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Le conseguenze dell’errore sul rito e l’intreccio tra rito e merito


Il primo problema da esaminare attiene all’individuazione delle conseguenze dell’errore sul rito:
- il rito non è requisito di validità della domanda giudiziale: l’errore sul rito non determina la conclusione del processo con un provvedimento di rigetto per motivi di mera forma, ma solo causa di rilievo d’ufficio e di un provvedimento ordinatorio di mutamento di rito allo scopo di consentire che il processo si concluda secondo il rito prescritto con sentenza di merito che decida chi ha ragione e chi ha torto;
- le questioni di rito sono rilevabili d’ufficio sia da parte del giudice di primo grado sia da parte del giudice d’appello; gli atti processuali compiuti nelle forme proprie di un rito successivamente rivelatosi errato, non sono per tale solo motivo nulli e pertanto a seguito di mutamento di rito disposto nel corso del giudizio di primo grado non devono essere rinnovati, così come a seguito di mutamento di rito disposto nel corso del giudizio d’appello e non danno luogo né a rimessione al giudice di primo grado né a rinnovazione innanzi al giudice d’appello.
Ciò non significa però che l’errore sul rito sia irrilevante: stante la differenza tra rito ordinario e rito speciale specie per quanto riguarda preclusioni, prove e, in parte, disciplina fiscale, a seguito del provvedimento di passaggio di rito occorrerà provvedere a tutta una serie di integrazioni o depurazioni spesso di grossa rilevanza pratica (è da precisare che in questa sede si sta parlando di atti compiuti secondo le forme di un rito poi rivelatosi sbagliato, non della violazione di singole norme sul rito: in questo secondo caso la violazione darà come non darà luogo a nullità sulla base dell’applicazione del principio generale dello scopo di cui all’art. 156 c.p.c.);
le questioni di rito sono risolte dal giudice sempre con provvedimento avente la forma dell’ordinanza; ciò significa che tali provvedimenti “non possono mai pregiudicare la decisione della causa” ancorché dipendano dalla soluzione di questioni rilevanti anche ai fini della decisione di merito;
il problema più grande posto dalla disciplina del mutamento di rito attiene alla circostanza che la scelta del rito dipende dalla qualificazione giuridica dell’oggetto della controversia e che talvolta tale qualificazione è possibile solo sulla base dell’accertamento di fatti rilevanti ai fini della pronuncia di merito.
Poiché le norme sul rito sono norme sul procedimento e come tali possono per definizione condizionare il contenuto della decisione di merito, il principio di legalità impone che esse siano rispettate al momento della decisione di merito: di qui l’esigenza che il rito sia individuato anche sulla base della qualificazione giuridica dell’oggetto della controversia così come emerge al termine dell’istruzione; indice di tale esigenza sono per un verso l’assenza di un qualsiasi regime di preclusione in ordine alla rilevabilità degli errori sul rito, per altro verso la previsione che le questioni di rito siano risolte con ordinanza, cioè con un provvedimento che non solo non può pregiudicare mai la decisione di merito, ma che altresì è caratterizzato dalla modificabilità e revocabilità.
Il dire che le norme sul rito sono norme sul procedimento e che il principio di legalità impone che esse siano rispettate al momento della decisione di merito non può significare che la scelta originaria del rito sia rimessa totalmente alla mercé dell’attore salva la possibilità del giudice di disporre il mutamento di rito solo ove al termine dell’istruzione e sulla base dei risultati di questa emerga che il rito da applicare era un altro.
I molti studi dedicati all’argomento consentono oggi di intravedere la sua azione secondo queste linee principali:
il controllo da parte del giudice sulla scelta del rito operata dall’attore è “l’atto fondamentale della fase preparatoria”; tale controllo va effettuato sulla base di una “valutazione globale dell’oggetto della controversia”; tale controllo è svincolato dalla prospettazione dell’attore e va effettuato dal giudice sulla base di una autonoma qualificazione giuridica dell’oggetto della controversia, eventualmente anche alla stregua di un accertamento di fatto, allo stato degli atti;
il carattere provvisorio proprio di tale controllo comporta che esso possa essere modificato specie a seguito “dell’arricchimento delle fonti di convinzione che scaturisce dall’istruzione”: ove però il giudice dovesse adattare continuamente il rito alle mutevoli risultanze nel corso dell’istruzione, lo svolgimento del processo sarebbe distorto.
Di qui l’esigenza di integrare la lacunosa disciplina legislativa nel senso che, una volta disposto il mutamento di rito, la revoca della relativa ordinanza “possa avvenire solo ad istruzione esaurita sulla base di una valutazione globale delle risultanze di causa”;
in sintesi: il controllo da parte del giudice non può avvenire in qualsiasi fase del processo ma solo in limine litis sulla base di una valutazione allo stato degli atti, e ad istruzione esaurita sulla base della valutazione globale delle risultanze della causa; in tal modo per un verso non si rimette la scelta del rito all’esclusiva mercé dell’attore, per altro verso si evita di corrompere lo svolgimento del processo in un caleidoscopio di mutamenti di rito a ripetizione, per altro verso ancora (tramite il potere di revoca dell’ordinanza di mutamento di rito) si garantisce la controversia sia decisa sulla base del rito suo proprio previa la depurazione o l’arricchimento del processo degli elementi propri del rito secondo cui si sarebbe dovuto svolgere.

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