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Letterarietà e pregiudizio


Dato che non esistono elementi linguistici esclusivamente letterari, la letteratura non può distinguere un uso letterario da un uso non letterario del linguaggio. Questo malinteso deriva in buona parte dal nuovo nome che Jakobson ha dato alla letterarietà nel fortunatissimo articolo Linguistica e poetica. Per Jakobson la poetica era, in quell’articolo, una delle sei funzioni, da lui stesso distinte, dell’atto comunicativo (oltre all’espressiva, conativa, referenziale, metalinguistica e fatica), come se la letteratura (cioè il testo poetico) abolisse le altre cinque funzioni per insistere solo sul messaggio in sé.
In realtà il russo precisava che le altre funzioni non venivano proprio eliminate, solo, erano di minore rilievo rispetto a quella poetica. A partire dal 1919, scriveva però che
- in poesia la funzione comunicativa è ridotta al minimo.
- la poesia è il linguaggio nella sua funzione estetica.
In realtà la letterarietà (dunque lo straniamento) non dipende dall’uso di elementi linguistici appropriati, ma da una diversa organizzazione dei materiali linguistici di uso comune. Non è, ad esempio, la metafora in sé a costruire la letterarietà di un testo, ma un reticolo metaforico più fitto, che fa passare in secondo piano le altre funzioni linguistiche. In breve, la letterarietà non è questione di presenza o di assenza, né di tutto o di niente, ma di più e di meno: per il lettore è il dosaggio a produrre interesse.
Allora siamo giunti alla conclusione? No, sfortunatamente no. Anche questo assunto è confutabile. Certi testi letterari, ad esempio, non si allontanano dal linguaggio comune (vedi la prosa di Hemingway o di Camus). Bene, si dirà, possiamo però affermare che la mancanza di contrassegno è di per sé un contrassegno; che il massimo della familiarità corrisponde al massimo dello straniamento. Non vale. Ciò perché la definizione di letterarietà in senso stretto (i suoi tratti specifici) o ampio (la sua organizzazione specifica) vengono comunque contraddetti. Del resto i tratti considerati più letterari si incontrano anche in un linguaggio non letterario, ed è spesso lì che divengono più visibili, più densi, come accade nella pubblicità.
Allora possiamo dire che è la pubblicità l’apice della letterarietà? Non è accettabile nemmeno questo.
l problema è che i formalisti russi hanno analizzato solo un tipo di letteratura, quella che consideravano d’avanguardia, oscura, straniante. Allora la letterarietà come tentativo di definizione della letteratura non è altro che la definizione di quella che una volta si chiamava licenza poetica!
Certo, non possiamo escludere che Jakobson, quando descriveva la funzione poetica come accento sul messaggio, non avesse pensato solo alla forma del messaggio ma anche al suo contenuto. E a pensarci bene, deve essere necessariamente così, altrimenti la letteratura si ridurrebbe ad un gioco decorativo.
Il problema è che anche la trovata della letterarietà, come ogni definizione di letteratura, implica una preferenza extraletteraria. Un giudizio è inevitabilmente insito in qualsiasi definizione di letteratura.
Nel caso dei formalisti russi, si preferivano i testi che la loro nozione di letterarietà descriveva meglio. Non dimentichiamo che una definizione di letteratura è sempre un pregiudizio eretto a validità universale (nel nostro caso, lo straniamento). Succederà anche dopo, con lo strutturalismo in generale, la poetica, la narratologia, tutte ispirate dal formalismo, che porranno l’accento sulla deviazione e l’autocoscienza letteraria, contrapponendole alla convenzione e al realismo.
Genette infine riconoscerà che la letterarietà, secondo l’accezione di Jakobson, non copriva che una parte della letteratura, il suo regime costitutivo, ma non quello condizionale, e da lato della letteratura costitutiva, soltanto la dizione (la poesia) e non la finzione (narrativa o drammatica).l Rinunciando alla pretese del formalismo e dello strutturalismo, ne deduceva che la letterarietà poiché è un fatto plurale, esige una teoria pluralista. A complicare le cose si aggiunge, a partire dal XIX secolo, il campo vasto e impreciso della prosa non fizionale, condizionatamente letteraria e annessa o meno alla letteratura a seconda dei gusti individuali o delle mode collettive. Concludeva dunque Genette che era meglio, almeno provvisoriamente, attribuire a ciascuna teoria la sua parte di verità, ovvero una porzione del campo letterario. È una soluzione che sembra riscuotere successo; non esiste, infatti, l’essenza della letteratura, che è una realtà complessa, eterogenea e mutevole.

Tratto da TEORIA DELLA LETTERATURA di Gherardo Fabretti
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