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Il silenzio dell’amministrazione come rigetto

Il silenzio dell’amministrazione come rigetto


La decisione del Consiglio di Stato affrontava solo la tematica di ordine processuale, perché riguardava esclusivamente le condizioni di ammissibilità del ricorso giurisdizionale, ma la dottrina e la stessa giurisprudenza successiva cercarono in genere di giustificarla in una logica di diritto sostanziale: il ricorso giurisdizionale doveva ritenersi possibile, perché il “silenzio” mantenuto dall’Amministrazione doveva interpretarsi come reiezione del ricorso: da qui il termine “silenzio-rigetto”.
La possibilità di individuare in un comportamento omissivo dell’Amministrazione un atto amministrativo rifletteva certamente un modo di ragionare tipico di quell’epoca.
Oggi questo modo di ragionare in genere non viene più condiviso, perché l’Amministrazione che tace su un ricorso non assume alcuna determinazione, e perciò nel “silenzio” dell’autorità adita con un ricorso gerarchico non si può identificare alcun atto.
Nel 1978, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato riprendeva in esame la questione e prospettava le seguenti conclusioni:
a.    nel silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non è identificabile un provvedimento di rigetto: la legge di limita ad attribuire “valore” di rigetto alla decorrenza del termine;
b.    in ogni caso, in ossequio al dettato normativo, una volta formatosi il silenzio-rigetto, il ricorso giurisdizionale si può proporre contro l’atto di primo grado, già impugnato in via gerarchica;
c.    proprio perché la decorrenza del termine, anche se non implica l’assunzione di un atto amministrativo, ha pur sempre “valore” equipollente a una decisione di rigetto, ogni eventuale decisione successiva di accoglimento del ricorso deve ritenersi illegittima, perché assunta in violazione del principio “ne bis in idem”;
d.    viceversa, la decisione successiva di rigetto esplicito del ricorso deve ritenersi improduttiva di effetti giuridici nuovi e, quindi, deve considerarsi come atto meramente “confermativo”, di per sé non impugnabile.
Alcuni problemi, però, non venivano risolti.
In particolare non si capiva perché una decisione tardiva di accoglimento dovesse ritenersi per ciò illegittima, con la conseguenza che il ritardo nella decisione provocato da un fatto dell’Amministrazione si risolverebbe in un danno per il cittadino.
Inoltre, il ragionamento dell’Adunanza Plenaria conduceva ad escludere la possibilità di qualsiasi garanzia di decisione nel caso di ricorsi proposti per vizi di merito, perché in questo caso le censure non sono riproducibili in un ricorso giurisdizionale, che è rimedio ammesso normalmente solo per far valere vizi di legittimità.
Nel 1989 il tema fu nuovamente preso in esame dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
In quell’occasione, ha sostenuto che la formazione del silenzio-rigetto non priva l’Amministrazione del potere di decidere il ricorso gerarchico, ma consente al ricorrente di scegliere fra la possibilità di un ricorso giurisdizionale o straordinario contro l’atto impugnato in via gerarchica, e la possibilità di attendere la decisione del ricorso gerarchico.
In questo secondo caso, alla scadenza del termine di 90 giorni si configura una situazione affine a quella del silenzio-rifiuto (o silenzio-inadempimento): il cittadino può notificare una diffida e poi tutelarsi come nei confronti di un silenzio-rifiuto.
In questo modo il cittadino può assicurarsi una decisione sul ricorso gerarchico.
Alla stregua di questa interpretazione più recente il silenzio-rigetto finirebbe col rappresentare sempre di meno lo strumento di raccordo tra il ricorso amministrativo e il ricorso giurisdizionale (o straordinario) e assumerebbe sempre di più il ruolo di strumento produttivo di utilità proprie, in particolare di rimedio idoneo a garantire effettivamente una tutela estesa al merito, anche se il ricorso giurisdizionale rimane circoscritto ai profili di mera legittimità.

Tratto da GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA di Stefano Civitelli
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