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L’intervento “iussu iudicis” nel corso del giudizio di secondo grado


La dottrina e la giurisprudenza sono pressoché unanimi nel ritenere che la chiamata in causa su ordine del giudice possa essere disposta unicamente nel corso del giudizio di primo grado.
La soluzione della dottrina e della giurisprudenza dominante è da accogliere con riferimento a tutte le ipotesi nelle quali, attraverso la chiamata in causa su ordine del giudice, si propone una vera e propria domanda giudiziale nei confronti del terzo: in queste ipotesi, infatti, le esigenze che sono alla base dell’art. 107 c.p.c. cedono il passo di fronte all’esigenza di garantire il doppio grado di giurisdizione.
La chiamata in causa iussu iudicis di terzi titolari di rapporti giuridicamente dipendenti dal rapporto dedotto in giudizio nel processo originario, potrà, invece, a mio avviso essere disposta anche dal giudice di secondo grado; e ciò perché:
- attraverso la chiamata in causa non viene proposta alcuna domanda nei confronti del terzo, e pertanto non è ipotizzabile alcuna violazione del principio del doppio grado di giurisdizione;
- la chiamata in causa è diretta ad evitare l’emanazione di una sentenza affetta da dolo o collusione a danno del terzo e tale esigenza può essere avvertita anche nel corso del giudizio di secondo grado;
- il terzo in esame è titolare di una posizione che lo legittima alternativamente all’intervento volontario e all’opposizione di terzo revocatoria, cioè ad un rimedio che comporta la perdita di un grado di giurisdizione;
- in quanto legittimato all’opposizione di terzo revocatoria, il terzo in esame potrebbe intervenire in appello onde prevenire la possibilità di emanazione di una sentenza viziata da dolo o collusione a suo danno: sarebbe pertanto assolutamente incongruo privare il giudice di secondo grado del potere di chiamarlo in causa, onde realizzare la medesima esigenza.

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