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Monade e appetizione in Leibniz



Leibniz dall’inizio della sua speculazione si è sforzato di trovare un principio ultimo delle cose, qualcosa che non è riducibile a nient’altro. Per questo motivo egli era affascinato dall’atomismo, che considerava l’atomo un’entità ultima e indivisibile. Questi atomi vanno però considerati non come atomi di materia ma come atomi di energia di modo che non possa presentarsi la contraddizione tra ciò che è esteso (la materia) e quindi divisibile, con ciò che per definizione è indivisibile (l’atomo). Questi atomi di forza inestesi sono chiamati da Leibniz monadi. Esse non sono né generabili né corruttibili dal momento che esse sono prive di parti scomponibili. Esse possono essere create da Dio con un passaggio immediato dal non essere all’essere. Tale impossibilità di scomposizione comporta anche che esse non possono esercitare alcuna azione causale reciproca: la monade “non ha finestre”. È chiaro che le monadi sono cmq soggette a mutamento (altrimenti la realtà sarebbe anch’essa priva di mutamento): tali mutazioni sono il risultato dell’attività interna di esse le quali possiedono un centro di ininterrotta attività. Tale attività coincide con la percezione ovvero che la monade rappresenta a se stessa ciò che avviene nel mondo; per questo motivo la monade è concepita come un punto di vista sull’universo. Essa inoltre non riproduce sempre la stessa percezione, dato che questa continua attività spinge la monade ad una continua crescita su sé stessa: è questa crescita che Leibniz chiama appetizione.

Tratto da STORIA DELLA FILOSOFIA MODERNA di Carlo Cilia
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