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Aspetti strutturali dell’agricoltura italiana

Le dimensioni delle unità produttive e la proprietà contadina

Altro aspetto strutturale dell’agricoltura italiana è rappresentato dalle dimensioni delle unità produttive, delle aziende agricole. Storicamente, la struttura delle aziende agricole in Italia è estremamente frammentata, in unità di piccolissime dimensioni. Queste dimensioni molto piccole, che sono il carattere dominante della stragrande maggioranza delle aziende agricole italiane, hanno un numero ridotto di aziende molto grandi; negli anni ’50 il latifondo caratterizzava ampissime regioni dell’Italia meridionale e non solo. Si trattava di uniche proprietà e decine di migliaia di ettari di terreno, grandi come province. Un ettaro di terreno sono 10 mila m2, un quadrato di 100 mt di lato. Proprietà quindi enormi gestite in maniera estensiva, con investimenti minimali, che sfruttavano in termini unitari piccole rendite che, moltiplicate per decine di migliaia di volte, diventavano rendite consistenti per i proprietari latifondisti, e rappresentavano da una prospettiva economica generale un uso inefficiente di queste risorse. Tanto meno accettabile in un contesto dove la proprietà contadina era talmente frammentata, il numero di bocce da sfamare in ogni piccolissima azienda era elevato da generare situazioni di fame vera e propria. Questa situazione aveva scatenato delle situazioni esplosive, si verificarono contrasti politici, sociali violentissimi come i moti di Reggio Calabria. Fu messo in piedi un progetto di riforma fondiaria, partito inizialmente come progetto ambizioso, doveva riguardare milioni di ettari di terreno fino a rappresentare una % dei terreni coltivati molto rilevante. Questo progetto che era spinto da alcune forze politiche, era fortemente osteggiato dai referenti politici dei proprietari terrieri; ci furono forze di spinte di controspinte significative, tanto che alla fine la legge sulla riforma fondiaria fu approvata nell’50 ma monca, tanto che gli stessi tecnici e politici che vi avevano lavorato restarono delusi, perché solo un milione di ettari di terreno fu coinvolto da questo progetto di riforma agraria, completo come disegno a livello teorico, in quanto aveva un piano di espropri, tutte le proprietà al di sopra di un certo numero di ettari che era stringente come soglia, perché le proprietà sopra i 300 ettari, poi variava da zona a zona, ma l’ordine di grandezza era qualche centinaio.
Quindi, da decine di migliaia di ettari a poche centinaia, ai proprietari originari restava ben poco. Altra fase è il riordino fondiario, con la creazione degli appezzamenti, le sistemazioni agrarie, viabilità e infrastrutture delle abitazioni, questi appoderamenti che devono essere assegnati. Altro limite forte fu la volontà politica che prevalse di massimizzare il consenso politico di tale operazione, massimizzare la platea dei beneficiari, gli assegnatari; i terreni espropriati erano pochi, i beneficiari erano il maggior numero possibile per creare consenso, il risultato fu che la nuova proprietà contadina creata era di dimensioni piccolissime. I terreni, inoltre, furono assegnati anche a famiglie di artigiani, che si erano inurbate, e ricevettero questo “regalo” di appezzamento di terra, a prezzo di non aiutare la formazione di questo nucleo di aziende agricole meglio dotate, più competitive. Questo elemento strutturale di forte debolezza preesisteva, si è confermato e non era un risultato scontato, in quanto si è parlato di un esodo agricolo massiccio, c’erano speranze che questi grandi cambiamenti strutturali avrebbero potuto ingrandire la maglia aziendale, ma così non è stato. C’è stato esodo rurale, spostamento di popolazione dalle campagne alle città; esodo agricolo, spostamenti di lavoratori precedentemente occupati nel settore primario e poi si sono recati in altri settori (industria e servizi); mentre la proprietà contadina è rimasta immutata: nonostante piccoli movimenti marginali, non si è spostata significativamente. Non è scontato che una famiglia si sposta da un luogo all’altro, prima si muove il maschio giovane, poi nel giro di tot anni la famiglia si sradica dal luogo d’origine e si sposta, magari passa una generazione e consolida la nuova localizzazione geografica, ma l’azienda resta di proprietà della famiglia. Perché questo accade? Primo elemento è che la proprietà terriera è un elemento patrimoniale importante per la famiglia, una riserva di valore; al di là dell’efficienza del suo utilizzo, ha un suo valore in quanto tale, sta lì e in un paese dove l’offerta di terra è poca rispetto alla domanda, la terra è quel bene che tende a mantenere il suo valore. Seconda ragione è che l’Italia è stato un paese caratterizzato da tassi di inflazione notevoli, specie negli anni ‘70/’80. Quando l’inflazione è elevata, la terra diventa un bene rifugio, rafforzando la tendenza a non alienare la terra, bensì ne ha aumentato la domanda.
Altro elemento che ha rafforzato questa tendenza alla relativa immobilità del mercato fondiario in Italia, è stato il tipo di governo del territorio che ha caratterizzato il nostro Paese, cresciuto in maniera tumultuosa anche nell’urbanizzazione, in un modo spesso e volentieri privo di regolamentazione, con piani urbanistici assenti, conoscevano varianti che venivano modificate, tenute provvisorie. Questo vuol dire che, e in alcuni casi tutt’ora è valido, chi aveva un appezzamento di terreno in una zona che potrebbe divenire suscettibile di essere trasformata in edificabile, lo tiene fermo lì quel terreno anche se non lo coltiva quasi o lo coltiva a livelli minimali. In quegli anni, tale tendenza all’immobilità era rafforzata anche dalla rigidità del mercato degli affitti; c’erano poche compravendite di terreni agricoli, ma anche gli affitti dei terreni erano molto più scarsi di quanto avveniva nella maggior parte degli altri paesi europei, e ciò era dovuto soprattutto alla legislazione che regolamentava gli affitti dei terreni agricoli, una legislazione garantista per l’affittuario. Se un proprietario terriero cedeva in affitto dei terreni ad un agricoltore, con lo status di coltivatore diretto, era molto difficile che alla scadenza del contratto, se voleva rientrare in possesso del terreno, mentre l’affittuario voleva tenerlo lui in affitto, era difficile per il proprietario riprendersi questi terreni. Ciò ha fatto si che, il mercato degli affitti è stato scarsamente attivo, perlomeno quello degli affitti legali; per lunghi anni, si è creato una sorta di mercato parallelo informale, di affitti di brevissimo periodo, e in quel caso garantiva poco l’affittuario, scoraggiandolo dal fare investimenti sui terreni presi in affitto, terreni usati per produrre poche culture foraggiere per il bestiame, ma non erano terreni sui quali si facevano investimenti in culture arboree, che sono produzioni con orizzonte temporale lungo. Il vincolo dimensionale, quindi, delle aziende agricole, dato dalla disponibilità di terreno, è stato estremamente rigido e permanente nel corso del tempo. Questo non significa, però, che gli assetti organizzativi, il modo di funzionare dell’agricoltura italiana non abbia trovato qualche escamotage per superare questo ostacolo. Altro cambiamento degli anni ‘50/’60 fu la scolarizzazione di massa, l’istruzione universale rivolta a tutti con l’obbligo dell’istruzione, primaria e poi crescente negli anni a seguire; ciò ha fatto si che, i giovani che s’affacciavano sul mercato del lavoro nell’70/’80, anche in agricoltura erano giovani diversi da questi che erano stati agricoltori o operai nell’50/’60.
Se questa prima fase individuata negli anni ’50/’60, di questi cambiamenti forti del boom industriale, demografico, del grande esodo, della crescita vivace del PIL che ha modificato i redditi e i modi di consumare delle persone, ha visto imprese del settore pubblico nel campo delle infrastrutture significativo, l’apertura al mercato internazionale, gradualmente a partire dagli anni ’70 e fortemente negli anni ’80, si sono verificati cambiamenti meno evidenti nei numeri aggregati dell’economia, cambiamenti organizzativi molto importanti. Parte di questa seconda fase riguarda anche i primi anni ’90, con un momento di svolta nella fine della prima Repubblica, quando ci sono stati cambiamenti sia nella posizione internazionale dell’Italia con la politica valutaria degli anni ’90, che provocò momenti di rottura importanti per la posizione del Paese; a livello internazionale, ci fu un’accelerazione nei processi di globalizzazione. Negli anni ‘70/’80, quella che era indicata come la specificità del mondo contadino, la sua peculiarità e fattore d’isolamento viene a cadere per una serie di ragioni, prima fra tutte l’istruzione. Parliamo di persone che hanno una capacità di comprensione del mondo e di apprendimento di funzioni accresciuti rispetto a prima. Anche bambini e ragazzi che vivono in campagna frequentano le scuole, imparano a leggere e scrivere, sono giovani meno diversi dai giovani che crescono in contesti urbani, di quanto non era avvenuto nelle generazioni precedenti. Ciò accade non solo per la presenza di scuole nelle campagne, ma anche perché il mondo delle campagne è diventato un mondo meno lontano dalla città, di quanto non era prima. Da un lato le città sono cresciute, con periferie molto ramificate, la rete stradale è cresciuta enormemente avvicinando le campagne alle città, il sistema dei trasporti è molto più sviluppato, in tutte le famiglie in quel periodo inizia ad esserci l’automobile o un mezzo a due ruote.
La scolarizzazione degli adolescenti e l’acquisizione di un mezzo per muoversi, autonomo, ha creato questa nuova figura sociale, divenuta poi economica di consumatori, ma prima di tutto sociale e sono gli adolescenti. Quando non c’è obbligo scolastico, disponibilità economiche, si esce dall’infanzia e si entra nel mondo degli adulti, perché si va a lavorare e avvolte anche prima.
Verso la fine degli anni ’60 si sviluppa il movimento della Beat Generation; già c’erano gli studenti di liceo, ma erano delle èlite. I liceali, prima della Seconda Guerra Mondiale, erano come sono oggi i dottorandi di ricerca, le èlite del paese. Nel giro di poco più di un decennio, c’è la scuola di massa, l’istruzione superiore per i giovani, si crea questa nuova classe sociale. Progressivamente, quindi, viene a cadere la diversità culturale, uno status di inferiorità culturale. Negli anni ’70 si crea una commistione molto forte nelle attività produttive; per cercare di aggirare il vincolo dimensionale delle aziende agricole che, essendo piccole, non riuscivano a generare un volume di reddito sufficiente per corrispondere ai fabbisogni della famiglia, molte famiglie agricole iniziano a diversificare le proprie attività. Per cui, alcuni membri della famiglia restano attivi in agricoltura, altri cercano lavoro fuori dall’azienda agricola, dal settore agricolo. Questa pluriattività prende la forma di un partime del conduttore stesso dell’azienda. Pluriattività che prende forme diverse nelle diverse parti dell’Italia, sia perché il tipo di sviluppo extra agricolo è molto diverso nelle diverse parti del Paese, le possibilità occupazionali nei settori non agricoli sono differenti nelle diverse aree. Nel Lazio, ad esempio, una vasta area intorno a Roma, che prende porzioni della regione non irrilevanti, è caratterizzata da una forma di pluriattività, nella quale all’agricoltura s’affiancano attività terziarie, specie nella PA e anche nel commercio. Nel Nord – Est del Paese, nelle zone caratterizzate da uno sviluppo industriale diffuso, come i distretti industriali, modelli di sviluppo a piccola e piccolissima industrializzazione diffusa sul territorio che caratterizza il Nord – Est – Centro (NEC), la dorsale adriatica dal Veneto fino a Umbria, Toscana e Puglia. La nascita dei distretti è stata messa in contrapposizione con la prima fase di grande crisi dell’industria fordista, verticalmente integrata. I primi processi di esternalizzazione delle funzioni delle grandi industrie, hanno dato luogo a nuclei di piccole imprese che nascevano come subappaltatrici delle grandi imprese, e si sono sviluppate secondo loro logiche autonome. Queste imprese del modello distrettuale, secondo alcuni economisti, hanno tratto linfa dalle capacità imprenditoriali che si erano sviluppate in agricoltura nelle imprese mezzadrili, diffuse in Toscana, Umbria, Marche e piccola parte in Emilia Romagna.

La mezzadria

La mezzadria (share cropping) è quell’impresa dove gli imprenditori sono due: c’è un proprietario terriero che nell’impresa mette la terra e una parte dei capitali fondiari, che servono ad acquisire il bestiame, la stalla; il mezzadro concorre all’impresa col lavoro suo e della famiglia e coi mezzi tecnici. Il mezzadro non è un lavoratore alle dipendenze del proprietario terriero, ma è a tutti gli effetti un imprenditore, ovvero alcune scelte imprenditoriali sulla conduzione dell’impresa, le prendono di comune accordo, ed entrambi s’accollano il rischio d’impresa. Ognuno riceve, alla fine del ciclo produttivo, una certa quota della produzione, il che vuol dire che il mezzadro, non essendo semplice lavoratore, è una figura capace di prendere decisioni, guardare al mercato se una parte della produzione va al mercato, farsi due conti, valutare il rischio di diverse alternative. Poiché molte piccole imprese industriali della zona dei distretti dell’industrializzazione diffusa, nascono come piccolissimi laboratori artigianali in capannoni, spazi presenti nell’impresa agricola della famiglia, la capacità imprenditoriale presente in modo diffuso sul territorio, in tali zone, è ricondotta alla diffusione della mezzadria. In agricoltura, la diffusione degli assorbimenti di manodopera, da parte dei processi produttivi, sono molto disformi nel tempo, perché i processi produttivi agricoli sono caratterizzati da momenti di punta dei lavori nei campi; questo vale meno nelle aziende di indirizzo zootecnico, perché gli animali hanno la necessità di accudimento costanti nel tempo. I processi produttivi di tipo culturale sono incostanti: c’è il momento del raccolto che richiede quantità di manodopera enormi, ci sono momenti della potatura per quanto concerne le culture arboree, per quelle erbacee il momento dell’aratura e della semina. Ci sono anche lunghi intervalli di tempo nei quali non c’è granché da fare, e la manodopera familiare è lì che potrebbe lavorare e invece resta perlopiù inoccupata. Le famiglie mezzadrili di quella zona cominciano a prendere i primi telai, si sviluppano queste imprese familiari che sono attive in agricoltura e cominciano, anche, a svolgere qualche attività nei settori dell’industria manifatturiera, nella ceramica, sfruttando figure di lavoratori che sono ai margini del mercato del lavoro, come gli anziani e le donne che, al di fuori della famiglia, non troverebbero impiego.
Sono imprese competitive, perché utilizzano manodopera familiare in momenti in cui è disoccupata, e s’accontenta anche di una remunerazione bassa perché ha un costo opportunità molto basso. In molte regioni meridionali, la pluriattività prendeva la forma di una doppia attività che, avvolte, era una doppia attività sempre del settore agricolo, l’agricoltore lavorava nella sua azienda, di dimensioni piccole; il problema della frammentazione aziendale, in alcune regioni del Sud, come Campania, Calabria e anche in alcune aree del Lazio, assume dei caratteri ancora più accentuati rispetto al dato medio nazionale.

La pluriattività

Le dimensioni aziendali, quindi, erano tali da rendere necessario integrare il reddito derivante dall’azienda con altre fonti, però non c’era uno sviluppo extra agricolo tale da offrire opportunità di lavoro in altri settori. Gli agricoltori lavoravano come braccianti agricoli per altre aziende, spesso spostandosi per qualche mese l’anno; avvolte questa pluriattività assumeva anche il carattere di una migrazione temporanea all’interno dell’annata agraria. In altri casi, assumeva la forma di un’alternativa di lavoro precario e temporaneo nel settore dell’edilizia.
Spesso gli agricoltori partime delle aree più povere, più marginali del Sud Italia, erano anche stagionali nel settore dell’edilizia. Questo fenomeno della pluriattività ha diversi ordini di conseguenze sull’agricoltura. Questa pluriattività, inizialmente era considerata come fenomeno transitorio, cioè si riteneva che la pluriattività era diventata una nuova forma più graduale di esodo agricolo, si pensava che era l’anticamera alla fuoriuscita del settore perché, siccome le opportunità di lavoro in altri settori erano meno esplosive, gli agricoltori che intendevano uscire dal settore primario, passavano un periodo intermedio in cui sondavano le possibilità d’impiego e di reddito negli altri settori, e poi avrebbero lasciato. Ma così non è stato, e ciò è vero in Italia e negli altri paesi europei. La pluriattività ha assunto il carattere di un fenomeno permanente. Il dato strutturale che il nostro è un paese piccolo, gioca un ruolo anche in tal caso, perché se il paese è piccolo, gli spostamenti da un luogo all’altro per le diverse attività, sono piccoli; per una famiglia, è fattibile risiedere in un luogo, magari la sede aziendale dove si svolge una parte dell’attività, e poi spostarsi nel piccolo comune vicino o nella città di medio/grandi dimensioni più vicine, per svolgere un impiego ministeriale, un’attività nel settore del commercio che si gestisce in più persone, ecc.
Conseguenze sull’agricoltura. Si ha una conseguenza in termini di scelte produttive, perché ci sono alcuni tipi di produzioni che lasciano del tempo libero dalle attività agricole, consentono di svolgere anche altre attività al di fuori dell’azienda; altre produzioni no, non danno tale possibilità, perché richiedono continuità ed entità d’impegno che non si può fare altro. Solo alcuni tipi d’aziende permettono questa doppia attività, e questo è vero all’inizio della storia, quando l’agricoltore valuta se può fare qualcos’altro, ed è vero in senso dinamico, che gli ordinamenti produttivi possono e vengono trasformati nel corso del tempo, se l’agricoltore inizia un’altra attività all’esterno. La pluriattività ha comportato, in molti casi, una estensivizzazione degli ordinamenti produttivi, cioè la selezione di quei processi che consentono la doppia attività. Questa è stata la ragione per cui, fino a tempi recenti, la pluriattività è stata vista con diffidenza, con aperto atteggiamento di critica, da parte di coloro che consideravano la pluriattività, una causa di perdita di produttività del settore. Se queste aziende fossero condotte a tempo pieno, con canoni di professionalità, potrebbero fare molto di più, invece sono estensivizzate perché l’agricoltore si è messo a fare altro. A livello aggregato di paese, questo è un fenomeno negativo che va ostacolato, magari con una normativa che può disincentivare questa forma di scelta. Tale ragionamento ha un errore che è la scelta dell’alternativa. Ogni scelta razionale deve essere frutto del confronto tra le diverse alternative, tra costi e benefici associati ad ogni alternativa; l’errore è che l’alternativa considerata, quella dell’agricoltura a tempo pieno professionale, non è l’alternativa realistica di molte aziende. L’alternativa realistica sarebbe stato l’abbandono totale di quei terreni, perché l’attività extra agricola di questi agricoltori pluriattivi diventa, quasi sempre, l’attività economicamente più importante. La pluriattività ha avuto altri due ruoli importanti, rispetto all’attività agricola. I redditi extra agricoli sono stati spesso fonte di finanziamento per le attività agricole, investimenti fatti per cambiamenti all’interno dell’azienda agricola, grazie a risparmi familiari realizzati con l’attività extra agricola. Le capacità professionali, la conoscenza del mondo, sviluppata dall’agricoltore nell’attività extra agricola, è stata travasata nella sua attività di agricoltore, accrescendo le sue capacità imprenditoriali.
Capacità, ad esempio, di trovare sbocchi e canali commerciali per le produzioni, la sua capacità di capire cosa il mercato chiedeva in quella fase, un certo canale o cliente. Anche la capacità professionale dell’imprenditore ha giovato di questa commistione di attività. Verso la fine degli anni ’80, ci troviamo di fronte a situazioni di pluriattività che sono in ingresso in agricoltura, cioè di occupati in altri settori o giovani pensionati di altri settori, che sono entrati in agricoltura, hanno diversificato in agricoltura provenendo da altri settori, una pluriattività dove il farmacista, il medico, il costruttore, il pubblicitario, s’innamora della campagna, dell’agricoltura, o l’imprenditore industriale che, per esigenze d’immagine o per diversificare il proprio portafoglio di attività in un settore spesso anticiclico, con caratteristiche che possono complementare attività in altri settori, inizia un’attività in agricoltura.
Un tipo di pluriattività che apporta all’agricoltura competenze, capitali e reti di relazioni più ampie. In alcuni casi, si è trattato di un ritorno all’agricoltura, di quei giovani che erano usciti negli anni dell’esodo, e hanno mantenuto un senso di radicamento, di attaccamento alla terra. Questo è un aspetto che, tornando al discorso dell’immobilità fondiaria italiana, è importante; una motivazione extraeconomica alla scarsa mobilità fondiaria in Italia è proprio l’attaccamento alla terra, perché la terra sono le proprie radici, la propria identità e alla terra è legato lo status familiare, ci sono ragioni di prestigio sociale legate alla proprietà terriera che fanno si che, l’azienda di famiglia non si vende anche se non viene coltivata, utilizzata, se ci si va una volta all’anno. Situazioni di questo tipo hanno dato luogo a un ritorno decenni dopo, persone avanti nella propria vita lavorativa o che vanno in pensione relativamente giovani, e sono tornate all’agricoltura, iniziando attività aperte o riaperte di aziende agricole. Ciò è stato reso possibile da un cambiamento rilevante del posto occupato dall’agricoltura e dalla campagna, nell’immaginario collettivo, nel modo che si è diffuso nella società di considerare l’agricoltura.

Industrializzazione e agricoltura

Negli anni dell’industrializzazione, a ritmi forzati, l’agricoltura era considerata come una serie di accezioni negative, perché l’agricoltura era il settore della povertà, della fame, dell’ignoranza, dei rapporti sociali arcaici. Gli agricoltori si vergognavano di essere agricoltori, e i cittadini li consideravano come villani, cafoni, ignoranti, affamati.
L’agricoltura era anche il luogo dell’arretratezza tecnologica. Con il passaggio dalla prima alla seconda fase, il modo di guardare all’agricoltura è già cambiato, e non è un caso che, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, c’è il boom delle iscrizioni nelle facoltà di Agraria in Italia; all’agricoltura si ricomincia a guardare con interesse, sbiadisce questa negatività, perché cambia la distanza culturale, geografica, la vita nelle città diventa più difficile, congestionata, c’è l’inquinamento, rapporti sociali anonimi, disumani. L’agricoltura non è più quel contesto di povertà ed arretratezza, inizia un cambiamento di prospettiva che si fa più forte negli anni ’90 fino alla fase che viviamo oggi, in cui c’è una riscoperta del settore primario, si esalta la campagna perché è un buon mondo antico che neanche si conosce bene, nascono le fattorie didattiche in quanto ci si accorge che i bambini nati e vissuti nelle città, non hanno mai visto una gallina, una pecora, il grano, una mela attaccata all’albero. C’è una grande rinascita d’interesse per il mondo agricolo e rurale.

Tratto da ECONOMIA DEL SETTORE AGROALIMENTARE di Valerio Morelli
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