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IL POTERE DISCIPLINARE DEL DATORE DI LAVORO: AMBITO 
APPLICATIVO E SUOI LIMITI 
In origine, le parti di un rapporto di lavoro disponevano di piena libertà nel 
costituire, disciplinare e sciogliere il rapporto stesso. 
L’unico limite all’autonomia privata era contenuto nell’art. 1628 del Cod. 
civ. del 1865, in base al quale “nessuno poteva porsi all’altrui servizio se 
non a tempo o per una determinata impresa”. 
Il Codice Civile del 1865 pensò a tutelare la temporaneità del rapporto e 
non la sua continuità. 
 
Il riconoscimento del potere disciplinare nell’ambito del rapporto di lavoro 
sembra ci fosse già nei primi anni del 1900, viste le numerose decisioni dei 
Collegi dei probiviri che fanno riferimento a “sanzioni disciplinari”, 
previste ed applicate in virtù del riconoscimento del diritto di tutela 
dell’imprenditore avverso le negligenze e le colpe dei dipendenti. 
Il primo accenno legislativo alla “sanzione disciplinare” pare individuabile 
nell’art. 9 della legge N. 562/1926, il quale prevedeva la perdita del 
preavviso e dell’indennità d’anzianità qualora “fosse intervenuta una 
mancanza così grave da non consentire la prosecuzione del rapporto”. Si 
trattava in ogni modo di una normativa che si riferiva ad entrambe le parti, 
lontana dalla tipizzazione della sanzione disciplinare. 
Ulteriore fonte legislativa può essere l’art. 8 del R.D. n. 1251/1928, il quale 
prevedeva il rifiuto della pubblicazione dei contratti collettivi non recanti 
norme in materia disciplinare. Una enunciazione più precisa, ma ancora 
insufficiente, è nella XIX dichiarazione della Carta del lavoro dove si 
faceva cenno al principio della proporzionalità e si aveva un’elencazione 
sommaria delle possibili pene. 
 
Diverso fu il contesto in cui si inserì il Codice Civile del 1942, che con 
l’art. 2118, stabiliva che “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto 
di lavoro a tempo indeterminato” senza fornire alcuna motivazione. 
Venne cos’ introdotta l’ipotesi di licenziamento ad nutum, che implicava 
come unico vincolo per la parte recedente quello di dare regolare preavviso 
alla controparte, salvo che in caso di giusta causa. 
La previsione della figura del recesso ad nutum si giustificava con l’intento 
di garantire, da un lato, la libertà individuale delle parti rispetto ai vincoli 
contrattuali a tempo indeterminato e, dall’altro, l’uguaglianza tra le parti
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stesse, ponendole in una posizione di reciprocità rispetto alla cessazione del 
rapporto. 
L’evoluzione della disciplina si è realizzata dopo l’avvento della Carta 
costituzionale. 
Con essa l’ostilità, specie nella dottrina, nei confronti della concezione 
recepita dal codice civile generò l’auspicio che in via interpretativa, 
attraverso una valorizzazione degli artt. 41, 2° comma e 4 Cost. ovvero 
tramite l’art. 1345 c.c. sul motivo illecito, oppure de jure condendo, si 
affermasse un generale divieto dei licenziamenti immotivati.  
Al parziale superamento dell’art. 2118 c.c., pur dichiarato 
costituzionalmente legittimo dalla Corte costituzionale si diede avvio in 
sede sindacale (Corte cost. 09/06/1965). 
Allo scadere del blocco dei licenziamenti, disposto nell’immediato 
dopoguerra, un accordo interconfederale del 1947 introdusse alcune 
limitazioni al potere di licenziamento nel settore dell’industria. 
L’importanza di tale accordo sta nell’aver previsto limitazioni al potere 
insindacabile del datore di lavoro di recedere dal rapporto a tempo 
indeterminato. 
Tale orientamento fu poi avallato dalla stessa Corte costituzionale che con 
la sentenza N. 45/1965 dichiarò costituzionalmente legittimo l’art. 2118 
c.c., statuendo che il potere di recesso del datore di lavoro non costituisce 
più un principio generale del nostro ordinamento, essendo l’art. 2118 c.c. 
stato progressivamente ristretto nella sua sfera di efficacia sia da 
provvedimenti legislativi (L. 09/01/1963 n° 7). 
 
Ma lo stesso codice civile non sembra contenere una disciplina organica del 
potere disciplinare, poiché lo presuppone e non lo regola nel disposto di cui 
all’art. 2106 c.c. 
Tale articolo individua nella violazione delle disposizioni che concernono 
gli obblighi di diligenza, fedeltà, ecc. di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., i 
comportamenti da cui possono discendere l’applicazione di sanzioni 
disciplinari. 
 
Un interessante scontro, sempre a proposito del fondamento del potere 
disciplinare, ha visto protagonisti i fautori delle “teorie istituzionali” in 
contrapposizione ai sostenitori delle “teorie contrattualistiche”. Mentre i 
primi vedono nell’inserimento del prestatore di lavoro all’interno della 
realtà aziendale un sostanziale assoggettamento di quest’ultimo alle 
esigenze proprie dell’istituzione, i secondi ritengono, invece, che dovevano 
considerarsi irrilevanti tutti gli obblighi aventi funzione essenziale di 
assicurare l’organizzazione e il funzionamento dell’azienda, in quanto
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possono assumere rilievo solo se riconducibili alle obbligazioni derivanti 
dal contratto. 
 
Il permanere del potere disciplinare, nonostante la prevalenza delle teorie 
contrattualistiche, è il presupposto per un collegamento preciso fra tale 
potere e interessi neutri e collettivi. Se così non fosse, il lavoratore 
verrebbe a trovarsi in una condizione di “soggezione” che non può essere 
coerente rispetto alla logica del contratto, avente una struttura egualitaria. 
Nel moderno Stato di diritto può tollerarsi solo una versione in chiave 
moderna di antiche situazioni di soggezione, riferendole a necessità 
strutturali di forme di organizzazione di determinate attività perseguenti 
interessi utili per la generalità dei consociati. 
E’ importante specificare che quando si parla del potere disciplinare come 
connotato indispensabile dell’impresa, quest’ultima va intesa come 
collettività organizzata che persegue fini anche neutri rispetto alle due parti 
che si fondano in essa. 
Il potere disciplinare deve quindi essere considerato indefettibile, senza che 
tale sia la titolarità e l’esercizio del potere per l’imprenditore. Infatti, era 
originariamente attribuito all’impresa il potere gerarchico e disciplinare, 
con la conseguenza che il suo esercizio competeva all’imprenditore. 
Successivamente, la legislazione del lavoro è intervenuta in materia 
disciplinare con limitazione all’originario potere dell’imprenditore. 
L’attribuzione che il legislatore dà all’imprenditore (art. 2082 c.c.) del 
potere direttivo, organizzativo e gerarchico, si rende necessaria perché 
l’imprenditore possa esercitare al meglio l’attività economica nella quale ha 
deciso di impegnarsi. 
Il potere disciplinare costituisce il corollario necessario al corretto esercizio 
dei predetti poteri, poiché permette di sanzionare quei comportamenti 
incompatibili od ostativi rispetto al raggiungimento degli scopi propri 
dell’impresa. 
Il potere disciplinare può riconoscersi come rispondente al principio di 
eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, quando è finalizzato ad 
esigenze ineliminabili e non altrimenti tutelabili dell’impresa, mentre non 
lo è se si presenta come strumento di preminenza di una parte sull’altra. 
 
 
In realtà questa diatriba era infondata, in quanto il contratto di lavoro 
recepiva in pieno le esigenze e la struttura dell’azienda ipotizzate dal 
codice civile, fondata sul riconoscimento di una posizione di preminenza 
del datore di lavoro rispetto al prestatore stesso. 
Va precisato che la condizione di inferiorità del prestatore deve sempre 
essere inquadrata in un’ottica di funzionalità, nel senso di prestazione
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finalizzata al raggiungimento degli scopi aziendali. Tanto è vero che questo 
assoggettamento non elimina la parità fra le parti, in quanto riferibile alla 
normale operatività del contratto di lavoro. 
La particolare natura del rapporto di lavoro ha fatto si che le prestazioni 
delle due parti contrapposte non avessero solo valore di corrispettivo verso 
l’altra parte, ma fossero anche influenzate dalle finalità della controparte 
che erano destinate a soddisfare. 
In quest’ottica, il potere disciplinare viene ad essere esclusivamente uno 
strumento necessario per la realizzazione delle finalità proprie sottese al 
rapporto di lavoro. 
La normativa inerente al potere disciplinare è rimasta sostanzialmente 
inalterata, riferibile al codice civile, fino all’emanazione dello Statuto dei 
lavoratori, che contiene all’art. 7 una normativa organica inerente 
all’esercizio del potere disciplinare. 
Le regole introdotte dallo Statuto dei lavoratori sono sostanzialmente 
garantiste e vanno dalla predisposizione del Codice disciplinare alla 
processualizzazione del relativo procedimento. 
Le interpretazioni date dalla dottrina alla nuova normativa sono state varie 
e di varia intensità. Da una parte si è affermato che la nuova legge avrebbe 
attenuato la posizione di preminenza dell’imprenditore, mentre altri 
sostenevano che avendo la legge posto l’accento sulla libertà del lavoratore 
si veniva a privilegiare il momento contrattualistico rispetto a quello 
istituzionale, proponendo nuovamente l’antica contrapposizione fra tesi 
contrattualistiche e istituzionalistiche. 
Alcune opinioni più radicali hanno visto nelle disposizioni dello Statuto la 
sottrazione del potere disciplinare dalle mani dell’imprenditore, per 
affidarlo ad altri soggetti, specificatamente la contrattazione collettiva per 
la predeterminazione della normativa disciplinare e le Commissioni 
paritetiche per la effettiva applicabilità delle sanzioni. 
 
Il potere disciplinare consta di tre diversi momenti, che sono esattamente 
riconducibili alla preventiva previsione delle infrazioni, all’indicazione 
delle possibili sanzioni e, infine, alla concreta applicazione del 
provvedimento disciplinare. 
I primi due momenti sono stati attribuiti dallo Statuto alla “contrattazione 
collettiva”, mentre il terzo momento sarebbe stato delegato ai Collegi di 
conciliazione e arbitrato, ovvero allo stesso giudice ordinario, secondo 
quanto sostenuto dalla tesi criticata. 
Da ciò si evince che il potere gerarchico attribuito all’imprenditore non 
presuppone l’esclusiva del potere sanzionatorio per lo stesso, in quanto
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l’imprenditore può essere spogliato di quest’ultimo potere attribuendolo ad 
un terzo (lo stesso vale per il procedimento di irrogazione della sanzione). 
Il problema principale è quello di individuare se la scelta di distogliere 
dall’imprenditore il provvedimento disciplinare sia stata attuata dallo 
Statuto (anche se in esso non risulta). 
La norma di cui all’art. 7 dello Statuto è modellata sul precedente art. 2106 
c.c., ove il legislatore faceva riferimento alla necessità di esercitare il 
potere disciplinare in modo conforme alle norme corporative, da cui 
discende che la differenza non è data dalla limitazione relativa all’obbligo 
di rispettare la contrattazione collettiva, ma dal fatto che il potere 
disciplinare deve essere preventivamente ed esplicitamente regolamentato. 
Ciò è necessario al fine di evitare che l’imprenditore possa determinare la 
norma in via successiva rispetto al fatto e, inoltre, per consentire al 
prestatore di lavoro di conoscere preventivamente il precetto, come avviene 
in materia penale. 
 
Il licenziamento disciplinare, costituisce il punto di forza del sistema di 
garanzie riconosciuto dall’ordinamento al prestatore di lavoro subordinato, 
è opportuno, pertanto, ripercorrere le tappe più indicative nella storia 
dell’istituto. 
Con la sentenza n. 204 del 1982 la Corte Costituzionale statuì l’illegittimità 
dei commi 1, 2, 3, dell’art. 7 L. 20 maggio n. 300, interpretati nel senso 
della loro inapplicabilità ai licenziamenti disciplinari. La ragione posta alla 
base di tale decisione è individuata in una consequenziale violazione 
dell’art. 3 Cost., poiché la norma censurata non offre le medesime garanzie 
di difesa, previste per le altre sanzioni disciplinari, nei confronti di quella 
più grave del licenziamento. 
L’indiscutibile effetto che tale decisione ha prodotto è stato il 
riconoscimento di un autonomo rilievo della fattispecie disciplinare sul 
piano normativo, anche se l’insufficienza della motivazione ha alimentato 
la disputa circa l’individuazione degli elementi costitutivi del 
licenziamento disciplinare. 
La Corte cost., infatti, non ha chiarito quale sia la nozione legale di 
licenziamento disciplinare, prima condizione da cui dipende l’applicabilità 
dei primi tre commi dell’art. 7 St. Lv. 
L’individuazione della nozione di licenziamento disciplinare non ha dato 
luogo a significativi problemi pratici per la sua rilevanza pressoché teorica. 
I problemi sono sorti successivamente, quando si è trattato di stabilire se la 
normativa di cui all’art. 7 Stat. Lav. dovesse o meno trovare applicazione 
nell’ipotesi di licenziamento disciplinare.
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Tale articolo, prevedendo una regolamentazione generale del potere 
disciplinare nell’ambito di un assetto legislativo che conteneva una analoga 
generale regolamentazione del licenziamento, pose il problema della sua 
applicabilità al licenziamento disciplinare stesso. 
 
La disputa sull’individuazione della nozione di licenziamento disciplinare, 
che ha fatto seguito alla sentenza n. 204/82, si fonda essenzialmente su due 
posizioni diverse: 
1) La c.d. tesi formalistica: secondo cui sarebbe disciplinare solo il 
licenziamento previsto dal codice aziendale; 
2) La tesi c.d. ontologica: secondo cui, anche in assenza di tale 
previsione, il licenziamento per colpa del lavoratore sarebbe 
comunque un provvedimento disciplinare. 
 
La Corte costituzionale ha in sostanza affermato che è sufficiente che il 
licenziamento sia qualificato come disciplinare dalla normativa legislativa, 
collettiva o validamente posta dal datore: ove ricorra quest’essenziale 
presupposto, l’escludere il recesso, già tipizzato quale sanzione, dalle 
garanzie apprestate dall’art. 7, secondo e terzo comma, solo perché la sua 
normativa non richiama l’art. 7, suona offesa all’art. 3 Cost., pur a 
prescindere dalla maggiore gravità del licenziamento rispetto alle altre 
misure disciplinari.  
Gli ulteriori passaggi si possono cogliere nella sentenza delle Sazioni Unite 
della Corte di Cassazione n. 4823 del giugno 1987 che ha riconosciuto 
natura “ontologica” al licenziamento disciplinare e, dunque, stabilito, 
richiamando la sent. 204/82 della Corte cost., che al licenziamento per 
colpa debbano applicarsi le garanzie procedimentali (art, 7, comma 2 e 3), 
indipendentemente dall’inclusione della normativa disciplinare di origine 
collettiva o predisposta dal datore. 
La sentenza, ha avuto l’ulteriore merito di chiarire i limiti applicativi del 1° 
comma dell’art. 7, anch’esso infatti menzionato nella sentenza della Corte 
cost. n. 204/82. 
Nella soluzione accolta dalla sentenza n. 4823/87, la predisposizione e 
pubblicità del codice disciplinare costituisce infatti una condizione di 
legittimità del licenziamento per motivi disciplinari soltanto se, in concreto, 
esso contempla proprio l’addebito contestato al lavoratore nella fattispecie 
prevista. 
Negli altri casi, nei quali il licenziamento disciplinare intimato per giusta 
causa o giustificato motivo soggettivo trova fonte direttamente nella legge, 
il comma art. 7 non è applicabile: una soluzione diversa avrebbe in effetti 
comportato un onere eccessivo a carico del datore di lavoro, tenuto a
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specificare minuziosamente nel codice disciplinare tutti i comportamenti 
suscettibili di dar causa al recesso. 
Il quadro giurisprudenziale, relativo alla fattispecie in esame, si è 
ulteriormente complicato con un nuovo intervento della Corte 
costituzionale che, con la sentenza n. 427 del 25 luglio 1989, capovolge, 
con una pronuncia interpretativa di accoglimento, il principio di diritto 
enunciato dalle S.U. della Cassazione secondo cui l’art. 7 non si applica 
sotto la soglia dei sedici dipendenti, cioè in quella che prima era l’area del 
libero recesso ad nutum. 
Le garanzie dell’art. 7, tutte e non solo quelle previste nel secondo e terzo 
comma, devono essere applicate al licenziamento disciplinare intimato 
nell’area del c.d. libero recesso ad nutum: “principio di civiltà giuridica” 
nonché l’esigenza di assicurare la “parità di trattamento” impongono, si 
legge nella sentenza n. 427/89, che siano assicurate al lavoratore le 
garanzie previste dall’art. 7 dello Statuto. 
La Corte, ha anche ribadito che è in gioco la perdita del posto di lavoro e la 
lesione della dignità professionale e personale: un licenziamento 
disciplinare intimato senza l’osservanza delle garanzie suddette può 
incidere sulla sfera morale e professionale del lavoratore e crea ostacoli ed 
impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che il licenziamento dovrà, poi, 
necessariamente trovare. 
Di conseguenza le garanzie dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori devono 
essere riconosciute anche ai lavoratori di imprese con meno di sedici 
dipendenti e non possono essere omesse in alcun caso, e ciò a tutela del 
lavoratore. 
La sentenza n. 427 ha fatto scalpore, ma non ha concluso l’odissea dei 
licenziamenti disciplinari. 
La Cassazione si è adeguata prontamente al dettato della Corte 
costituzionale, ma si sono subito delineati nuovi conflitti, in particolare 
riguardanti la effettiva portata innovativa della nuova decisione della Corte. 
Non essendo più in discussione l’applicabilità dell’art. 7 dello Statuto dei 
Lavoratori al licenziamento disciplinare nella piccola impresa, il dibattito si 
è trasferito sul piano delle conseguenze derivanti dalla mancata osservanza 
delle garanzie procedurali sempre nella piccola impresa. 
 
Si sono delineate 2 opzioni alternative: 
1) la nullità del diritto comune, conseguente alla violazione di una 
norma imperativa, non assistita dalla “forza espansiva” dell’art. 18 L. 
n. 300/70; 
2) oppure, considerato che l’art. 1418 c.c. fa salvi i casi in cui la legge 
disponga diversamente, il licenziamento disciplinare intimato in