Il licenziamento disciplinare del pubblico dipendente
Il procedimento disciplinare: la pubblicità del codice di comportamento e la contestazione degli addebiti
In origine, il potere disciplinare nel pubblico impiego era ritenuto il simbolo negativo di un sistema di natura autoritaria, rigidamente organizzato con una struttura gerarchica.
Va ricordato che, prima della privatizzazione, il lavoro pubblico ed il lavoro privato, erano considerati, non solo non simili, ma anzi contrapposti, poiché il rapporto di lavoro pubblico nasceva da un atto di nomina, mentre quello privato iniziava con un contratto.
Innanzitutto, è opportuno evidenziare l’impostazione dottrinale secondo la quale il potere disciplinare si sviluppava come uno strumento nelle mani dell’imprenditore, usato per governare il rapporto di lavoro che si presentava pertanto come un corollario del potere direttivo a tutela dell’ordine aziendale e che veniva manifestato al fine di individuare i comportamenti integranti un illecito nonché stabilirne le relative sanzioni, al fine di garantire il corretto andamento dell’attività imprenditoriale.
Questo aspetto non deve far presumere che il potere disciplinare sancisca una qualche posizione di superiorità del datore di lavoro nella logica contrattuale ma semplicemente, che esso sia la rappresentazione della posizione gerarchica dell’imprenditore sull’organizzazione aziendale in base al vincolo contrattuale.
Si è ritenuto che la possibilità per l’imprenditore di sanzionare taluni inadempimenti è concessa a quest’ultimo in virtù del contratto di lavoro e viene per di più regolata da norme – contrattuali – che, pur presupponendo un principio di subordinazione, sono ispirate a logiche di eguaglianza e parità dei contraenti.
La legittimazione del potere disciplinare è stata così individuata nella tutela dell’organizzazione del lavoro, ove l’imprenditore ha una funzione di natura organizzativa che esercita per salvaguardare l’equilibrio dell’azienda, all’interno della logica contrattuale nonché al fine di coordinare la prestazione dei lavoratori nel soddisfacimento dei propri interessi.
In tal modo, il potere disciplinare viene legato al vincolo di subordinazione caratteristico della prestazione lavorativa e del suo corretto adempimento, tanto che esso si manifesta come sanzione degli inadempimenti contrattuali.
Sicché, mentre nell’ambito del rapporto di lavoro privato la subordinazione del lavoratore al datore di lavoro era ritenuta la conseguenza della collaborazione che il lavoratore forniva in cambio della retribuzione, in osservanza però di un contratto stipulato nel rispetto di principi di parità e di uguaglianza, nel lavoro pubblico, invece, il rapporto poteva manifestarsi in un contesto autoritario, rigidamente gerarchizzato, per cui il pubblico dipendente veniva a trovarsi in stato di soggezione, poiché l’ente pubblico esercitava nei di lui confronti una “supremazia speciale”.
In questo contesto si collocava il potere disciplinare della Pubblica Amministrazione, quale strumento per assicurare l’esercizio e il soddisfacimento pieno e concreto della funzione pubblica.
Con la privatizzazione del pubblico impiego, anche il fondamento giuridico della potestà disciplinare era destinato a svilupparsi attraverso un travagliato iter dottrinale, ritenendosi, infine, che la potestà disciplinare si realizzasse nel pubblico impiego, così come nel privato, nel potere di porre regole, che in caso di inosservanza avrebbero comportato l’irrogazione di sanzioni, a salvaguardia del funzionamento dell’organizzazione del lavoro, sia nella Pubblica Amministrazione, sia nell’ambito dell’esercizio dell’attività di privata impresa. Si è passati alla considerazione circa il fatto che il potere disciplinare è esercitabile, da parte del datore di lavoro, soltanto in virtù di espressa previsione e garanzia di legge e di accordi collettivi, nei limiti quindi di previsioni espressamente sancite e riconosciute.
Prima della c.d. privatizzazione del pubblico impiego, il rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni era regolato unicamente dalla legge e da atti amministrativi. Esso non nasceva con un contratto di lavoro, ma con un provvedimento unilaterale di nomina. Di qui emergeva già quindi il rapporto non paritario tra datore di lavoro e impiegato, in un’ottica di subordinazione di quest’ultimo rispetto al primo.
Il rapporto era imperniato su una relazione di supremazia speciale dell'amministrazione rispetto ai suoi dipendenti. Il potere disciplinare si giustificava proprio sulla base del rapporto di supremazia del datore rispetto all’impiegato, e allo stesso tempo permetteva di legare le posizioni di autorità dell'amministrazione e di soggezione del dipendente.
In tale contesto, il potere in questione era direttamente finalizzato al raggiungimento dello scopo perseguito dall'amministrazione, e cioè la realizzazione degli interessi pubblici.
Successivamente alla c.d. privatizzazione del pubblico impiego si assiste invece ad una profonda rivisitazione del potere disciplinare, e ad un mutamento del suo stesso fondamento giuridico.
Il rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione non si instaura più, come in passato, per mezzo di un atto amministrativo unilaterale, ma tramite un contratto individuale di lavoro, governato da maggiori garanzie e tutele nei confronti del dipendente.
La sottoposizione del rapporto di pubblico impiego alla disciplina dettata dalle norme del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato dell'impresa, ex art. 2, co. 2, d.lgs. n. 165 del 2001, e la regolazione dello stesso rapporto ad opera del contratto, individuale e collettivo, ex art. 2, co. 3, d.lgs. n. 165 del 2001, ha comportato una profonda rivisitazione della natura giuridica dell'intero rapporto, da pubblicistico-amministrativa a privatistico-contrattuale. Se la materia delle sanzioni e delle condotte sanzionate va analizzata tenendo in particolare considerazione il fondamento contrattuale del potere disciplinare, le regole sul procedimento devono essere esaminate in stretta connessione con la questione della finalità del potere stesso.
Il procedimento disciplinare consiste nell'iter che il datore di lavoro deve seguire per approdare alla decisione di irrogare o meno una sanzione all’impiegato che si sia reso inadempiente ai suoi obblighi contrattuali.
In origine il procedimento disciplinare era disciplinato dallo Statuto dei Lavoratori che ha costituito il primo e importante riferimento normativo, che successivamente, con il tempo, è stato oggetto di importanti interventi riformatori.
La funzione del procedimento disciplinare è innanzitutto quella di fornire garanzie e tutele all’impiegato da un uso arbitrario del potere del datore di lavoro.
Indirettamente però il procedimento è un complesso di regole e garanzie funzionali anche al datore, in quanto gli consente di applicare, alla luce di un bilanciamento di interessi, la tipologia di sanzione eventualmente ed opportunamente individuata tra quelle astrattamente previste dalla legge.
Se si ritiene che la funzione della potestas disciplinare del datore di lavoro pubblico sia quella di «consentire l'autotutela datoriale, al fine di salvaguardare con uno strumento rapido il buon funzionamento dell'organizzazione e la disciplina del lavoro», il procedimento disciplinare deve essere valutato e inteso quale strumento celere predisposto al fine di garantire l’attuazione dell’esercizio della funzione pubblica, unitamente alla necessità di affermare le garanzie e le tutele di cui è titolare il lavoratore, al fine di tutelarlo da eventuali abusi da parte del datore di lavoro.
Queste esigenze di difesa del lavoratore nel procedimento non sono venute meno con la riforma del 2009; anzi, per certi versi si sono rafforzate, per via della individuazione di termini perentori che caratterizzano l’iter procedurale, ai sensi degli art. 55 bis, co. 2, ultimo periodo, e co. 4, ultimo periodo: la violazione di uno qualsiasi dei termini previsti dal legislatore (per la contestazione, per l'instaurazione del contraddittorio, per la conclusione del procedimento con l'archiviazione o con l'irrogazione del provvedimento disciplinare) «comporta, per l'amministrazione, la decadenza dall'azione disciplinare ovvero, per il dipendente, dall'esercizio del diritto di difesa».
Il procedimento disciplinare ha subito negli anni delle modifiche normative: nel 2009 con il citato d. lgs. n.150/2009, e successivamente con la legge 124/2015 (Legge Madia), che ha previsto all’art. 17 comma 1, la lettera s) “l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate a rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare”.
Dopo la diffusione della legge delega n. 124/2015, si sono susseguite una serie di manifestazioni di assenteismo nelle pubbliche amministrazioni, che hanno altresì avuto anche un grande impatto mediatico, e hanno dunque spinto il Governo ad emanare il d.lgs. 116/2016, con una evidente valenza anticipatoria, rispetto all’attuazione più ampia e completa della delega.
In particolare, l’articolo 1 del d.lgs. n. 116/2016 ha comportato delle rilevanti modifiche all’art. 55 quater del d.lgs, n. 165/2001.
Nello specifico, viene individuata in maniera più dettagliata e ampliata la portata della fattispecie disciplinare prevista dall’articolo 55-quater, comma 1, lettera a), del d.lgs 165/2001 (“falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente”), proprio per evidenziare e rendere ancor più rilevanti in sede disciplinare i comportamenti commissivi ed omissivi di coloro che in qualche modo abbiano contribuito a facilitare i comportamenti truffaldini di altri. Nello specifico, si prevede che costituisca falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere dal dipendente, anche con la collaborazione di terzi, per far risultare lo stesso in servizio o per trarre in inganno l’amministrazione circa il rispetto dell’orario di lavoro.
La fattispecie in esame costituisce una delle più vistose violazioni ai principi e alle disposizioni riconducibili al Codice di comportamento dei pubblici dipendenti.
Il codice disciplinare, come è noto, è il documento predisposto dal datore di lavoro in cui è contenuta la normativa disciplinare applicabile ai suoi dipendenti. Si tratta di un documento che riveste un ruolo molto importante in quanto si presta ad orientare i comportamenti e le condotte dei dipendenti e dei funzionari delle Pubbliche Amministrazioni per favorire maggiormente la cura e la realizzazione dell’interesse pubblico.
Come è evidente, l'introduzione, all'interno della disciplina del lavoro nella pubblica amministrazione, di una disposizione sui codici di comportamento è avvenuta con il d.lgs. n. 546 del 1993, che aveva inserito, nell'originario d.lgs. n. 29 del 1993, l'art. 58 bis. Tale norma, modificata dal d.lgs. n. 80 del 1998, è poi confluita nell'art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001.
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Il licenziamento disciplinare del pubblico dipendente
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Informazioni tesi
Autore: | Serena Cerrone |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2021-22 |
Università: | Università degli Studi di Cassino |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Scienze dei servizi giuridici |
Relatore: | Antonio Riccio |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 115 |
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