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Definizione di Cultura

La definizione di cultura nelle scienze sociali è sempre stata al centro di ampi dibattiti: i diversi significati, infatti, non riflettono solo una diversa visione del concetto in sé, ma un differente sguardo sulla realtà, differenti categorie percettive.

La prima definizione antropologica di cultura che si allontana sai dall'universalismo illuminista sia dalla visione etnocentrica della prima antropologia e sottolinea il carattere relativo della cultura è quella di Tylor, che nel 1871 definisce la cultura come il complesso che include le conoscenze, le credenze, la morale, le abitudini e gli oggetti materiali di una comunità.
I successivi sviluppi dell'antropologia, con Malinowski, Mauss e Levy-Strauss, affermano ancora di più la dimensione relativista: essi evidenziano la necessità di immergersi nel tessuto culturale della comunità studiata per comprenderne i suoi significati.
Al centro del significato antropologico di cultura trova così sempre più spazio l'idea di quotidiano (i ruoli, le aspettative, le credenze, i miti, i riti e tutte le pratiche che strutturano l'agire quotidiano) e di strumento prescrittivo per dare significato al mondo (ridurre incertezza) e al noi (identità).

Gli sviluppi più recenti dell'antropologia hanno posto alcuni accenti critici su una tale visione di cultura, specie sulla sua dimensione statica come bagaglio di prescrizioni definite e necessarie alla definizione del noi. Una tale concettualizzazione , infatti, acuirebbe le differenze, renderebbe le culture come entità pure e statiche e non lascerebbe alcuno spazio per l'autonomia individuale (per questo si parla di individui iper-culturizzati).
James Clifford ha introdotto sulla scia di queste critiche l'idea che la cultura non è un bagaglio di modelli definiti, ma un insieme di possibilità e vincoli che strutturano la realtà in un processo dinamico di continua ibridazione con altre culture. In sostanza si passa da una visione di cultura come “roots” ad una come “routes”.

Un'altra nota definizione di cultura è dell'antropologo Clifford Geertz, il quale l'accomuna ad una rete di significati che gli individui hanno creato e continuano a ricreare, restandone così invischiati.

Anche in sociologia la cultura è sempre stata al centro dello studio seppure l'interesse non è verso la comparazione con altre culture, ma del ruolo giocato all'interno del sistema sociale. Drukheim, ad esempio, poneva l'accento sulla dimensione morale e simbolica delle rappresentazioni collettive come momento costituente la coesione necessaria a definire un organismo sociale.

Marx, al contrario, definisce la cultura come l'elemento sovrastrutturale necessario a mantenere l'ordine sociale derivato dalla ripartizione e proprietà dei mezzi materiali di produzione; Gramsci riprende l'approccio critico marxista e introduce il concetto di egemonia culturale per identificare quei processi di dominio da parte di una classe che impone la propria visione del mondo attraverso le pratiche culturali.

Un altro approccio critico è la Scuola di Francoforte (tra gli altri Adorno, Horkheimer e Marcuse) i quali introdussero i termini di industria culturale e cultura di massa. Rianimando l'idea illuminista di una cultura alta, la Scuola parla di industria culturale per indicare la produzione omologante di modelli culturali attraverso i media e l'industria che favorirebbero una cultura e una società massificata, ossia uniforme, senza stimoli, priva di creatività in quanto destinata a raggiungere il maggior numero di persone (e quindi necessariamente priva di asperità idiosincratiche).

Un'altra scuola, questa volta di Chicago, si è interessata all'analisi dei modelli culturali degli emigrati negli Stati Uniti in termini di integrazione e assimilazione: l'approccio si rifà all'idea di una cultura statica, omogeneizzata che non implica nei suoi rapporti l'ibridazione.

Le correnti funzionaliste, pur con le divergenze dei casi singoli, si è avvicinata alla cultura come funzione di integrazione e di trasmissione delle norme, delle aspettative, dei ruoli e dei fini sociali. Evidente l'influsso durkheimiano, l'idea di cultura si lega al processo di socializzazione col quale la cultura viene trasmesso e reiterato.

Con l'affermarsi della fenomenologia in sociologia, si sviluppa quella corrente definita interazionismo simbolico, il cui studioso principale è G.H. Mead: secondo il sociologo americano attraverso l'interazione simbolica, ossia lo scambio di segni e significati mediante le pratiche comunicative, è alla base dello sviluppo del sé e dell'interiorizzazione dell'immaginario sociale (l'altro generalizzato), ossia l'insieme dei modelli che formano la cultura in una data società. Il vantaggio di un tale approccio sta nel riconoscere sia un'autonomia dell'individuo nell'interpretare i significati sia uno spazio dinamico dove la cultura viene ogni volta riformulata e condivisa attraverso le pratiche.

Sulla scia dell'interazionismo simbolico si sviluppa l'approccio costruttivista di Berger e Luckman e l'etnometodologia di Garfinkel, entrambi concordi nel sostenere la percezione del reale come una costruzione sociale. Specie nel primo caso, la cultura si identifica con tutte quelle pratiche che danno forma alla conoscenza: non esiste così una realtà oggettiva ma solo una realtà percepita riflesso della cultura di appartenenza.

Pierre Bourdieu riprende l'approccio critico per sottolineare come il rapporto tra capitale scolastico e consumi culturali siano in relazione all'origine sociale: i gusti culturali sono segni distintivi di una classe, la quale esprime una visione del mondo e modelli culturali inconsci (habitus) che informano la distinzione sociale. La novità rispetto a Marx è che l'elemento culturale non è più una sovrastruttura, ma parte integrante della struttura. Tale visione ricorda in qualche modo gli interessi ideali di Weber e le sue analisi sul ceto: secondo il sociologo tedesco, tuttavia, la distinzione in base al prestigio legato allo status di una posizione sociale (il ceto), espresso in un'etica e in un'estetica specifiche, non si sovrappone necessariamente alla posizione economica come in Bourdieu.

Gli sviluppi più recenti della sociologia in relazione alle trasformazioni sociali degli ultimi decenni si concentrano su due concetti fondamentali: globalizzazione e post-modernità.
Come in antropologia, la cultura viene concepita come una rete di significati continuamente riformulata dalle interazioni e dalle pratiche sociali. Ulf Hannerz parla di social networks come momento culturale fondamentale della contemporaneità: il punto centrale di questo approccio, come di altri (quali Robertson e Castells), è il rifiuto sia della visione critica dell'imperialismo culturale (dove gli effetti della globalizzazione culturale ricadono a cascata nei vari contesti locali omologandoli) sia della visione, spesso normativa, del particolarismo (che vede nel sorgere di specificità culturali una forma di reazione agli effetti di una cultura mondiale).

Sempre più spazio, infatti, prende l'idea che gli effetti del villaggio globale di McLuhan si inseriscano e si contamino con le specificità culturali locali: gli effetti così sono di una interdipendenza culturale dove i modelli si confrontano, si mischiano e si formano attraverso l'ibridazione (glocalisation). Così oggi ci ritroviamo a parlare di film orientali premiati a Cannes, di festival africani in Burkina Faso con la trasmissione fuori serie del film “L'ultimo re di Scozia” o ancora dei diversi usi che internet ha conosciuto in India o in Corea o in altre parti del mondo.

Altro elemento di dibattito riguarda la convivenza di culture differenti all'interno degli stati nazionali e del sistema mondo: da una parte l'approccio del multiculturalismo sottolinea la presenza di diverse culture dai confini labili e fra loro permeabili; dall'altro, l'approccio del relativismo che sottolinea l'incommensurabilità delle culture che rimangono così universi separati e fra loro non comunicanti.

Un altro approccio recente si concentra invece sull'essenza della cultura nella post-modernità: tra gli autori più attenti a questo tema vi è Zygmunt Bauman, il quale critica la cultura contemporanea come schiava del consumo e dell'immagine. Altri approcci che si richiamano a questo tipo di analisi sono gli studi altrettanto noti di Appadurai, il quale sottolinea il ruolo delle informazioni, e di Jean Baudrillard, che si concentra soprattutto sul valore delle immagini.