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I meccanismi centrovincolanti del federalismo e le misure di decentramento


Quali sono quindi i meccanismi centro vincolanti essenziali nel federalismo?
Il primo è quello riferito alla ripartizione delle competenze: ma non è un problema di numero di competenze che noi attribuiamo, ma è quanto a livello di completezza nella gestione delle competenze che il livello subnazionale di governo può avere, cioè soprattutto all’esclusività di gestione di quel potere da parte del governo subnazionale; la letteratura parla di due modelli all’interno degli stati federali, cioè il modello duale (in cui c’è una chiara distinzione all’interno della costituzione di ciò che fa lo stato federale, e di cosa fanno invece i singoli Stati), ognuno fa quello che vuole, non ci sono intermittenze.
In realtà negli stati contemporanei, con la crescita dell’intervento pubblico è diventato sempre più difficile fare delle distinzioni fra le materie da attribuire a uno o all’altro livello di governo; in realtà tutte le politiche sono per loro natura intergovernative, in misura maggiore o minore tutti i livelli di governo tendono ad avere attribuzioni delle varie politiche pubbliche. Ciò non toglie che nelle costituzioni ci possa essere un riferimento più o meno accentuato all’attribuzione dei poteri; l’esclusività del potere certamente ci dà un connotato di natura che lo avvicina più o meno ad un modello federale.
Altro criterio che si può utilizzare è quello cosiddetto dell’attribuzione dei poteri residuali: se prendete una costituzione, questa può essere basata (come lo era quella italiana prima della riforma del 2001, al precedente Art. 117) sull’attribuzione di una serie di poteri alle Regioni; per definizione, tutti gli altri poteri non attribuiti, risultavano attribuiti allo Stato. Nel nuovo Art. 117 c’è stato un ribaltamento, in quanto si sono elencati i poteri attribuiti allo Stato, e gli altri poteri, definiti poteri residuali (non chiamati così perché meno importanti, ma in quanto non richiamati direttamente dalla costituzione).
L’attribuzione dei poteri residuali alle amministrazioni locali è un altro sintomo di garanzie centro vincolanti, nel senso che per modificare o arrivare ad un’interpretazione autentica della costituzione, serve un intervento di un organo terzo quale potrebbe essere la Corte Costituzionale, oppure una riforma costituzionale. Nel caso italiano non siamo proprio in presenza di una garanzia centro vincolante, che richiederebbe per una modifica costituzionale l’intervento degli enti nazionali di governo, però comunque siamo già in forte direzione di un modello con garanzie centro vincolanti.
Il primo indicatore, il primo meccanismo che serve a verificare queste garanzie è la ripartizione delle competenze a livello costituzionale; il secondo è una rappresentanza territoriale delle autonomie che garantisca la partecipazione delle entità federate all’esercizio della sovranità nazionale. E qui stiamo parlando del problema di avere una camera rappresentativa della autonomie locali che interviene sia nei processi legislativi federali nazionali per tutto ciò che concerne le materie di interesse regionale e locale, sia per le eventuali riforme costituzionali.
Nei modelli federali ci sono diverse tipologie di camere di rappresentanze territoriali che oscillano tra camere di rappresentanze basate su elezioni in cui vota tutta la popolazione oppure, come nel caso tedesco, la seconda camera vede dei rappresentanti eletti dagli esecutivi degli stati federali tedeschi.
Come si può passare da un discorso come questo, di tipo prevalentemente giuridico, ad un tipo di valutazione di tipo quantitativa? Un primo passaggio è cercare di riempire quei due criteri principali che abbiamo visto, cioè la ripartizione di competenze esclusive fra livelli di governo e la presenza di una camera territoriale, dando un valore, un peso di queste garanzie da 0 a 2 a seconda che non ci siano garanzie centro vincolanti (valore 0), siano presenti in forma parziale (valore 1), siano presenti in forma piena (valore 2).
Si possono così ottenere due risultati: si riesce a costruire un ordinamento di Paesi che va da un massimo di centralismo ad una situazione di federalismo pieno, e quindi si può arrivare a distinguere fra sistemi unitari e sistemi federali, costruendo delle categorie.
Questa descrizione è parzialmente soggettiva, in quanto non è facile dare queste valutazioni, però è importante, perché ci dice che non è possibile fare una distinzione rigida, ma è tuttavia possibile dire qualcosa, dare una valutazione sul grado di accentramento di un sistema.
Non è semplice anche perché bisogna andare a vedere come si esplicano questi poteri, in quanto molto spesso un potere che è attribuito ad un’amministrazione centrale in realtà viene poi gestito solo sulla base di un consenso preventivo delle amministrazioni locali (questo sistema lo abbiamo avuto in Italia negli anni ’70 e ’80: è il caso dell’edilizia pubblica, per cui quando si doveva decidere il livello di reddito in base al quale assegnare l’alloggio ad un inquilino, se accentrato il compito esecutivo di identificare gli inquilini veniva delegato ai comuni, però i livelli di reddito potevano essere determinati dal Ministero dei Lavori Pubblici o possono essere determinati sulla base dei suggerimenti che arrivano dalle associazioni dei comuni); per cui, se un’amministrazione centrale per decidere si basa in termini relazionali con le rappresentanze delle autonomie locali, un potere formalmente al centro in realtà viene esercitato poi solo con ‘input che parte dalla periferia.
I sistemi di relazione intergovernativi non sono statici, ma dinamici, cioè c’è un continuo cambiamento.
Vediamo altre misure di decentramento: qual è un set possibile di indicatori di decentramento che devono essere analizzati in parallelo a quelli che abbiamo visto sulla natura del decentramento (quindi le garanzie centro vincolanti)?
Prendiamo come base i Paesi dell’Unione Europea (15), per i quali si ipotizza comunque che ci sia una certa omogeneizzazione dei sistemi, della struttura dei governi locali: la distinzione che viene fatta è tra paesi unitari e paesi federali. Un primo indicatore che può essere interessante analizzare deve tener conto del fatto che le amministrazioni locali svolgono determinate funzioni, e per fare questo occorrono risorse, bisogna spendere, e quindi un primo indicatore importante che possiamo prendere è quello di dire che esiste un settore pubblico, composto dal comparto delle amministrazioni pubbliche (distinto a sua volta in amministrazioni centrali, che comprendono i Ministeri, i grandi enti nazionali, poi ci sono le amministrazioni locali, dove in Italia rientrano le amministrazioni regionali sia a statuto ordinario che a statuto speciale, le amministrazioni provinciali e le amministrazioni comunali e tutti i cosiddetti altri enti locali, che sono sia le autonomie funzionali, come ad esempio le camere di commercio, le università, e poi rientrano le varie forme di associazioni intercomunali, e poi il terzo grande comparto sono gli istituti di previdenza sociale). Si punta a vedere quanto pesano e come si evolve nel tempo il loro peso per evidenziare il grado di decentramento: è chiaro se ad esempio il peso delle amministrazioni locali in un Paese pesano per il 5% di tutta la spesa pubblica di tutte le amministrazioni pubbliche, mentre in un altro Paese pesano al 50%, si può dire che il primo è molto accentrato, mentre l’altro è parecchio decentrato, oppure posso correlarmi ad un valore medio di questo indicatore e fare il misuramento.
Esistono dei Paesi, prendendo il periodo 1985-2001, in cui il peso della spesa pubblica per le amministrazioni locali è molto rilevante: ad esempio la Danimarca, con quasi il 54% della spesa pubblica nel 1985, e si è arrivati a quasi il 58% nel 2001.
Un confronto con l’Italia ci permette di vedere che anche nel nostro Paese siamo saliti di 4 punti, ma partivamo da molto più in basso: oggi siamo al 30%.
Anche la Svezia è cresciuta notevolmente.
Un altro aspetto di un certo rilievo porta a vedere che il Paese più accentrato d’Europa è la Grecia, con solo il 4% della spesa pubblica gestita dalle amministrazioni locali, salito al 5% nel 2001.
Probabilmente sarebbe più corretto fare questi confronti al netto del comparto delle amministrazioni che si occupa della spesa pubblica date le differenze esistenti fra i vari Paesi. Si dovrebbe prendere solo il totale delle amministrazioni locali e centrali e prenderne il peso relativo. Se facessimo questo, in Italia ormai le amministrazioni locali coprono un po’ più del 50% della spesa pubblica, al netto degli enti previdenziali.
L’altro aspetto rilevante è il fatto che non è detto che uno Stato federale sia più decentrato in termini di assegnazione di potere rispetto ad uno Stato unitario: è il caso dell’Austria, dove abbiamo un peso della spesa delle amministrazioni locali pari al 28%, quindi più basso anche dell’Italia, e molto più basso di Svezia e Danimarca. In effetti in Svezia e Danimarca il valore è molto più alto, ma ci sono molte meno garanzie centro vincolanti, vale a dire che in quei paesi stanno per fare una legge per riattribuire una serie di funzioni al centro senza nessun problema costituzionale.
Un indicatore analogo che viene utilizzato è la spesa delle amministrazioni locali sul PIL, che fornisce un’altra idea del peso del settore pubblico all’interno di un sistema economico: qui emerge che Danimarca e Svezia si trovano in testa. Il peso è soprattutto dovuto a grosse competenze in materia sociale e sanitaria.
Dopo aver valutato le spese ora andiamo a vedere come queste spese vengono finanziate: le percentuali delle entrate delle amministrazioni locali sulle entrate delle amministrazioni pubbliche sono le voci che derivano da tributi propri (ICI, IMUP, addizionale Irpef).
Anche qui c’è una graduatoria che rispetta sostanzialmente quella delle spese; in questo caso la cosa interessante da vedere nei casi dei paesi federali, ad esempio la Germania e l’Austria, è che la percentuale delle entrate è superiore a quella della Danimarca, che risultava primo nel caso della spesa: questo vuol quindi dire che i livelli di autonomia si possono misurare più dal peso delle entrate autonome rispetto alle entrate totali che rispetto al peso delle spese, e questa differenza viene coperta tramite l’intervento dello stato centrale con trasferimenti.
Si evidenziano due cose importanti: accentramento e decentramento, in termini di spesa o di poteri, non è direttamente collegato al modello federale; inoltre in tutti questi paesi emerge che la percentuale della spesa delle amministrazioni locali sulle amministrazioni pubbliche è sempre superiore alla percentuale delle entrate, e quindi se assumiamo che le entrate e le spese pubbliche devono pareggiare. Questo vuol dire che in Danimarca abbiamo il 58% della spesa, però le entrate sono il 21% delle entrate totali e il 27% delle spese totali, e ciò vuol dire che abbiamo un 36% di entrate rispetto alle entrate locali che mancano per pareggiare che arriveranno dallo stato centrale tramite finanziamenti.
Un argomento rilevante toccato è proprio la teoria dei trasferimenti, perché se noi apriamo questi gap, queste differenze, che nel linguaggio economico vengono chiamati squilibri fiscali verticali: vuol dire che non si riesce a fare in modo che le amministrazioni locali possano avere un livello di entrate autonome capace di finanziare tutte le loro competenze di spesa. Non esiste la possibilità di attribuire alle amministrazioni locali delle competenze in materia tributaria tali da garantire il pareggio di bilancio, con tutta una serie di problemi.
È il problema della gestione dei trasferimenti, cercando di riequilibrare le risorse delle amministrazioni locali più povere, tramiti interventi perequativi, un fondo perequativo.
Gestire i trasferimenti implica identificare dei criteri per distribuire questi soldi, ad esempio in Italia fra 8.000 comuni.
Le entrate delle amministrazioni locali sono tutte le entrate autonome: quando si parla di entrate autonome, non ci si riferisce solo ai tributi in senso stretto (cioè a prestazioni coattive imposte per Legge dallo Stato), ma ci sono tutta una serie di alte entrate di enorme importanza, e le più importanti dal punto di vista economico sono le entrate tariffarie, cioè i corrispettivi a fronte di servizi forniti su domanda dei cittadini, non sono prestazioni coattive. Molto spesso le tariffe non coprono tutti i costi per ragioni di esternalità positive che coinvolgono l’intera collettività, e non solo che fa domanda del servizio.
Andare a vedere solo le entrate tributarie è importante perché queste sono quelle più direttamente collegate alla responsabilizzazione delle amministrazioni locali.
Risolvere il problema con la giusta via di mezzo è un problema squisitamente politico, ma questa risoluzione deve essere fatta in maniera molto trasparente, ed è quindi anche un problema di informazione di base.
C’è poi chi sostiene che un vero indicatore di autonomia locale è dato, più che dal peso delle entrate autonome sul totale delle entrate di tutte le amministrazioni pubbliche, è dato solo dal peso delle entrate tributarie locali rispetto al totale delle entrate del settore pubblico; effettivamente guardando i dati si vede subito che i paesi federali hanno livelli relativamente elevati, però abbiamo il caso del modello nordico (Danimarca e Svezia) che colpisce per via del fatto che hanno un livello elevato di entrate tributarie locali sul totale perché storicamente per questi paesi il finanziamento degli enti locali è stato garantito da una forte compartecipazione all’imposta personale sul reddito.
Guardando le dinamiche, si osserva che c’è una tendenziale crescita: il livello medio del peso delle entrate tributarie locali sulle entrate tributarie totali sale dal 12,6 al 15%. Però se andassimo a fare i tassi di crescita di tutti i paesi, la cosa interessante che vediamo è che quello che cresce di più è l’Italia, che partiva sì da livelli bassissimi, tant’è che nel 1985 eravamo di poco superiori alla Grecia; di conseguenza, in seguito alla prima riforma tributaria avvenuta nel ’70-73, furono accentrati tutti i tributi riducendo ai minimi termini l’autonomia finanziaria locale in previsione di istituire altri tributi, cosa che poi non avvenne, e quindi per molti anni il nostro paese insieme alla Grecia presentava una finanza di tipo derivato, cioè basata principalmente sui trasferimenti statali, comportando una spesa senza controllo della spesa pubblica.
Difatti a partire dagli anni ’80 si è assistito a continui tentativi di controllo della spesa pubblica locale.

Abbiamo poi un’ulteriore analisi riferita all’Italia, interessante perché è un’analisi dinamica aggiornata al 2006 che tiene conto del peso della spesa delle amministrazioni locali sul totale della spesa delle amministrazioni pubbliche, ma al netto del comparto previdenziale; ciò significa che l’unica spesa pubblica di cui dovremmo tenere conto, per quello che concerne il settore pubblico complessivo, sono i trasferimenti dello Stato agli enti pubblici previdenziali. Se eliminiamo la spesa previdenziale, e guardiamo alla sola spesa finale per sevizi, ovviamente il peso relativo cambia nettamente.
Sempre per avere un’idea più precisa del peso relativo, si potrebbe decidere di eliminare dalla spesa pubblica centrale la spesa per interessi; questo perché il debito pubblico è compito solo dello stato centrale, però non corrisponde ad una fornitura diretta di beni e servizi pubblici e inoltre, essendo compito solo dello stato centrale, in una situazione di così forte indebitamento come nel caso italiano, la spesa per interessi è una spesa un po’ fuorviante, in quanto non è una spesa per servizi diretti, ma è dovuta ad un debito storicamente accumulato. Se facciamo questa operazione, si può osservare che fra il ’93 e il 2000 il peso della spesa delle amministrazioni locali è passato dal 32% al 57%, crescita che non riusciremmo a cogliere se considerassimo sia il comparto previdenziale sia gli interessi sul debito pubblico: quindi questo indicatore ci permette di notare meglio come abbiamo dei grossi problemi, e il culmine è stato all’incirca all’inizio del nuovo millennio, per poi scendere intorno al 55% nel 2006. Gli ultimi anni, al di là della riforma costituzionale del 2001, sono stati gli anni di grandi sforzi verso il decentramento, ma il vero periodo di decentramento è avvenuto fra il 1994-95 e il 2000. Ad esempio l’istituzione dell’Irap è del 1998, mentre nel senso opposto si è andato negli ultimi anni, con l’eliminazione dell’Ici sulla prima casa e il blocco delle aliquote discrezionali dei comuni sulle addizionali.
Un altro dato rilevante e desumibile dal secondo tipo di statistiche sulle amministrazioni pubbliche in Italia si basa sempre sul fare la percentuale delle spese delle amministrazioni pubbliche complessive e vederla rispetto alle varie funzioni delle amministrazioni pubbliche: esiste una classificazione europea delle funzioni, dei servizi generali (difesa, ordine pubblico, ambiente, funzioni economiche, sanità…), è la cosiddetta classificazione COFUG, e dai dati dei conti delle amministrazioni pubbliche per funzione è possibile vedere il peso della spesa delle amministrazioni locali nelle varie funzioni, e la loro evoluzione nel tempo dal ’90 al 2002. Si può notare che i maggiori cambiamenti all’interno di una crescita complessiva sono spiegati maggiormente da interventi in campo economico, nel campo di abitazione e assetto del territorio, un po’ nell’istruzione e soprattutto nel campo della previdenza sociale.
Sono tutte statistiche presenti nel sito dell’Istat, e si riferiscono ai dati dell’anno precedente la pubblicazione.
Che cosa dire quindi di questi indicatori complessivi del decentramento?
Sono un po’ la cassetta degli attrezzi per discutere sulle relazioni intergovernative, tenendo sempre conto della relazione fra entrate e spese, in cui le prime sono necessarie per il finanziamento delle seconde.
Una fonte di entrata sono i trasferimenti dallo Stato, o dalle regioni agli enti locali nel caso italiano, e occorre identificare dei criteri per stabilire chi ha più bisogno e chi meno bisogno, tenendo ad esempio conto della spesa, oppure andando a finanziare chi ha entrate tributarie correnti inferiori alla media nazionale.
In quasi tutti i paesi, la quota di spesa delle amministrazioni locali sul totale di spesa di tutte le amministrazioni pubbliche è cresciuta in quasi tutti i paesi, e quasi sempre eccede la quota delle entrate, creando uno squilibrio verticale e alimentando il problema dei trasferimenti.
Nell’ultimo grafico si misura in maniera dinamica il cambiamento della quota delle spese totali sulle ascisse e la quota di entrate delle amministrazioni locali sul totale delle amministrazioni pubbliche: in un quadrante si ha un tendenziale e forte decentramento, in quanto cresce la quota di spesa pubblica.
L’Italia presenta inoltre una crescita forte delle entrate, fatto di rilievo legato ad un cambiamento strutturale del nostro sistema.
Va inoltre fatto notare che certi cambiamenti si possono avere solamente nel medio lungo periodo; bisogna considerare serie storiche un po’ lunghe per poter bene interpretare la finanza pubblica locale.
L'ultima volta abbiamo parlato delle misure di decentramento; abbiamo visto come si possano individuare diverse tipologie di decentramento; siamo ancora ad un livello di analisi preliminare, prima di andare dentro i contenuti concreti dell'analisi dei principali strumenti di finanziamento dei governi subnazionali. Come avete capito ci sono spesso negli ordinamenti più livelli di governo, quindi c'è un grosso problema di coordinamento finanziario, tra quello che fanno i diversi livelli di governo; questo è proprio ciò di cui si occupano gli studiosi di scienza delle finanze per tutto ciò che concerne la branca che si occupa di tributi locali, come si possono inserire i sistemi tributari locali nei sistemi tributari complessivi di un paese.
Limitandosi al discorso degli indicatori di decentramento, voglio sottolineare, come è molto complesso trovare degli indicatori di decentramento e come non è sempre agevole la loro lettura ;  rispetto agli indicatori che possiamo trovare, i più agevoli, i più comprensibili sono legati a variabili finanziarie, variabili sostanzialmente di entrata e di spesa. Noi misuriamo il peso, il livello di decentramento dei vari paesi, utilizzando la spesa che effettuano le amministrazioni subnazionali rispetto alla spesa totale di tutte le amministrazioni pubbliche. Ricordate che abbiamo visto come i conti delle pubbliche amministrazioni legati al sistema di contabilità nazionale sono sostanzialmente simili. Se prendiamo tutto il set dell'UE notiamo che i principali indicatori utilizzati sono indicatori di spesa ed entrata attraverso i quali vediamo il peso delle spese ed entrate delle amministrazioni locali rispetto al totale delle pubbliche amministrazioni. E' evidente che questi indicatori ci dicono qualcosa, ma non tutto, se non ci agganciamo ad un'analisi di tipo ordinamentale qualitativo, vale a dire che possiamo avere un paese in cui il peso della spesa delle amministrazioni pubbliche subnazionali è pari all'80% di tutte le spese pubbliche, un altro in cui lo stesso indicatore è pari al 50% di tutte le spese pubbliche; a prima vista potremmo dire che il primo è molto più decentrato del secondo. Se però andiamo a corredare quest'analisi di indicatori puramente quantitativi, con un'analisi delle modalità effettive con cui queste spese vengono gestite dai livelli inferiori di governo, quindi il livello di autonomia effettiva che hanno i livelli subnazionali di governo nelle scelte connesse a queste spese, possiamo arrivare a conclusioni diverse. Facciamo un esempio, assumiamo che le spese per l'edilizia pubblica in un paese siano gestite per l'80% dai livelli subnazionali di governo, in un altro, lo stesso indicatore è pari al 50%. Non possiamo dire che il primo è più decentrato del secondo perchè potremmo scoprire che nel primo paese questa spesa è predeterminata dal Ministero dei lavori pubblici centrali, il quale dice ai comuni che gli dà 100 € da impiegare per costruire alloggi popolari, in una determinata zona, il cui affitto non può superare il 10% delle famiglie affittuarie, che vanno seguite le regole per gli appalti pubblici fissate dallo stato... Un altro caso può essere invece, quello che lo Stato ti dà 100 € per costruire alloggi di edilizia pubblica, ma lascia libertà per quanto riguarda la scelta dei criteri di reddito, di localizzazione, di caratteristiche ambientali, di procedure di scelta per gli appalti pubblici. Non sempre quindi si può utilizzare un indicatore di spesa di questo tipo per valutare il grado di decentramento, intendendo per grado di decentramento una attività che implica la valutazione del margine di autonomia decisionale. Discorsi simili li possiamo fare dal punto di vista delle entrate, che è un tema molto importante in questi giorni.
Facendo un'analisi delle entrate possiamo vedere le entrate tributarie delle amministrazioni subnazionali; abbiamo visto il confronto del peso delle entrate tributarie locali rispetto alle entrate tributarie statali; in genere succede che avviene il fenomeno dello squilibrio verticale, che è la differenza tra il peso della spesa pubblica locale rispetto al totale delle spese di tutte le pubbliche amministrazioni, che non corrisponde al peso delle entrate: questo vuol dire che le spese delle pubbliche amministrazioni non sono finanziate al 100 % dalle entrate autonome. Occorre qualcosa che copra questo gap che si chiama proprio squilibrio verticale, perchè è uno squilibrio tra diversi livelli di governo in termini di autonomia di finanziamento che deve essere coperto dallo Stato con i trasferimenti, che devono essere ripartiti secondo determinati criteri. Per queste entrate autonome, a loro volta, così come abbiamo fatto il ragionamento della spesa con l'esempio dell'edilizia pubblica, abbiamo analoghi problemi; un discorso è un finanziamento derivante da una compartecipazione all'irpef che è un'entrata tributaria autonoma del comune, ad esempio il comune prende il 2% dell'iperf incassata in un certo territorio, ma è un'entrata molto diversa dal punto di vista dell'autonomia decisionale in termini di politica tributaria comunale, rispetto ad un'entrata come può essere a livello regionale l'IRAP, oppure la vecchia ICI che adesso si chiamerà IPU, in cui il comune poteva manovrare l'aliquota e non solo, perchè poteva individuare livelli diversi di base imponibile a seconda degli utenti. Già i decreti che riguardavano l'autonomia tributaria comunale nel 97 avevano previsto una fortissima autonomia regolamentare locale per l'ICI, tant'è che qualcuno aveva criticato questa decisione, dicendo che c'era troppa differenza nelle regole locali e che questa può creare problemi, ad esempio per la gestione delle imprese multimpianti che si trovano costrette a rispondere a regolamentazioni profondamente diverse. Un altro esempio. Le regioni a statuto speciale hanno un regime tributario autonomo, in genere il grosso del loro finanziamento deriva da una compartecipazione totale o al 80-90 % delle principali imposte erariali. Questi valori di entrata vanno a finire nelle entrate tributarie; questo vorrebbe dire che queste regioni sono autofinanziate con entrate tributarie proprie al 90%, a prima vista. Se andiamo a vedere quante sono le entrate tributarie, viste come le abbiamo definite prima, questa autonomia si colloca a livelli molto inferiori, in quanto la compartecipazione, se su di essa non c'è capacità di intervento normativo da parte degli enti locali, è una sorta di trasferimento mascherato. Lo dimostra anche la storia delle regioni a statuto speciale, che non si sono mai esercitate nella gestione di una politica tributaria autonoma, che si sarebbe dovuta svolgere attraverso la manovra delle aliquote e della base imponibile. Diverso è il discorso in caso di compartecipazione attraverso possibilità di forme diverse di compartecipazione alla stessa base imponibile, potendo avere una sovranità locale come è l'addizionale irpef adesso.
Il punto è che il dato è immediato, ma è bene fare sempre un'ulteriore valutazione, per arrivare a quella definitiva.
Le banche dati internazionali, l'ocse, da molti anni fanno  approfondimenti specifici, andando a studiare sui tributi locali, quali sono veramente autonomi in base ai criteri che abbiamo citato prima; da quel punto di vista è molto interessante perchè le statistiche cambiano significativamente se teniamo conto dei tributi veramente autonomi.
Sostanzialmente i tributi veramente autonomi sono quelli per cui l'amministrazione locale ha qualche potere sulla definizione della base imponibile e delle aliquote.
L'ultimo punto è la messa in luce del fenomeno dello squilibrio verticale, che è un po' il problema topico del finanziamento degli enti locali. Siccome il decentramento è una tendenza che, abbiamo visto, può avvicinare i cittadini alle politiche pubbliche attribuendo sempre maggiori funzioni, dovremmo attribuire sempre un maggior gettito tributario; questo non è possibile e quindi c'è un grosso problema di coordinamento finanziario tra livelli di governo, attraverso il sistema dei trasferimenti e soprattutto nella gestione delle compartecipazioni. Il sistema fiscale tende a mantenere i tributi delle imposte personali sul reddito a livello centrale, anche per un discorso di economie di scala. Si tende di più a fare un discorso di coordinamento tra amministrazioni delle imposte per livelli. In Italia siamo rimasti molto indietro, a partire dalla riforma tributaria del '70, quando con lo smantellamento sostanziale degli uffici tributari dei comuni, si è distrutto un patrimonio di esperienza che esisteva da prima. Negli ultimi 40 anni si sta cercando di ricostituirlo. Avrete sentito che è uno dei principi che è stato finanziato negli ultimi decreti, compreso in questo sull'autonomia tributaria dei comuni. E' una maggiore partecipazione delle amministrazioni locali all'accertamento delle imposte, garantendogli una maggior partecipazione al gettito accertato e riscosso dalle amministrazioni centrali.
Si tratta comunque di una strumentazione che con la sua razionalità è complessa,  metterla in pratica non è semplice, ci vorrà tempo.
C'è stato certamente un decentramento delle funzioni, anche qui la cautela è d'obbligo, rispetto a quello che abbiamo detto prima, che bisogna vedere i livelli di autonomia che esistono rispetto a questa spesa decentrata. Ad esempio la Grecia sembra aver avuto una crescita nella spesa, ma magari la spesa pubblica locale della Grecia può avere una minore autonomia locale rispetto a quella della Svezia. Stiamo ragionando in tassi di incremento, non in quota di spesa.
La Grecia avevamo visto è uno dei paesi meno decentrati d'Europa. C'è un discorso di struttura da tenere sempre presente. L'Italia si è esposta molto rispetto a questa retta di diversificazione, grazie a questa grossa crescita del peso dell'autonomia tributaria, crescita avvenuta dal '93 al 2000, dopodichè è rimasta sostanzialmente costante.
Questa è una dinamica che ho presentato per il problema posto, di come misurare il decentramento secondo gli studiosi di finanza pubblica.
Un altro profilo di queste analisi basate su indicatori di spesa e di entrata, ma magari corredati da valutazioni qualitative, rispetto alle tendenze della decentralizzazione, si basa su due assi di riferimento: uno è quello che ci indica il passaggio da sistemi centralizzati a sistemi decentralizzati. Potrebbe essere misurato da indicatori semplici, come quelli visti prima, ad esempio il peso delle spese delle amministrazioni locali sul totale delle spese delle amministrazioni pubbliche. Un'altra possibilità è sommare, fare la somma del peso delle entrate con quello delle spese, per avere un indicatore aggregato.
Quando abbiamo parlato di decentramento, l'abbiamo inteso anche come passaggio di funzioni da pubblico a privato, non solo da pubblico a privato di mercato, come si legge nel concetto di privatizzazione. Pensiamo alla vendita di aziende a partecipazione statale, come Enel, il sistema bancario..., che sono state privatizzate quasi del tutto o del tutto. C'è un discorso di passaggio al privato non solo di mercato, più o meno si aggancia alla tematica della sussidiarietà, c'è stata la tendenza a trasferire la fornitura di alcuni servizi prima a livello pubblico, a livello privato, creando istituzioni di tipo no profit.
L'asse verticale indica il passaggio di un'allocazione pubblica ad un'allocazione privata, che non riguarda solo il mercato, ma tutto il settore no profit sviluppatosi molto negli ultimi anni non solo in Italia.
Anche qui facendo un'analisi, (al di la della confusione di frecce) l'Italia la vediamo due volte, perchè a inizio anni '90 poteva essere collocata in via di sviluppo, ma ha poi avuto una crescita notevole negli anni '90.
Tutto ciò per dire che c'è stata una grossa tendenza al passaggio da modelli di welfare state che andavano verso la decentralizzazione, a modelli basati sulla decentralizzazione intesa nel senso stretto del termine, nel senso proprio di passaggio di poteri a livelli inferiori di governo, ma anche verso un'allocazione di risorse non pubblica, non solo in senso di privatizzazione con il passaggio di servizi ad un mercato, magari regolamentato.
Sta avvenendo con molta lentezza tutto quello che concerne i servizi pubblici locali come acqua, rifiuti... Si cerca di creare meccanismi in cui ad una gestione puramente pubblica, si sostituisca una gestione in cui ci sono anche elementi di mercato che consentono una maggiore efficienza nella fornitura di questi servizi. Anche questo è un esempio per far vedere come il fenomeno delle relazioni intergovernative è molto dinamico, è un sistema in continuo movimento e per monitorarlo occorre fare delle riflessioni. E' un'analisi che richiede strumenti multidisciplinari, che poi vedremo analizzando gli aggiornamenti delle politiche verso la decentralizzazione, che riguardano sicuramente l'economia, ma anche altre discipline, come ad esempio la sociologia.
Tutto questo ci porta al discorso sul perchè si decentra e quali sono i vantaggi. C'è un po' la tendenza oggi a dire che è giusto decentralizzare, ma è interessante capire come si configura da un punto di vista normativo, richiede uno sforzo analitico che può essere supportato da più discipline.
C'è una prima riflessione che deriva dal pensiero politico che identifica alcune ragioni di tipo politico che suggeriscono l'esigenza di avere più livelli di governo e di attribuire più poteri a livelli inferiori di governo. La questione della vicinanza di questi livelli di governo ai cittadini, rende più semplice il controllo sui governanti ( ad esempio incontro il sindaco per strada e gli faccio notare che c'è una buca e sarebbe necessario ripararla), nello stesso tempo più livelli di governo offrono più opportunità di scelta ai cittadini, i quali possono votare per più livelli, possono scegliere di più; magari non si è contenti del governo nazionale, c'è la possibilità anche di votare per altri. Questo è un secondo punto.
C'è un terzo punto che è molto rilevante, che è quello dell'educazione all'amministrazione della cosa pubblica. Adesso ci sono carriere politiche veloci, ma tempo fa si faceva gavetta partendo dal consiglio comunale di un piccolo comune; queste sono esperienze apprezzate da tutti coloro che hanno avuto il piacere di provarle, sia a livello personale che a livello formativo.
Un altro aspetto messo in luce dagli studiosi delle istituzioni politiche è quello della tutela delle minoranze, perchè siccome certe minoranze sono presenti solo in alcune parti del territorio, ci deve essere una maggioranza che tiene conto delle tradizioni linguistiche-culturali ed anche religiose di queste minoranze.
Le Regioni a Statuto Speciale, in particolare la Valle D'Aosta e il Trentino Alto Adige, nascono anche per queste ragioni di tutela delle minoranze. Questo aspetto può essere ambivalente perchè qualcuno degli studiosi classici, metteva in luce il rischio che il governo locale potesse consentire  la prevaricazione di piccoli, ma potenti gruppi di pressione, che potrebbero essere più potenti a livello locale, mentre a livello nazionale sarebbe più facile garantire appoggi per evitare la prevalenza di questi gruppi di pressione.
A volte la tutela delle minoranze può essere utilizzata come ragione contro il decentramento. Basta pensare alla questione delle minoranze razziali negli USA, solo grazie all'intervento del governo federale ( con amministrazione Kennedy), si riuscì ad imporre agli stati di non avere legislazioni con discriminazioni razziali, concedendo a tutti l'accesso ai servizi pubblici, a cominciare dalla scuola. In questo caso c'è la dimostrazione che la decentralizzazione non sempre può essere la soluzione ottimale, ci possono essere problemi di relazione tra livelli di governo e l'assetto costituzionale diventa cruciale per tenere insieme il paese.
Il tema dell'accentramento/decentramento è una tematica importante di cui sicuramente ognuno di noi avrà sentito parlare nei nostri studi di economia aziendale. La teoria dell'organizzazione partiva dai vantaggi di efficienza che possono derivare dall'accentramento dalla divisione del lavoro. La teoria dell'organizzazione classica privilegiava le grandi organizzazioni. Progressi nei sistemi di comunicazione hanno reso necessari i modelli accentrati di organizzazione, anche le ragioni della piccola dimensione possono garantire addirittura maggiore efficienza. Si possono trovare dimensioni efficienti anche senza avere necessariamente la grande organizzazione. Se è vero che il problema della divisione del lavoro e dell'efficienza che si possono avere sulla grande o piccola organizzazione sono sempre ambivalenti, vanno attentamente valutati. Pensiamo ai comuni, è evidente che c'è un discorso di livelli minimi di ampiezza delle amministrazioni comunali. E' chiaro che le ragioni in favore di una sorta di accentramento per le organizzazioni, che qui vuol dire un raggiungimento di livelli di dimensioni minime essenziali,  non è che  vada contro al decentramento,ma va contro una modalità di strutturazione del decentramento.
In effetti sono 20-30 anni che si insegue questo problema di organizzazione delle amministrazioni comunali. Probabilmente adesso i nodi verranno al pettine perchè con la nuova legislazione verranno richieste dimensioni minime di almeno 5.000 abitanti, bisogna vedere cosa questo comporterà rispetto all'impossibilità di fusione tra comuni.
C'è un terzo punto (forse è addirittura il più importante) delle ragioni addotte dalla sociologia dell'organizzazione che suggerisce che il decentramento favorisce l'innovazione del settore pubblico. Questa diventerà una delle ragioni più importanti perchè  è il ponte di passaggio a quelle che sono le ragioni economiche sul perchè è efficiente decentralizzare.
La presenza di più amministrazioni da un punto di vista economico è possibile perchè rende più vicina la dimensione della fornitura di servizi pubblici a quella di un mercato, perchè abbiamo più soggetti che producono gli stessi servizi. Pensiamo al comune di Torino e di Milano: devono fornire gli stessi servizi; questo ci rende possibile ipotizzare che il cittadino italiano potrebbe scegliere qual è il comune che svolge i migliori servizi ed andarci ad abitare. Questo in termini generali, vediamo una forzatura entro certi limiti, perchè se io sto a Torino non è che se penso che a Palermo i sevizi siano migliori mi ci trasferisco, ma questo modo di pensare può essere applicato tenendo in considerazione i comuni limitrofi.
La dimensione della capacità di innovazione e di fornitura efficiente di servizi pubblici, è la capacità che questa possa indurre i cittadini a muoversi sul territorio, ma non solo i cittadini, anche le imprese ed a localizzarsi laddove trovano non solo incentivi fiscali, ma proprio servizi e qualità della vita, che stanno diventando aspetti sempre più rilevanti.
Avere più enti piace agli economisti perchè dovrebbe mettere in atto dei meccanismi concorrenziali anche nel settore pubblico. Concorrenza e capacità di innovazione. Anche questo è un fenomeno presente, qualcuno avrà seguito il dibattito sui servizi pubblici locali; negli ultimi anni con la crisi fiscale della finanza pubblica purtroppo il dibattito è più sul come mantenere certi servizi, ma un tempo abbiamo avuto fenomeni come ad esempio l'asilo nido di Reggio Emilia, che era diventato un benchmark a livello internazionale, erano venuti gli americani a studiarlo per applicarlo negli USA.
Effettivamente il comune si proponeva di copiare quel modello. Ci sono anche attività che hanno stimolato la circolazione di questi successi innovativi. La teoria economica dell'innovazione dell'impresa può in certi casi essere proposta all'interno del settore pubblico; però sperimentazione e innovazione vengono favorite del fatto che ci sono pluralità di enti che si possono confrontare. Rispetto ad anni fa, la rivoluzione degli strumenti delle informazioni di massa e internet, ha cambiato tutto, perchè si può andare sul sito di un comune e reperire le informazioni necessarie. Questo è un fatto positivo, va a favore di una sempre maggiore decentralizzazione grazie a queste connessioni che possiamo avere.
Abbiamo visto quindi che le spiegazioni economiche sono quelle legate al meccanismo competitivo. Ci sono tre ambiti di spiegazioni economiche che daremo, due le vedremo velocemente per dare un'idea dei principali filoni di letteratura economica, una un po' meglio, il teorema della decentralizzazione di Pauly, economista americano che ha elaborato questa teoria negli anni '70.

Tratto da SCIENZE DELLE FINANZE di Andrea Balla
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