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Piccolo imprenditore. Impresa familiare



Il codice civile individua la figura del piccolo imprenditore, contrapponendola a quella dell’imprenditore medio-grande.
Il piccolo  imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore (ma si veda per un’eccezione). È invece esonerato, anche se esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili e dall’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali, mentra l’iscrizione nel registro delle imprese, originariamente esclusa, ha di regola solo funzione di pubblicità notizia.

Art. 2083 cod. civ.: “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.
Per aversi piccola impresa è perciò necessario che: a) l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa; b) il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell’impresa prevalgano sia rispetto al lavoro altrui sia rispetto al capitale investito nell’impresa.
La prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi deve correttamente intendersi in senso qualitativo-funzionale. È necessario cioè accertare se l’apporto personale dell’imprenditore e dei suoi familiari abbiano rilievo preminente nell’organizzazione dell’impresa e caratterizzino i beni o servizi prodotti.

L’art. 1, comma 2, legge fall., nel ribadire che i piccoli imprenditori commerciali non falliscono, stabilisce: “Sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila”.
“In nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali”.
Nella legge fallimentare questi è individuato esclusivamente in base a parametri monetari e quindi con criterio palesemente non coincidente con quello fissato dal codice civile (prevalenza funzionale del lavoro familiare). C’è la necessità di trovare un coordinamento fra le due norme, per evitare di cadere nel paradosso di dovere nel contempo riconoscere e negare allo stesso soggetto la qualità di piccolo imprenditore e agli stessi effetti.

Due modifiche sono intervenute nel sistema normativo:
L’imposta di ricchezza mobile è stata soppressa a partire dal 1° gennaio 1974. Il criterio del reddito fissato dalla legge fallimentare non è perciò più applicabile, per implicita abrogazione della relativa previsione normativa.
Il criterio del capitale investito non superiore a lire 900.000 è stato dichiarato incostituzionale nel 1989, in quanto non più idoneo, in seguito alla svalutazione monetaria, a fungere da scriminante fra imprenditori commerciali soggetti al fallimento e quelli esonerati.

La nozione di piccolo imprenditore oggi può essere così ricostruita. È piccolo imprenditore il titolare di un’impresa in cui prevale il lavoro familiare (art. 2083). In nessun caso sono però piccoli imprenditori le società commerciali (art. 1, 2° comma, legge fall.).

La piccola impresa e, soprattutto, la piccola impresa agricola e l’impresa artigiana godono di una copiosa ed articolata legislazione speciale.
Per stabilire se un dato imprenditore è esonerato dal fallimento perché titolare di una piccola impresa, si deve guardare solo alla prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo.
Questo principio subiva però fino a qualche tempo fa una vistosa eccezione per una delle figure tipiche di piccola impresa: l’impresa artigiana.
Il dato caratterizzante l’impresa artigiana risiedeva nella natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo. Rispettati i limiti per il personale dipendente fissati per talune le attività artigiani, l’impresa doveva ritenersi artigiana e sottratta al fallimento anche quando, per gli ingenti investimenti di capitali e la manodopera impiegata, non era più rispettato il criterio della prevalenza.
La qualifica artigiana era infatti riconosciuta anche alle imprese costituite in forma di società, purchè si trattasse di società cooperative o in nome collettivo ed alla condizione ulteriore che la maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro e, nell’impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Le società artigiane dovevano considerarsi esonerate dal fallimento, posto che la qualifica artigiana operava a tutti gli effetti di legge e quindi anche agli effetti del fallimento.
La legge n. 860 del 1956 è stata abrogata dalla legge quadro per l’artigianato n. 443 del 1985.
Anche quest’ultima contiene una propria definizione dell’impresa artigiana basata:
sull’oggetto dell’impresa, che oggi può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni;
sul ruolo dell’artigiano nell’impresa, richiedendosi in particolare che esso svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo, ma non, si badi, che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori produttivi.
Il personale dipendente deve essere personalmente diretto dall’artigiano ed è stabilito che l’imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana.
La legge del 1985 riafferma altresì la qualifica artigiana delle imprese costituite in forma di società cooperative o in nome collettivo, a condizione che la maggiorana dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell’impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Il lavoro in genere e non quello prestato dai soci.
La qualifica di impresa artigiana è stata successivamente estesa alla società a responsabilità limitata unipersonale e alla società in accomandita semplice, e più di recente alla s.r.l. pluripersonale.
È scomparso ogni riferimento alla natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti. La generale elevazione del numero massimo dei dipendenti consentono di conservare la qualifica artigiana anche raggiungendo le dimensioni di una piccola industria di qualità.
L’impresa artigiana certamente si caratterizza ancora per il rilievo del lavoro personale dell’imprenditore nel processo produttivo. Da nessuna norma della legge speciale è invece consentito desumere che debba necessariamente ricorrere la prevalenza (funzionale e/o quantitativa) del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul lavoro altrui e sul capitale investito.
La legge quadro ha realizzato una vistosa frattura rispetto alla legge del 1956 e preclude ogni residua possibilità di ricondurre il nuovo modello di impresa artigiana nell’alveo della definizione generale di piccolo imprenditore.
È quindi venuto meno il solo dato che imponeva di attribuire valore generale alla nozione di impresa artigiana contenuta nella legge speciale del 1956. Oggi, perciò, il riconoscimento della qualifica artigiana in base alla legge quadro non basta per sottrarre l’artigiano allo statuto dell’imprenditore commerciale. E’ necessario altresì che sia rispettato il criterio della prevalenza fissato dall’art. 2083. In mancanza, l’imprenditore sarà artigiano ai fini delle provvidenze regionali, ma dovrà qualificarsi imprenditore commerciale non piccolo ai fini civilisti e quindi potrà fallire.
L’iscrizione nell’albo delle imprese artigiane non preclude all’autorità giudiziaria di accertare se effettivamente sussistano i presupposti per il riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore.
Anche l’esonero delle società artigiana dal fallimento si deve ritenere cessato.
Una società artigiana godrà delle provvidenze di cui godono le altre imprese artigiane, ma in caso di dissenso fallirà al pari di ogni altra società che esercita attività commerciale.
Non è sostenibile che le imprese artigiane, rispondenti ai requisiti fissati dalla legge del 1985, siano imprese civili e non commerciali per difetto del requisito dell’industrialità.
La distinzione fra impresa industriale ed impresa artigiana è in funzione delle dimensioni dell’impresa e non della natura dell’attività.
L’imprenditore artigiano non è che un piccolo industriale e quindi, giuridicamente, rientra nella categoria degli imprenditori commerciali, come del resto emerge dal fatto che alcune delle attività esercitabili dall’impresa artigiana sono espressamente ricompresse nell’elenco delle attività commerciali di cui all’art. 2195.
Al pari di ogni imprenditore commerciale, l’imprenditore artigiano individuale sarà esonerato dal fallimento solo se in concreto ricorre la prevalenza del lavoro familiare. L’impresa artigiana in forma societaria sarà invece sempre esposta al fallimento in applicazione della parte restata in vigore dell’art. 1, 2° comma, legge fallimentare.

È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) e gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati) dell’imprenditore: cosiddetta famiglia nucleare.
È frequente che la piccola impresa sia anche impresa familiare, ma fra le due fattispecie non vi è coincidenza.
Il legislatore ha voluto predisporre una tutela minima ed inderogabile del lavoro familiare nell’impresa, destinata a trovare applicazione quando non sia configurabile un diverso rapporto giuridico e non sia perciò azionabile altro mezzo di tutela.
La tutela legislativa è realizzata riconoscendo ai membri della famiglia nucleare, che lavorino in modo continuato nella famiglia o nell’impresa (il lavoro domestico è equiparato a quello nell’impresa e il lavoro della donna è equiparato a quello dell’uomo), determinati diritti patrimoniali e amministrativi.


Diritti patrimoniali:
diritto al mantenimento;
diritto di partecipazione agli utili dell’impresa in proporzione alla quantità del lavoro prestato;
diritto sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell’azienda sempre in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato;
diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda stessa.
Sul piano gestorio è poi previsto che le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell’impresa e talune altre decisioni di particolare rilievo sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa.
Il diritto di partecipazione è trasferibile solo a favore degli altri membri della famiglia nucleare e con il consenso unanime dei familiari già partecipanti. È inoltre liquidabile in danaro qualora cessi la prestazione di lavoro ed in caso di alienazione dell’azienda.
Per quanto riguarda la titolarità dei beni aziendali, essi restano di proprietà esclusiva dell’imprenditore-datore di lavoro.
I diritti patrimoniali dei partecipanti all’impresa familiare vanno concepiti come semplici diritti di credito nei confronti del familiare imprenditore.
Sul piano gestorio il silenzio del dato legislativo in merito agli atti di gestione ordinaria va risolto nel senso che essi rientrano nella competenza esclusiva dell’imprenditore e che nessun potere competa al riguardo agli altri familiari. La violazione da parte dell’imprenditore dei poteri gestori ex lege riconosciuti ai familiari lo esporrà al risarcimento dei danni eventuali nei loro confronti, ma non inciderà sulla validità o sull’efficacia degli atti compiuti, che saranno perciò ugualmente produttivi di effetti nei confronti dei terzi.
L’imprenditore agisce nei confronti dei terzi in proprio e non quale rappresentante dell’impresa familiare. Se l’impresa è commerciale solo il capo famiglia-datore di lavoro sarà esposto al fallimento in caso di dissenso.

Tratto da DIRITTO DELL'IMPRESA di Enrica Bianchi
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