito" nel mondo dei valori e delle istituzioni e che, con la forza del pregiudizio, ostacola i rinnovamenti necessari per soddisfare i bisogni dell'umanità. In certe fasi della sua meditazione Diderot ha dato qualche credito al dispotismo illuminato e sono noti i suoi orientamenti favorevoli alla politica di Caterina II di Russia ma rimane essenziale nel suo pensiero il principio che la potenza illimitata è sempre funesta e che ogni governo che la personifica è destinato a degenerare. La lotta all'arbitrio è quindi obbligazione costante della cultura politica e il diritto all'opposizione va considerato come naturale, inalienabile e sacro anche nei confronti di un sovrano che, convertito alla ragione, pretenda di governare saggiamente. La tensione per la libertà deve sempre fecondare la vita di una comunità politica, quindi in una società progredita il sovrano non può presentarsi come padrone assoluto né degli uomini né delle cose e deve piuttosto esercitare, come voleva Locke, una funzione di garanzia, un servizio di tutela. E'un pregiudizio da combattere che il popolo sia fatto solo per il monarca e che debba passivamente adattarsi ad ogni suo comando: bisogna educare il popolo alla libertà. In questa prospettiva si riscontrano in Diderot delle significative aperture verso principi di democrazia anche se, come in Voltaire, permangono diffidenze e riserve sulla capacità del popolo di provvedere da solo alla propria emancipazione. L'idea che la proprietà e la ricchezza siano presupposti per l'esercizio dei diritti politici non è certo estranea a Diderot: i corpi rappresentativi devono essere espressione dei proprietari perché essi hanno la sensibilità necessaria per gli affari politici e sono in grado di usare i loro patrimoni come limite al potere. La proprietà segna la discriminazione fra una società misera ed oppressa. Appunto perché evocata come antidoto al falso principio che il popolo sia fatto per il sovrano, occorre che la proprietà non si fondi su innaturali privilegi, che sia diffusiva, che si connetta al lavoro e che non crei degli intralci alla circolazione economica interna ed agli scambi esterni. Sono ammissibili alle "disuguaglianze convenzionali" dipendenti dai diversi meriti, funzioni e potenzialità degli individui nella società ma egli chiede l'abolizione di tutti i privilegi connessi alla nobiltà, allo stato ecclesiastico, alla magistratura e si domanda anche quali ulteriori garanzie vadano stabilite affinchè siano tutti uguali di fronte al tribunale delle leggi. La possibilità di una buona legislazione è compromessa dalle forti sproporzioni sociali ed economiche, bisogna prendere perciò delle precauzioni affinchè il denaro non sia il dio del proprio paese, non diventi il fattore predominante e condizionante della politica e non rappresenti nella morale il criterio di distinzione fra un solo vizio, che è la povertà, ed una sola virtù, che è la ricchezza. L'alternativa fra essere ricchi ed essere disprezzati lede condizioni irrinunciabili della dignità umana; si constata purtroppo che coloro che hanno maggiori prerogative e che sono beneficiari della più grande parte delle risorse della società, sono gli stessi che contribuiscono meno alle spese della comunità ed al progresso sociale. Le stesse garanzie della rappresentanza politica svaniscono quando la ricchezza domina incontrastata. In questo orientamento i fondamenti del diritto di proprietà e la sua presunzione di sacralità assumono intonazioni diverse da quelle tradizionali; se infatti la proprietà di qualche privato ostacolasse ininterrottamente gli intenti generali, la società per non andare in rovina sarebbe legittimata. Il principio dell'uguaglianza dei cittadini non va dunque sacrificato di fronte ad alcuna astratta grandezza sociale ed economica: i cittadini devono essere tutti soggetti, allo stesso modo, alle stesse leggi le quali, per non essere ingiuste, non devono essere diverse da categoria a categoria e devono riferirsi ad una nozione comune di libertà. Il regime più adeguato al raggiungimento di questi scopi è la democrazia: la sovranità appartiene alla nazione e l'unico vero legislatore è il popolo cui spetta fare le leggi e riformarle quando esse non corrispondono più ai bisogni della società.

Diritto naturale e volontà generale
Il pensiero di Diderot converge con quello di Rousseau nel considerare la volontà generale criterio indispensabile di legittimazione del potere e dei fini della politica. Tale volontà generale non soppianta il diritto naturale ma ne è piuttosto esplicazione e sanzione; ciò che corrisponde ad essa, infatti, è ciò che vi è di più universale, di meno contestato dall'intera specie umana. A differenza di Rousseau, Diderot non calcola però il problema della volontà generale solo in riferimento ad una comunità nazionale delimitata e ne fa invece un criterio di connessione politica tendenzialmente cosmopolitica, da far valere nei rapporti fra i cittadini, nei rapporti fra i cittadini e la società e nei rapporti delle società fra di loro. Il diritto naturale è immanente alla volontà generale, la quale ne è appunto l'attuazione più veritiera perché è lo strumento più efficace per il bene del popolo. Diderot rifiuta però di concedere all'universalità della legge naturale e della volontà generale una sanzione religiosa. Il deismo di Diderot, che ha un intenso carattere anticlericale, rimane decisamente contrario all'ingerenza religiosa negli affari pubblici; quando il potere si serve della religione per giustificare il suo assolutismo, non solo compromette la possibilità di una politica ragionevole e democratica ma svilisce anche il valore della fede. Il vero ateismo, l'ateismo pratico, si realizza secondo Diderot nella confusione fra politica e religione: i veri atei sono i potenti che pretendono di parlare in nome di Dio. Il deismo invece, cioè quella vocazione etica che vede Dio nelle meraviglie della natura e nello sforzo dell'uomo di conoscerle con le sue facoltà razionali, è espressione di una più autentica spiritualità religiosa.

La ragione ed i suoi limiti
Anche se nella conoscenza, nell'etica e nella politica la ragione è garanzia di progresso, non le viene però riconosciuta alcuna presunzione di assolutezza: la ragione, per Diderot, è ricerca. La coercitiva imposizione al reale di un'assiomatica certezza razionale non è meno pericolosa che la sistematica applicazione delle superstizioni e dei pregiudizi. E'preferibile inseguire una verità sempre incompiuta piuttosto che definirla attraverso esaustive concettualizzazioni. Egli non considera la ragione come un principio fisso ed invariabile e le attribuisce anzi un suo intrinseco carattere critico e problematico. Non c'è stabilita assoluta nel mondo del sapere né in quello della pratica e non spetta alla ragione imporre artificialmente primi principi e deduzioni sistematiche che non appartengono alle cose umane. Un certo relativismo, perfino un certo scetticismo, sono per lui attitudini più favorevoli ad un'autentica ricerca che non la meccanica accettazione di logiche incontrovertibili. Nessuna esaltazione quindi di un razionalismo destinato a trionfare ineluttabilmente nella storia; l'intelligenza critica non può essere d'altronde disgiunta dal senso di umanità.

Individuo e comunità sociale
Egli diffida di "tutto ciò che tende ad isolare l'uomo dall'uomo" e rivaluta invece la funzione dei "poteri intermediari" nella lotta contro le degenerazioni dispotiche dell'autorità. L'arbitrio si manifesta non solo quando si ledono i diritti degli individui ma anche quando si disgregano le loro comunità e le loro solidarietà per dividerli ed assoggettarli più facilmente ai condizionamenti potestativi. Questa rivalutazione delle comunità sociali non è nella linea prevalente dell'Illuminismo, la cui tendenza è piuttosto quella di considerare gli individui in posizione socialmente e politicamente prioritaria; Diderot insiste invece sul valore dei vincoli positivamente accomunanti che gli organismi sociali possono far valere sia nei confronti dell'autorità dispotica, sia nei confronti della natura. C'è qui l'anticipazione di un tema particolarmente sviluppato da Claude- Henri Saint- Simon, il quale pensava che alla lotta degli uomini tra di loro dovesse sostituirsi la lotta degli uomini solidali contro la natura. La comunità sociale non deve essere tuttavia troppo condizionante perché una certa indipendenza degli individui è essenziale alla loro libertà; i principi della dignità individuale devono sempre riproporsi come base e legittimazione della convivenza sociale.

Stato e benessere
Se non si rinnovano e non si garantiscono le condizioni positive e ragionevoli della cooperazione,la politica sancisce la degradazione e la conflittualità dei cittadini. Questo rinnovamento esige dei rimedi istituzionali ma anche una revisione di valori morali e sociali; un fondamentale principio ispiratore della vita politica, sociale ed economica deve essere la ricerca del benessere e della felicità. Come Voltaire, anche Diderot rivaluta il bonheur che non è soltanto bene ideale cui tendere attraverso il perfezionamento dell'anima e l'ascesi dello spirito ma è anche acquisizione di vantaggi e di utilità materiali misurabili attraverso un insieme di parametri pratici. Contro ogni forma di rinuncia e di penitenzialità individuale e collettiva, Diderot afferma che perseguire il benessere ed espandere la felicità è un dovere della società, anche se ciò può avere come conseguenza un certo scadimento delle virtù tradizionali. Non ci si può riconoscere in un sistema di valori nazionali se questi disconoscono i nostri bisogni ma la logica e l'etica della felicità esigono anche che non si entifichi il bene comune a scapito dei beni particolari ed individuali. L'obbligazione politica non può quindi disconoscere e reprimere l'aspirazione dei singoli alla personalizzazione del benessere. Lo stato non deve avere perciò il monopolio nella qualificazione del bonheur e non deve imporre, attraverso la sua pedagogia assolutistica, una aprioristica discriminazione tra ciò che è bene e ciò che è male. Esso è invece tenuto a predisporre le fondamentali condizioni di coesistenza e di giustizia affinchè ciascun uomo cerchi come vuole non soltanto Dio ma anche le proprie misure di felicità nel mondo sociale. Non mancano quindi nel pensiero di Diderot elementi utilitaristici ed anche edonistici che sono per lui antidoti contro innaturali austerità ed incentivi ad attività economiche più dinamiche e produttive. Egli sostiene che bisogna distinguere fra due tipi di lusso. C'è un lusso che è soltanto l'indice della ricchezza di un gruppo ristretto di privilegiati e che diventa una fonte di corruzione per tutti ma c'è un altro tipo di lusso che deriva da una generale crescita economica e che diffonde la ricchezza su vari strati della popolazione. Egli contrappone così lusso produttivo e lusso improduttivo, optando per l'idea di uno sviluppo economico svincolato da moralistiche esaltazioni dell'austerità ma sensibile alle esigenze di progresso e di emancipazione delle diverse componenti della realtà sociale.

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