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I disastri ambientali sui media: il caso delle petroliere (1976-2001)

Stefano Origlia

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Parlando di informazione su carta stampata, ho soltanto una certezza: nessuno può indicare ai quotidiani cosa devono pubblicare, ma chiunque può mostrare cosa essi non dicono e di conseguenza cosa potrebbero dire.
Ho da sempre riservato molta attenzione alle “questioni ambientali”, soprattutto alla possibilità di fruire di quanto offerto dalla biosfera producendo su di essa un impatto sostenibile.
Conseguentemente ho sempre ritenuto l’osservazione delle terribili implicazioni ambientali, che hanno le attività antropiche, come il punto di partenza verso il progresso umano: il disastro ambientale o “human-made” è in un certo senso la spettacolarizzazione cerimoniale del mutamento puntiforme che, spesso inconsapevolmente, ciascuno impartisce all’ambiente inteso nella sua globalità.
Secondo la mia logica, questi terribili avvenimenti dovrebbero attualizzare le riflessioni della “scimmia nuda”, animale razionale, in merito all’ecosistema in cui è inserita.
In ambito ambientale i mezzi di comunicazione di massa hanno un potere spesso male indirizzato: fornire input erronei, imprecisi o non fornirne affatto significa produrre un giornalismo limitante e conservatore, che non amplia le prospettive e non riduce l'incertezza sul mondo, ma culla il lettore nella gabbia dorata delle proprie certezze e della propria inattività.
Contro ciò ho deciso di adottare rigore metodologico, interdisciplinarietà e una caustica ironia.