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Salvatore Bongi: L’ordinamento delle carte degli archivi italiani, Manuale storico-archivistico


Nel 1883 erano usciti 3 dei 4 volumi di un’opera che il passare del tempo non riuscirà a rendere irrimediabilmente datata; essa sarà infatti continuamente e ancora oggi riproposta come una delle opere più riuscite e importanti dell’archivistica italiana. L’aveva redatta un archivistica della scuola fiorentina, Salvatore Bongi. Questi si trovò a operare su un materiale non eccessivamente vasto nelle sue dimensioni quantitative, prodotto da magistrature e uffici di lunga durata e dall’attività sufficientemente lineare, per gran parte ben conservato nella sua sedimentazione originaria. La realtà documentaria lucchese era pertanto la più adatta come campo in cui sperimentare concretamente i generali criteri archivistici elaborati negli anni precedenti nell’ambito della soprintendenza toscana. L’organizzaizone-divisione data da Bongi alla documentazione lucchese era fondata su un concetto storico razionale secondo il quale come soleva ripetere Francesco Bonaini, ai singoli complessi documentari si da al posto che loro assegnano la materia e il tempo. Bongi, al termine della prefazione al primo volume della sua opera, afferma che gli era riuscito di gravissimo inconveniente la mancanza di modelli approvati. Non poteva prevedere che proprio quello da lui seguito sarebbe diventato un costante punto di riferimento per gli archivisti delle future generazioni. Si trattava però di un modello non facilmente esportabile; l’eredità documentaria della repubblica lucchese era, nel panorama archivistico italiano, un caso abbastanza eccezionale. Quella di altre città rinviava ad altre tradizioni conservative, oltre che a più complesse vicende storico istituzionali. Così altrove, ivi compresa Firenze che del Bongi può essere considerata la patria putativa non si pensò di ripetere l’opera da lui intrapresa. Ebbe invece, ma non immediata, fortuna il metodo con cui l’aveva affronatato. I seguaci e gli estimatori di quello che a livello di dottrina e di pratica è stato chiamato metodo storico, diventavano col tempo sempre più numerosi. Quando nel 1910 fu pubblicata l’opera dal titolo “L’ordinamento delle carte degli archivi italiani, Manuale storico-archivistico”, si vide che buon numero di archivi avevano seguito, sulle orme della tradizione toscana, partizioni storicocronologiche. L’opera è di impostazione e fattura diverse da quella pubblicata nel 1883, non è un prodotto di burocrati per politici, ma di archivisti per archivisti (di qui il termine manuale); ma esso come osservava nella prefazione Pasquale Villari, che l’aveva patrocinato, poteva essere assai utile anche agli studiosi in genere. Il manuale intendeva fornire un panorama complessivo sulla distribuzione e l’ordinamento della documentazione conservata presso gli istituti archivistici attivi in quel periodo. Il criterio di fondo cui si è fatto ricorso è da ricondurre grosso modo entro due parametri classificatorio-organizzativi. Uno basato su distinzioni cronologiche scandite in modo differenziato a seconda delle vicende storico istituzionali che avevano interessato singole realtà documentarie; l’altro basato sulla ripartizione per sezioni, indicate dalla normativa allora in vigore. In nessuno dei due parametri classificatori entro i quali sono stati fatti rientrare 18 dei 19 istituti di cui si occupa il manuale, poteva essere collocato l’archivio di Milano. L’organizzazione che presentava quasi tutta la documentazione del periodo preunitario costituiva un caso del tutto particolare. Questa organizzazione, connessa a quella massiccia attività di ristrutturazione e rimaneggiamento cui era stata sottoposta la documentazione dell’archivio milanese tra gli ultimi decenni del 700 e i primi dell’800, aveva portato a un risultato che ora veniva considerato la massima
confusine che sia mai stata verificata in materia archivistica (ma proprio in quel periodo si andava delineando all’interno dell’istituto milanese un mutamento di fondo del lavoro dell’archivio). Le sezioni in cui tale documentazione risultava ripartita non avevano pertanto niente in comune, se non il nome, con quelle che venivano chiamate, nella medesima opera, e 4 divisioni tipiche degli archivi di stato italiani.

Tratto da GLI ARCHIVI TRA PASSATO E PRESENTE di Alessia Muliere
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