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I monarcomachi calvinisti

Le revisioni dottrinarie del Calvinismo
Nell'analisi delle revisioni dottrinarie del Calvinismo in materia politica bisogna considerare che il loro scopo fondamentale è di ribadire l'istituzione divina di certi poteri storici capaci di consentire alla vera religione migliori possibilità di consolidamento e di sviluppo. E così teorie come quella di Théodore Bèze lo fanno con la preoccupazione che la ragione di stato, espressione di una ragione mondana e laica, o la superbia e l'interesse del principe non passino sopra la legge di Dio, non trasgrediscano lo spirito evangelico e non oltraggino il diritto naturale cristiano e quella specie di conservatorismo biblico che deve caratterizzare i rapporti di dominio. Bisogna sorvegliare i poteri che reggono la comunità e perciò controllare le azioni del governo e della regalità per far sì che la legge biblica mantenga sempre una sua funzione sovrana nei confronti del potere mondano. Certe correnti del Calvinismo che, in modo diretto o indiretto, hanno evocato nelle loro lotte il principio della sovranità popolare, la dottrina del contratto, il diritto di opposizione e la subordinazione del potere alle leggi hanno dato un contributo allo sviluppo di idee liberali e democratiche, specialmente nei paesi in cui i Calvinisti erano in minoranza e dovevano difendersi dagli accerchiamenti e dalle repressioni della maggioranza sostenuta dai sovrani cattolici e dai centri di potere più direttamente influenzati dalla Chiesa di Roma. Le tensioni religiose, sfociate in guerre devastatrici specialmente in Francia, avevano motivazioni anche nella contrapposizione di interessi sociali ma l'accanimento di queste lotte si spiega soprattutto con la considerazione che in quel periodo il problema dell'eresia assumeva una sua particolare gravità. Dopo una breve parentesi umanistica nei primi decenni del ‘500, che sembrava favorire una cultura della tolleranza e del dialogo, l'eresia era tornata ad essere vista come la peggiore malattia che potesse contagiare il corpo sociale e la si combatteva con fanatismo religioso. Solo quando si comincia a comprendere che il pluralismo religioso non può essere soppresso, subentra un nuovo atteggiamento politico incline a non legare l'autorità del sovrano all'uno o all'altro partito confessionale per non compromettere la governabilità del paese. Il partito dei "politici", ispirato dal pensiero di Bodin, si impegnerà così nella riaffermazione dello stato come centralità essenziale della politica da tenere al di fuori delle dispute religiose. Diverso è però l'orientamento del partito calvinista che, specialmente in Francia ed in Scozia, cerca di elaborare delle teorie limitative di quel potere che i Protestanti sentivano come strumento di repressione nei loro confronti. Questo movimento, chiamato dei Monarcomachi, si oppone all'egemonia della regalità, invocando un diritto di resistenza nei confronti del potere ingiusto ed impegnandosi nella difesa di tradizionali autonomie giuridiche e di antichi privilegi medievali contro l'accentramento monarchico.

Théodore de Bèze e François Hotman: il regno e l'autorità
Il pensiero dei Monarcomachi trae origine dall'opera del teologo Théodore de Bèze, discepolo e successore di Calvino, il quale nel libro Du droit des magistrats sur leurs subjets sostiene che l'autorità dei magistrati, per quanto grande e potente, è limitata e che ci si può rifiutare di eseguire "comandi irreligiosi o iniqui" emanati da autorità manifestamente tiranniche. Questo diritto di resistenza non appartiene ai singoli ma deve essere affidato a dei magistrati intermedi, protettori dei diritti della sovranità ed insieme garanti verso il popolo. Se tali obbligazioni sono trasgredite dai sovrani, i magistrati intermedi possono reprimerli e castigarli anche con la forza. L'influenza di Bèze si nota nell'opera di François Hotman, La France Gaule: il re non ha alcuna investitura al "potere assoluto, eccessivo e infinito" e la sua autorità deve considerarsi subordinata ad una sovranità più ampia che è quella delle comunità sociali che formano il regno. Non è il popolo che deve assoggettarsi alla causa del re, è il re che è stabilito per la tutela del popolo. Deriva dall'impostazione di Hotman il principio che ciò che appartiene al re, cioè i beni della corona e le sue proprietà private, debba essere nettamente distinto da quello che si continua a chiamare il "dominio regale" ma che è in effetti l'insieme dei beni che appartengono al popolo. Egli si oppone quindi alle teorie che considerano patrimonio personale del sovrano tutte le proprietà pubbliche, così come si oppone al principio che le libertà dei sudditi debbano essere lasciate all'arbitraria disponibilità del sovrano. Il re è alla testa del corpo sociale perché deve orientare e sostenere la vita della nazione ma il regno, distinto dalla sua persona, è espressione di una sovranità globale della società che supera quella attribuita al sovrano. Hotman delinea così un'autorità del corpo sociale che può bilanciare quella del re ed anche opporsi ad essa, sempre però attraverso l'azione di poteri intermediari che si avvicinano, per la loro estrazione sociale, alla dignità regale ma che non sono lontani, per le loro funzioni di controllo e di garanzia, dallo stato popolare. Tutto questo in base al principio fondamentale che il re non è padrone della cosa pubblica e deve piuttosto presentarsi come il garante della struttura complessa ed articolata della società globale.

Le Vindiciae contra tyrannos

Una trattazione più approfondita di questi argomenti dal punto di vista politico e giuridico si ha nell'opera Vindiciae contra tyrannos, scritta in latino e tradotta in francese, a firma di Iunius Brutus ed attribuita a Hubert Languet. Si cerca in quest'opera di elaborare una teoria della resistenza alla tirannia rispondendo a quattro domande fondamentali:
1) se i sudditi debbano obbedire al principe quando questi comanda delle cose contrarie alla legge di
Dio;
2) se, in questi casi, sia permesso di resistere al principe anche con la violenza;
3) se sia lecito resistere al principe quando egli fa una politica comunque oppressiva e tirannica anche in materie sociali e civili;
4) se è lecito ai principi vicini intervenire per aiutare i cittadini di un altro paese oppressi dal loro principe.
La risposta che viene data a tutte queste domande è affermativa: si può non solo non obbedire ma resistere attivamente contro la politica arbitraria sia in campo religioso che in campo politico e civile e, se necessario, è legittimo l'intervento straniero a sostegno di una causa giusta.
L'abuso di potere si può dividere, tuttavia, in due categorie fondamentali:
-esiste il tiranno ex defectu tituli, che non ha cioè titolo legittimo per governare perché si è impadronito con la forza o con la frode del potere;
-il tiranno ex parte exercitii, che abusa di un potere di cui tuttavia ha avuto legittimo affidamento.
Contro i tiranni che non hanno titolo si può resistere direttamente con le armi, sia collettivamente sia individualmente; al sovrano che detiene il potere legalmente, ma che ne abusa, si deve invece resistere attraverso la mediazione di magistrati istituzionalmente preposti al controllo politico.

Il presupposto metodologico delle Vindiciae contra tyrannos è che l'ordinamento politico si fonda su un duplice contratto:
-il primo riguarda da una parte Dio, sovrano assoluto, e, dall'altra parte, il re ed il popolo congiuntamente. Popolo e monarca si presentano quindi davanti a Dio solidalmente e sono corresponsabili. Questo fa si che il popolo sia sempre garante del contratto fra Dio e il re e che perciò sia abilitato a difendere Dio contro il re; tale contratto serve dunque a legittimare non solo la sovranità del re ma anche quella del popolo, il quale ha l'obbligo teologico di controllare il potere e di evitare che degeneri nell'arbitrio.
-il secondo contratto si stabilisce fra il re ed il popolo e richiede che il re regni "giustamente secondo le leggi". Il popolo è indissolubilmente legato al re e non può considerarsi in alcun modo estraneo al contratto politico che fonda un ordinamento costituzionale. E' il popolo che stabilisce i re, che trasmette i regni, che conferma l'elezione del monarca con il suo voto. Il re è alla testa del corpo sociale ma non esprime la totalità delle prerogative e delle attribuzioni che Dio ha conferito alla comunità popolare e comunque il potere del re non è privilegio ed onore personale del sovrano, è piuttosto una funzione ed una responsabilità da esercitare per l'utilità dei sudditi. Il re non usufruisce di una immunità assoluta ed è responsabile dei doveri di tutela che ha verso il popolo; ne consegue che il re non può governare senza la legge e che depositario della legge è il popolo. La dignità regale quindi non è una proprietà ma una funzione ed il principe è soprattutto l'amministratore e il curatore di ricchezze pubbliche e deve perciò rispondere al popolo del suo operato. La conformità della volontà regale alla volontà delle leggi deve essere sempre garantita dagli "ufficiali del regno" che sono "difensori e garanti" del patto; il re che viola questo patto diventa tiranno. Queste posizioni dottrinarie sembrerebbero avere certe implicazioni democratiche ma si tratta certo di una democrazia molto diluita. Per i Monarcomachi il contratto che disciplina il potere legittimo del sovrano sul popolo e del popolo sul principe è interamente modellato sulla Bibbia. Esso serve soprattutto a far valere ciò che la fede esige e cioè che ogni rapporto di dominio assuma sempre come sua essenza il rispetto della legge divina, che è tuttavia rispetto della dignità del popolo. Tutto questo vale perché è contenuto nella Bibbia, per cui il contratto non è altro che lo sforzo di interpretare, di rendere espliciti e di tradurre in termini istituzionali gli imperativi dei testi sacri. Le forme di governo non interessano particolarmente a questi autori, la cui esigenza fondamentale è quella di esercitare un controllo religioso sul potere, comunque esso sia formato. Tutto questo non sembra troppo lontano dalle teorie del diritto naturale di derivazione aristotelica e tomistica; sembra invece che questi Monarcomachi ripristinino certi elementi della tradizione, sia pure adattandoli alle diverse esigenze del Calvinismo. Si può dire comunque che le teorie degli Ugonotti, opponendosi alla incondizionata priorità del potere monarchico, iniziano a far valere il principio della sovranità popolare. Deve però anche considerarsi che nelle teorie calviniste dei magistrati intermedi (gli Efori) il principale beneficiario risulta essere non tanto il popolo quanto la nobiltà ugonotta chiamata a cimentarsi contro l'aristocrazia cattolica ed il potere monarchico che la sostiene.

Il Calvinismo in Scozia

Chi per primo rovesciò la posizione originariamente espressa da Calvino sull'obbedienza passiva fu in Scozia John Knox, intransigente nemico della regina Maria Stuart e dell'alleanza della corona scozzese con la monarchia cattolica francese. Ispirazioni non dissimili da quelle delle Vindiciae contra tyrannos si ritrovano nell'opera del letterato scozzese George Buchanam: Platone, Aristotele e Cicerone, più che Calvino, furono i suoi maestri e la ripugnanza alla tirannia non ha in lui solo una motivazione religiosa ma anche una specifica legittimazione civile perché il despota distrugge antiche libertà e disgrega le forze morali e le leggi naturali necessarie alla stabilità delle comunità.

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