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Le caratteristiche della retribuzione a cottimo


Storicamente la retribuzione a cottimo è stata la forma tipica della retribuzione del lavoro autonomo.
In seguito la forma del cottimo viene utilizzata anche nel lavoro subordinato non più per determinare il contenuto della prestazione lavorativa, ma per misurare la retribuzione in proporzione ad un risultato predeterminato (più precisamente al rapporto tra tempo e risultato del lavoro).
Di qui il passaggio dalle forme del cottimo nelle quali la retribuzione è misurata in proporzione alle quantità prodotte (cottimo a pezzo o a misura), ai sistemi di cottimo a tempo, nei quali la retribuzione è determinata sulla base del tempo di lavorazione impiegato e quindi del rendimento del lavoratore.
Nel cottimo il rischio della produttività del lavoro resta a carico del datore per ciò che concerne l’organizzazione del lavoro e quindi il risultato della prestazione nel suo complesso; esso per contro viene in parte trasferito a carico del prestatore solo per ciò che concerne la quantità della retribuzione.
Nel cottimo, insomma, la retribuzione è commisurata alla quantità della prestazione lavorativa determinata in base all’intensità di lavoro nell’unità di tempo e non alla sua durata, come nella retribuzione a tempo.
Va detto, comunque, che nella struttura della retribuzione, il cottimo si configura come una maggiorazione (c.d. percentuale o utile di cottimo) integrativa della retribuzione fissa (o minimo di paga-base calcolato a tempo); mentre di fatto la retribuzione a cottimo integrale (c.d. cottimo puro) è limitata al lavoro a domicilio.
Secondo l’art. 2100 c.c., il prestatore deve essere retribuito a cottimo tutte le volte che:
“in conseguenza dell’organizzazione del lavoro, è vincolato all’osservanza di un determinato ritmo produttivo” (è il caso classico della catena di montaggio);
nelle lavorazioni ad economia di tempo in cui “la valutazione della sua prestazione sia fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempo di lavorazione”.
Si tratta di ipotesi in cui il legislatore, pur non limitando il potere unilaterale di organizzazione del lavoro, impone all’imprenditore di aumentare la retribuzione quando vengano aumentati i ritmi di lavoro.
L’art. 2101 c.c. disciplina in via generale l’intervento del sindacato nella determinazione delle tariffe di cottimo, cioè il compenso unitario del risultato del lavoro.
A questa fase c.d. sindacale della determinazione preventiva e astratta delle tariffe di cottimo nei contratti collettivi di categoria, segue la fase c.d. aziendale dell’applicazione delle tariffe.
Quest’ultima è demandata all’autonomia individuale e quindi al potere organizzativo dell’imprenditore, il quale ha l’obbligo di “comunicare preventivamente ai prestatori di lavoro i dati riguardanti gli elementi costitutivi della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguire e il relativo compenso unitario” (la c.d. bolla di cottimo).
In sostanza si può affermare che la retribuzione a cottimo assolve alla funzione di incentivo del rendimento sul lavoro.
Tuttavia, allorquando il rendimento non dipenda da uno sforzo o tempo di lavoro determinabile dal prestatore, ma sia vincolato ai ritmi imposti dalla macchina, il cottimo svolge una funzione non tanto di incentivo diretto, quanto di controllo del rendimento, obbligando il lavoratore al mantenimento di uno standard o livello costante medio o addirittura minimo di attività nella prestazione di lavoro.
Per questo motivo si può sostenere che, in realtà, l’effettiva funzione del cottimo sia quella di adeguare la retribuzione al modo di organizzare la prestazione lavorativa e che sarebbe più realistico parlare di sistemi di organizzazione del lavoro a cottimo, anziché di sistemi di retribuzione a cottimo.

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