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Gerarchia delle fonti del diritto

Nel nostro ordinamento esiste un criterio di Gerarchia delle fonti del diritto, nel senso che abbiamo delle fonti che operano su livelli gerarchicamente differenti.

COSTITUZIONE E LEGGI COSTITUZIONALI
Norme secondarie, regolamenti
Legge ordinaria, decreto legge, decreto legislativo
Diritto comunitario

Le leggi costituzionali non sono contenute all’interno dei 139 articoli della Costituzione, ma sono delle leggi che hanno la stessa rilevanza dal punto di vista gerarchico della Costituzione che vengono adottate con una procedura aggravata e gerarchicamente sono allo stesso livello perché sono norme di pari rango. Per fare un esempio concreto, il lodo Alfano introduceva un principio che era in violazione dell’art. 3 e con l’art 138 della Costituzione (l’art.138 è quello che prevede la procedura aggravata per adottare leggi costituzionali). Il lodo Alfano incide su una norma costituzionale e può essere adottato non con legge ordinaria ma con legge costituzionale.
Sinora eravamo abituati a trovare subito dopo la Costituzione, la legge ordinaria, adottata secondo lo schema classico in via parlamentare oppure gli atti aventi forza di legge che sono i decreti legge, che si adottano in casi di necessità e urgenza, e i decreti legislativi che hanno una forma differente, non si applicano nei casi di necessità e urgenza ma quando una materia è molto tecnica, complessa. Il Parlamento delega al Governo il compito di disciplinare un intero settore, un’intera materia. Il Governo, attraverso i tecnici di riferimento, disciplinerà in conformità a quello che la legge delega prescrive (la legge delega definisce i principi generali) e adotterà il decreto legislativo.
Tutti i codici, il codice dell’ambiente (d.lgs.152/06), il codice della strada, il codice dei beni culturali sono decreti legislativi poiché riguardano materie tecniche.
Sinora sapevamo che tra Costituzione e legge ordinarie c’era un solo livello gerarchico ma oggi dobbiamo considerare l’incidenza del diritto comunitario che ormai è entrato a pieno titolo nel nostro ordinamento.
Il nuovo art. 117 Cost., dopo la riforma del TITOLO V, (la collocazione è particolare perché disciplina le competenze tra Regione e Stato) dice espressamente che il potere legislativo è rimesso alle Regioni e allo Stato nel rispetto dei principi previsti dall’ordinamento comunitario. La potestà legislativa ordinaria, sia essa esercitata dallo Stato o dalla Regione, deve avvenire nel rispetto dei principi comunitari.
Quindi l’art .117 Cost. ha espressamente riconosciuto, nella gerarchia delle fonti, la supremazia del diritto comunitario rispetto alle leggi ordinarie, statali e regionali, mentre la Costituzione rappresenta tuttora un limite invalicabile quanto meno nei principi fondamentali. Non è pensabile che il diritto comunitario possa incidere sui principi costituzionali. Lo dice espressamente l’art. 117 Cost. che parla di diritto comunitario, non è casuale che non parli di diritto della CE.

Abbiamo già parlato dei tre pilastri.
1° PILASTRO
2°PILASTRO
3°PILASTRO
Nel primo pilastro opera il metodo comunitario, ovvero vi operano le tre comunità storiche (CEE, CECA ed EURATOM). Il metodo comunitario attiene ai settori nei quali davvero gli stati membri hanno ceduto la propria sovranità, quindi con il metodo comunitario si decidono le politiche relative alle materie nelle quali gli stati membri hanno ceduto il loro potere decisionale (pesca, agricoltura, aiuti di stato, appalti, etc.). In questi campi le comunità possono decidere al posto dello stato membro. Se una proposta passa a maggioranza, anche i Paesi contrari subiscono le conseguenze del procedimento relativo agli atti adottati. Gli stati, se la proposta passa a maggioranza, devono subire, sia se hanno votato a favore, sia se hanno votato contro. Gli atti adottati sono vincolanti (questi atti sono: regolamenti, direttive e decisioni).
Nel secondo pilastro opera il metodo intergovernativo.
Il secondo pilastro riguarda il PESC ovvero Politica Estera e Sicurezza Comune.
Nel terzo pilastro opera il metodo intergovernativo. Il terzo pilastro riguarda il GAI ovvero Giustizia ed Affari Interni.

Il primo pilastro agisce con il metodo comunitario, dove oggi agiscono due comunità. In questo pilastro l’Italia ha ceduto la sua sovranità.
Il diritto comunitario dunque è quello che attiene al 1° pilastro, che viene adottato tramite direttive, regolamenti e decisioni dalle Istituzioni Comunitarie, Consiglio, Commissione e Parlamento, che sono vincolanti e assunte a maggioranza.
Quando è stata adottata la direttiva che vietava allo Stato di concedere aiuti pubblici alle imprese, questa si è collocata direttamente sul secondo gradino per cui ha prevalso sulla legge che in Italia consentiva ai soggetti pubblici di dare aiuti.
La caratteristica comune delle decisioni, delle direttive e dei regolamenti è che sono tutte e tre delle fonti vincolanti.
L’art. 249 del Trattato sancisce che i regolamenti siano direttamente applicabili nel nostro ordinamento, cioè gli Stati membri non hanno bisogno di recepirli con una legge nazionale, il regolamento è già puntuale, dettagliato per cui opera all’interno del ns ordinamento cosi com’è.
Diverso è il caso delle direttive che sono delle fonti comunitarie che vincolano gli Stati Membri rispetto al risultato da raggiungere ma non sui mezzi.
La direttiva impone allo Stato Membro un obbligo, un risultato da raggiungere non definendo i modi per raggiungere tale risultato. Sui mezzi per raggiungere quell’obiettivo ogni Stato è libero di decidere il mezzo più appropriato.
Tipico è il caso dell’imprenditoria femminile. Per es. ammettiamo una direttiva che dica “ obiettivo dell’ordinamento comunitario è favorire la nascita di nuove imprese che abbiano come riferimento la figura di una donna”.
In questo caso spetta allo Stato Membro trovare delle agevolazioni per favorire l’imprenditoria femminile, l’agevolazione potrebbe essere l’esenzione IVA, una riduzione dell’IRPEF, ci possono essere tanti mezzi ma in questo caso vengono decisi autonomamente dallo Stato Membro, l’importante è solo raggiungere l’obiettivo stabilito dalla direttiva.
Ci sono però delle direttive che si chiamano sempre direttive ma che a differenza e a dispetto del loro nome, hanno un contenuto molto dettagliato, le cosiddette “ direttive self executing “, cioè che si eseguono da sole, hanno il vestito di una direttiva ma assomigliano molto di più a un regolamento e non necessitano di un particolare recepimento.
Se una direttiva non viene recepita dallo Stato Membro cosa succede?
Una caratteristica tipica della direttiva è contenere anche la data entro la quale essa deve essere recepita.
Es. sull’imprenditoria femminile. Viene emanata una direttiva comunitaria ma lo Stato non adotta nessun provvedimento che specifica con quali strumenti si intende aiutare una donna imprenditrice.
La donna in questione è tutelata? Il giudice può darle tutela? Il compito del giudice è complicato.
Il massimo che può fare il giudice è cercare di intravedere nella direttiva qualche punto self executing, cioè che preveda in dettaglio qualche tutela, se per es. la direttiva specifica che ci devono essere delle agevolazioni IRPEF, il giudice può provare a dare una tutela ma se questo elemento in più non è contenuto nella direttiva, perché è una direttiva “pura” che stabilisce solo l’obiettivo e non i mezzi, la donna non può ricevere tutela.
Può andare da qualsiasi giudice italiano ma nessuno le darà tutela, perché il giudice non può creare diritto.
Ci troviamo davanti ad un paradosso, abbiamo una fonte comunitaria che è sovra ordinata rispetto alla legge ordinaria ma che per colpa del fatto che non ci sia una legge di recepimento, di fatto non opera.
Questo problema è stato parzialmente risolto, infatti, il mancato recepimento di una direttiva nei tempi stabiliti configura una “ violazione dello Stato Membro di un obbligo comunitario".
Se uno Stato non recepisce la direttiva nei tempi dovuti, cioè non prevede i mezzi per raggiungere quell’obiettivo previsto dalla direttiva, si macchia di un’inadempienza nei confronti dell’ordinamento comunitario, non rispettando un obbligo fondamentale.
In questi casi scatta una “ procedura di infrazione “, la CE scopre che lo Stato non ha adempiuto ad un obbligo comunitario, (nel ns es. che non ha recepito la direttiva, in questi casi il responsabile della procedura di infrazione è la Commissione Europea) e dopo che accerta l’infrazione, sanziona pesantemente lo Stato inadempiente.
Che ha fatto l’Italia? Pagava la sanzione ma continuava a non recepire, rimaneva inerte.
L’ordinamento comunitario che è attento ha introdotto una novità: oltre alla sanzione iniziale, si paga ora una sanzione giornaliera per ogni giorno in cui perdura l’inadempienza da parte dello Stato Membro.
In pratica la CE costringe lo Stato Membro a recepire la direttiva.
Ma qui l’Italia ha fatto un “capolavoro” !!!
Siccome l’Italia era in ritardo, poiché le direttive devono essere recepite con una legge del Parlamento, ha creato la “legge comunitaria” che non è altro che una legge che viene adottata una volta l’anno, unica, che contiene, dipende dagli anni, 250 - 260 articoli (quindi una legge alta quanto un vocabolario) che contiene tutte le direttive che nell’anno lo Stato italiano non è riuscito a recepire.
In un’unica legge, si troveranno vari argomenti non correlati tra loro perché si tratta di un insieme di direttive che l’Italia non è stata in grado di recepire.
Molto spesso si tratta di recepimenti “ frettolosi” ed è anche successo che la Corte di Giustizia ci abbia sanzionato, nonostante fosse stata emanata questa “ legge comunitaria ” perché si era resa conto che era solo un recepimento formale, diciamo un “ finto recepimento “.
Cosa accade se una direttiva o un regolamento è in contrasto con una legge nazionale?
In una controversia, il giudice può disapplicare la legge nazionale perché è in contrasto con la normativa comunitaria, agisce sostanzialmente come se non ci fosse, applicando direttamente la norma comunitaria. Questa soluzione però risolve solo un caso concreto che riguarda quella causa, quella vicenda.
Come si risolve definitivamente il problema?
L’unico vizio che abbiamo in Italia che riguarda le leggi è l’incostituzionalità, l’essere in contrasto con la Costituzione.
Si può parlare di incostituzionalità anche in questo caso poiché una legge ordinaria, in contrasto con una direttiva può essere dichiarata incostituzionale perché viola l’art. 117 della Costituzione che afferma che le leggi statali e regionali devono rispettare la Costituzione e il diritto comunitario, quindi se c’è una legge che contrasta con il diritto comunitario, essa sta violando l’art.117 Cost.
Una legge può essere incostituzionale dunque anche per violazione di norma interposta, cioè per una norma che si trova in mezzo, è incostituzionale per un passaggio intermedio.
Ed è proprio questo il caso di violazione di norma interposta, non si può violare il regolamento perché violandolo, si viola anche l’art. 117 Cost., quindi c’è un passaggio in più, la violazione di una norma interposta.
Un altro caso di violazione di norma interposta è quello relativo ai decreti legislativi. La legge delega afferma i principi generali della materia, se il poi il decreto legislativo adottato dal Governo, oltre ad occuparsi della materia contenuta nella legge delega, va fuori strada, ci troviamo davanti al cosiddetto “eccesso di delega”, ad es. invece di disciplinare l’ambiente, disciplina anche i beni culturali, avremo che il d.lgs. contrasta con la legge delega e sarà dichiarato incostituzionale perché viola l’art. 76 Cost. che dice che il d.lgs. deve rispettare l’oggetto e i principi contenuti nella legge delega.
Il ns ordinamento però è strutturato in modo che la Corte Costituzionale, che si pronuncia sulla legittimità o meno delle leggi, non è un giudice al quale si può rivolgere il cittadino.
Davanti alla C.C. ci vanno direttamente le istituzioni (es. Lodo Alfano) o attraverso un normale giudizio.
Durante una controversia davanti a qualsiasi giudice nazionale (es. davanti ad un giudice penale, commissione tributaria, collegi arbitrali ...) può emergere il dubbio che una norma sia incostituzionale e le parti del giudizio possono chiedere al giudice, sollevando la questione di legittimità, la sospensione del giudizio in corso e di rinviare la causa alla C.C..
Può anche accadere che sia lo stesso giudice, d’ufficio, a dubitare della costituzionalità della norma che dovrebbe applicare e a rivolgersi alla C.C.
Per evitare che lo strumento di rinvio alla C.C. venga utilizzato come pretesto per una sospensione della causa, se una parte solleva il dubbio di incostituzionalità della norma, il giudice non è obbligato a rinviare alla C.C. ma deve valutare 2 requisiti:
Se la questione sollevata è rilevante ai fini della decisione finale
Che la questione non sia manifestamente infondata
Se la questione che la parte sta sollevando è clamorosamente infondata, cioè si sta ponendo un dubbio del tutto inutile, perché è sicuramente costituzionale, il giudice non è obbligato a rinviare.
Questo è il sistema, quello che può accadere davanti al giudice a quo.
Il difetto di questo meccanismo è che fa perdere molto tempo, perché bisogna sospendere la causa ed aspettare che la C.C. si pronunci sul tema e solo al quel punto il giudizio viene riassunto sulla base della decisione della C.C.
Ecco perché esiste uno strumento più veloce che riguarda il caso in cui ci sia un contrasto tra legge e regolamento o direttiva self executing. In questo caso, il giudice se non vuole perdere tempo, quindi non rinviando alla C.C., può adottare un’altra soluzione. Se il giudice è convinto che la legge statale sia in contrasto con la direttiva o con il regolamento, la disapplica ossia il giudice, se nessuna delle parti ha sollevato la questione di legittimità della norma, la mette da parte per quella vicenda.
 La disapplicazione attiene al caso concreto, mentre l’incostituzionalità fa sparire automaticamente la legge dal nostro ordinamento.

Tratto da DIRITTO AMMINISTRATIVO di Mariarita Antonella Romeo
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