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Introduzione 
 
 
Essere assistente sociale è sicuramente un lavoro complesso e 
faticoso, forse non dal punto di vista dell’impegno fisico richiesto, ma 
in quanto l’operatore deve misurarsi quotidianamente con la 
sofferenza umana, nelle diverse forme che essa può assumere: 
individui che si muovono ai confini della marginalità, sofferenza 
psichica, nuove e vecchie povertà, disagio minorile, 
tossicodipendenze, e chissà cos’altro. 
E come se tutto questo non fosse sufficiente, la riorganizzazione 
dell’intero sistema di welfare rende sempre più difficoltoso il 
reperimento di risorse per affrontare le diverse problematiche che 
vedono coinvolto l’assistente sociale. Si tratta di un quadro 
sicuramente non esaltante, quindi la domanda che sorge spontanea è la 
seguente: per quale motivo un operatore, costretto a navigare a vista in 
questo mare di difficoltà, con il rischio sempre presente di naufragare, 
come professionista e come persona, dovrebbe concedersi il lusso di 
sorridere per una battuta? 
Nonostante le difficoltà, a mio giudizio, un motivo c’è, perché ridere 
(o sorridere) fa sicuramente bene.
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La risata è il seme dal quale nasce il ragionevole dubbio, e 
quest’ultimo è strumento di conoscenza, in quanto dal dubbio nasce la 
ricerca per una risposta nuova a vecchie domande. Tramite il sorriso, 
l’uomo può liberarsi dalla schiavitù di un’idea, e rifiutare il fascino 
seducente di ideologie che non ammettono nulla fuorché se stesse. 
Rido di me stesso e dei fantasmi che porto dentro. 
L’ironia, allora, non si riduce a mero strumento di offesa nei confronti 
del mio avversario, coincide, anzi, con un percorso di conoscenza, 
come già Socrate aveva intuito. L’ironia socratica, infatti, trae la sua 
forza dal dubbio, e quest’ultimo è diffusivo di sé, costringendo gli altri 
a interrogarsi ed a superare la sicurezza ingannevole delle false 
evidenze. Tramite l’ironia, l’uomo, intorpidito ed appagato, riprende il 
proprio cammino di conoscenza. 
Inoltre, l’umorismo non è solo l’arte di far ridere, piuttosto 
rappresenta il momento di sintesi tra concetti solo apparentemente 
antitetici: gioia e dolore, saggezza e follia, vita e morte. La risata non 
è l’esito di una battuta fine a se stessa, ma può rappresentare il mezzo 
per scaricare parte di quell’aggressività presente in ognuno di noi, 
eredità latente di un retaggio animale. Questo meccanismo di scarica 
ci rende un po’ migliori, e capaci di maggior comprensione nei 
confronti degli altri.
iii 
Scopo di questa tesi, è allora quello di verificare se esista la possibilità 
di sistematizzare le conoscenze relative a ironia e umorismo, per 
collocarle nel sapere dell’assistente sociale, e di trovare conferme (o 
meno) a quest’ipotesi, andando a sentire chi opera sul campo. 
È necessaria a questo punto una prima precisazione: ironia e 
umorismo sono parte dell’individuo, forse scritti nel suo patrimonio 
genetico, non sarà pertanto stimolabile o utilizzabile qualcosa che 
nella persona manca. In altre parole, la capacità ironica ed il senso 
dell'umorismo sono tratti del carattere, che possono essere più o meno 
presenti nell’individuo. Ma, anche là dove questi ultimi mancassero, la 
riflessione che svilupperò nelle prossime pagine può rivelarsi utile, 
magari per stimolare potenzialità latenti, oppure per meglio 
comprendere chi sia dotato (e usi) questi “doni”. Nel caso, invece, di 
un operatore con senso dell’umorismo e capacità ironica, allora 
l’impiego di questi ultimi, all’interno della relazione d’aiuto, sarebbe 
non solo auspicabile, ma anche prevedibile. 
Il tentativo di introdurre con consapevolezza l’uso di ironia e 
umorismo all’interno della relazione con l’utenza, suggerisce un 
cambio di prospettiva, per quanto riguarda il modo di vivere ed 
interpretare quest’ultima. È necessario, infatti, superare l’imbarazzo 
prodotto dalla difficoltà di ridere sull’utente, elemento centrale del 
nostro lavoro e tramite attraverso il quale l’operatore risponde ad un
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suo bisogno di riparazione e cura. L’utente non deve essere, quindi, un 
santuario intoccabile, muta rappresentazione di desideri e bisogni 
troppo poco esplicitati, piuttosto l’operazione che l’assistente sociale è 
chiamato a fare, sarà quella di collocare l’utente nel mondo reale, così 
da saperne valutare bisogni, sofferenze ed aspettative. Per superare 
questa dimensione simbolica e limitante della relazione con l’altro, 
ironia e umorismo assumono una loro dignità di strumenti, poiché è 
tramite la prima che l’operatore può sorpassare una lettura stereotipata 
e connotata ideologicamente dell’utenza. Inoltre, grazie all’umorismo 
ed alla risata, la relazione può essere umanizzata, superando 
quell’aspetto di depersonalizzazione del cliente che, a volte, 
caratterizza il lavoro dell’assistente sociale, distratto da mille impegni 
ed emotivamente sotto pressione. 
In diverse pagine di questa tesi, affianco ironia e umorismo come se si 
trattasse di concetti intercambiabili, ma le cose non stanno così, anche 
se si rivela estremamente complesso stabilire se siano una 
sovraordinata all’altro, oppure elementi a se stanti. Quindi, là dove è 
stato possibile, ho cercato di sviluppare separatamente i concetti di 
ironia e umorismo, in rapporto alla relazione d’aiuto; in altre parti, 
dove è mancata tale opportunità (penso soprattutto all’interno delle 
interviste), ho comunque cercato di far emergere gli aspetti non
v 
condivisibili, così da lasciar trasparire differenze ed elementi di 
contrasto. 
Fatta questa utile precisazione ai fini della riflessione che segue, 
proseguo delineando la struttura di questa tesi. La prima parte (cap. 1, 
2 e 3) costituisce l’impianto teorico, sulla base del quale verranno poi 
individuati gli spazi della relazione, all’interno dei quali sia possibile 
inserire elementi di umorismo e ironia. Nel capitolo 1, ho identificato 
ed esplicitato gli aspetti portanti della relazione, sottolineando 
l’importanza della comunicazione, come tramite attraverso cui è 
possibile stabilire un rapporto efficace con l’utenza. L’ultimo 
paragrafo dello stesso capitolo è dedicato all’importante questione del 
potere (sull’utenza), ed alle ripercussione che questo può avere nel 
lavoro dell’assistente sociale. 
I due capitoli successivi prendono in esame ironia e umorismo, 
cercando di esplicitarne la funzione comunicativa, così come i risvolti 
psicologici; l’ultimo paragrafo, per entrambi i capitoli, contiene alcune 
riflessioni sulla possibilità di utilizzare con consapevolezza ironia e 
umorismo all’interno della relazione d’aiuto, cercando di mettere in 
luce rischi e vantaggi che l’adottare un tale atteggiamento comporta. 
Infine, l’ultimo capitolo è una sorta di indagine sul campo, che ha per 
protagonisti alcuni assistenti sociali inseriti in servizi diversi, per 
esaminare quali siano le loro opinioni sull’argomento in questione, ma
vi 
anche per valutare, là dove fosse presente, quali ripercussioni eserciti 
sugli operatori un loro atteggiamento ironico e divertito.
1 
Capitolo 1 La relazione d’aiuto nel servizio sociale 
 
 
La relazione come una fiaba 
 
La fiaba, dicono, appartiene al mondo del non serio, come l‟ironia ed 
il comico; in fondo, le storie si raccontano ai bambini, mentre gli 
adulti dicono: ”Non raccontarmi favole”, confondendo così la storia 
con la bugia. Non esiste una via privilegiata capace di condurre alla 
saggezza, così come il serio non è sinonimo di verità. 
Per questo motivo la fiaba dovrebbe rappresentare un riferimento 
costante per l‟assistente sociale, “le fiabe non pretendono di descrivere 
il mondo così com‟è, né consigliano sul da farsi” (Sardelli, 1995). La 
storia si dimostra terapeutica in quanto non ha il valore di prescrizione 
per chi l‟ascolta, piuttosto, rappresentando per metafore la situazione 
della persona, lo invita a riflettere sulla propria condizione ed a 
ricercare soluzioni. 
La relazione d‟aiuto deve allora avere la consistenza di una fiaba: non 
spazio di prescrizioni, ma luogo protetto all‟interno del quale l‟utente 
sia messo nelle condizioni di ricercare soluzioni alla propria 
condizione di disagio. Ed in questa atmosfera non seria, ironia e 
comico hanno sicuramente diritto di cittadinanza.
2 
Il significato della relazione 
 
Fondamentale nel servizio sociale è la relazione d‟aiuto, che possiamo 
definire come: 
 
la costruzione di una interazione tra due persone, l‟utente e l‟operatore, 
aventi pari dignità, che collaborano per la soluzione di un problema: l‟uno, 
l‟utente, è il soggetto portatore del disagio; l‟altro, l‟operatore, è la persona 
che, per la sua competenza di ruolo, possiede gli strumenti indispensabili a 
costruire un progetto di lavoro comune. Il processo di cambiamento 
richiede il contributo attivo e partecipato di entrambi (Zini/Miodini, 1997). 
 
Il servizio sociale coglie l‟uomo nella sua globalità, in rapporto con 
l‟ambiente in cui vive, avvalendosi di una sintesi delle conoscenze e 
discipline che si occupano dell‟uomo e del suo contesto. 
Perché un relazione possa concretizzarsi occorrono diversi elementi: 
a. i soggetti; 
b. un luogo; 
c. il tempo, la relazione d‟aiuto, ad un certo punto, deve avere 
termine; 
d. l‟intenzionalità, entrambi i soggetti cioè devono essere 
consapevoli di ciò che si sta svolgendo, che si sta facendo insieme. 
L‟obiettivo deve essere ben dichiarato; 
e. l‟empatia, cioè il tentativo di riprodurre in proprio i sentimenti 
altrui, al fine di comprendere l‟altra persona. L‟empatia è passare 
da se stessi ad un altro per sentire in profondità e accogliere
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l‟essenza del momento che l‟utente vive. È infatti motivante, per il 
cliente, essere riconosciuto dall‟operatore per quello che realmente 
è. 
f. il calore umano, la relazione, cioè, deve assumere un‟intensità 
emozionale, una sorta di vitalità; 
g. l‟accettazione, significa prendere la persona così com‟è, capire che 
il suo modo di agire e di essere sono il prodotto di tutto ciò che ha 
conosciuto e che raramente essi sono intenzionali. L‟accettazione 
non è da intendere in termini di “amore” (dio protegga l‟operatore 
che ama il suo utente), ma di riconoscimento della personalità del 
cliente, con le sue differenze, al fine di aiutarlo a ricollocare la 
propria personalità all‟interno di un meccanismo costruttivo, senza 
esprimere giudizi e critiche. 
La relazione d‟aiuto si contestualizza fondamentalmente nel colloquio, 
si identifica cioè con il flusso di comunicazione tra persone, non nella 
forma di una conversazione tra buoni amici, piuttosto in un dialogo 
speciale dove si incontrano ruoli precisi e diversi, ma entrambi attivi, 
e dove si trovano regole definite dal contesto in cui avviene il 
colloquio stesso. 
La costruzione della relazione attraverso il colloquio deve avvenire da 
parte dell‟operatore in conformità ad una metodologia ben precisa, 
perché in mancanza di questa e seguendo unicamente il buon senso e