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Definizione di infinito nella filosofia antica e medioevale



Nel pensiero di Platone infinito è sinonimo di “indeterminato”, di qualcosa “senza misura” quindi ancora suscettibile di un più e un meno. Aristotele nega l’esistenza ontologica all’infinito: non può esistere una sostanza infinita, se non solo in potenza. Solo in potenza è possibile dividere all’infinito una retta e solo potenzialmente essa può essere infinita poiché essa può essere accresciuta illimitatamente solo potenzialmente. L’infinito è allora ciò che non ha un fine irraggiungibile, un “illimitato”. Plotino fa una svolta non indifferente: egli distingue tra l’infinito potenziale della matematica inteso come inesauribilità del numero, dall’infinito metafisico, inteso come illimitatezza della potenza creatrice di Dio, che ne rappresenta dunque la pienezza e la perfezione. Tommaso dirà che l’infinito coincide con l’essenza ontologica di Dio inteso come ens perfectissimus. Ma accanto a questa teologia “positiva” vi è quella “negativa” di Dionigi l’Aeropagita il quale sottolinea l’assoluta trascendenza dell’infinità divina rispetto al mondo; è per questo motivo che è impossibile stabilire cosa l’infinito sia, vedendo in esso e quindi in Dio un’entità ineffabile. Nella tarda scolastica va ricordato Ockham il quale per primo ammette la possibilità dell’infinità dell’universo e dell’esistenza di più mondi. Sarà con Cusano e Bruno che questa possibilità verrà accolta come un verità filosoficamente dimotrata.

Tratto da STORIA DELLA FILOSOFIA MODERNA di Carlo Cilia
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