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Caso pratico in materia di pubblicità ingannevole: sentenza della Corte di Cassazione n. 794/2009 sulle sigarette "Light"

La sentenza n. 794/2009 della Corte di Cassazione affronta la possibilità di considerare responsabile il produttore di sigarette per i danni subiti dai fumatori, essendo la sigaretta un esempio di prodotto il cui utilizzo provoca danni ai consumatori.
In particolare, tale sentenza affronta il tema del risarcimento dei danni da fumo in seguito a pubblicità ingannevole, consistente nell’apposizione della dicitura “light” sul pacchetto di sigarette.
Il nostro ordinamento giuridico non contiene alcuna espressa tutela rivolta ai fumatori danneggiati.
Tuttavia, tale sentenza prevede che si possa porre in capo al produttore di sigarette una responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2043 c.c..
La Cassazione finisce infatti per affermare che l’apposizione di messaggi pubblicitari ingannevoli sulle confezioni dei prodotti genera un fatto ingiusto ex art. 2043 c.c., obbligando di conseguenza il responsabile a risarcire il danno.
Tuttavia, il consumatore che affermi di aver subito un danno a causa di tale messaggio ingannevole non dovrà provare solamente l’ingannevolezza della pubblicità, ma anche l’esistenza del danno, il nesso di causalità tra danno e pubblicità e la colpa di chi ha diffuso la pubblicità.
Anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in alcuni recenti provvedimenti, ha giudicato la dicitura “light”sulle confezioni di sigarette come pubblicità ingannevole.
Il quesito che ci si pone a questo punto è il seguente: al produttore di sigarette può essere attribuita una responsabilità per attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c.?
L’art. 2050 c.c. afferma che “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.
Ci si deve, perciò, chiedere se l’attività di produzione e commercializzazione di sigarette può essere considerata un’attività pericolosa.
Occorre, innanzitutto, definire le attività pericolose. Sono considerate pericolose quelle attività espressamente previste dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, ma anche quelle attività che, anche se non espressamente disciplinate, possano comunque essere considerate pericolose, potendo causare il verificarsi di  un danno.
La differenza tra l’art. 2050 c.c. e l’art. 2043 c.c. consiste nell’inversione dell’onere della prova: è il danneggiante, e non il danneggiato, a dover provare di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno (e, quindi, di non essere in colpa).
Egli non deve, quindi, provare solamente di non avere commesso nessuna violazione; deve invece dimostrare di avere adottato ogni misura idonea ad impedire l’evento dannoso.
Volendo, quindi, fornire una risposta alla possibilità o meno di considerare l’attività di produzione e commercializzazione di sigarette come attività pericolosa, è necessario premettere che alcuni ritengono di dover dare una risposta affermativa a tale quesito, provocando le sigarette un danno alla salute del consumatore.
Conseguentemente, secondo queste persone, l’omessa informazione sui possibili rischi che tale prodotto può causare alla salute comporta la responsabilità del produttore, il quale, non avendo dimostrato di aver adottato tutte le cautele idonee a evitare il danno e di aver informato il consumatore dei rischi a cui andava incontro, è tenuto a risarcire il danno.
Tuttavia, la risposta al precedente quesito è, in realtà, negativa.
La produzione e distribuzione di sigarette non rientrano tra le attività pericolose e il nesso causale tra il fatto, ossia la distribuzione di sigarette, e il danno, ossia il cancro ai polmoni contratto da un fumatore non sussiste nel caso in cui egli abbia consumato le sigarette consapevole dei rischi del fumo.
La pubblicità è, quindi, ingannevole solo nel caso in cui il consumatore non sia di ciò consapevole.
Infatti, secondo la sentenza del tribunale di Roma del 28 gennaio 2009, “nei confronti di chi produce e distribuisce sigarette non è invocabile il criterio di imputazione della responsabilità previsto per le ipotesi di esercizio di attività pericolose, posto che la pericolosità dei prodotti da fumo dipende anche dalla condotta di chi volontariamente li consuma” (e non solo dall’attività di chi produce e distribuisce tali prodotti).
La condotta in esame, pertanto, va vista alla luce dell’art 2043 c.c., e non dell’art. 2050 c.c., essendo la produzione e la vendita di sigarette un’attività  lecita e autorizzata dallo Stato.

Venendo all’analisi nel dettaglio della sentenza in esame, essa si occupa di un ricorso proposto dalla società British American Tobacco (B.A.T.) Italia S.p.a., avverso la sentenza n. 7/2005 del Giudice di Pace di Napoli, il quale aveva condannato la suddetta società al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno, “per aver colpevolmente prodotto, commercializzato e pubblicizzato confezioni di sigarette con l'utilizzo della dicitura "LIGHT", atta ad indurre in errore il consumatore medio in ordine alla presunta minore pericolosità e nocività di tali prodotti rispetto a quelli "normali".
L’attore incorse perciò in questo errore, e subì per questo “sia il danno da perdita della chance di scegliere liberamente una soluzione alternativa "rispetto al problema fumo”, sia il danno esistenziale dovuto al peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio del verificarsi di gravi danni all' apparato cardiovascolare o respiratorio”.
La British American Tobacco propone ricorso per vari motivi.
Innanzitutto, per quanto riguarda le questioni sulla giurisdizione, quindi a norma dell’art. 360 comma 1 c.p.c., il quale si riferisce ai motivi attinenti alla giurisdizione, la società ricorrente sostiene che la competenza a giudicare tale controversia spetti al giudice amministrativo, dal momento che la pubblicità in esame, a causa della quale il consumatore lamenti di aver subito un danno, era stata assentita con provvedimenti amministrativi, emanati dall'Ufficio Italiano Marchi e Brevetti e dall'Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato.
A questo proposito, la Cassazione afferma che si può stabilire se la competenza sia del giudice amministrativo o di quello ordinario analizzando la domanda proposta dall’attore.
Egli afferma di essere un fumatore abituale di sigarette e di aver già contratto, per questo, patologie respiratorie e cardiovascolari, ma non riuscendo a smettere di fumare, afferma di essere passato al consumo di sigarette che contenevano la dicitura “light” sul presupposto che fossero meno dannose per la salute e meno pericolose, contenendo una quantità inferiore di nicotina.
Tuttavia, egli lamenta il fatto che i suoi problemi di salute, invece di migliorare, grazie al consumo di queste sigarette, peggiorarono, essendo quasi raddoppiato il numero di sigarette da lui fumate.
L’attore era divenuto, pertanto, vittima di una pubblicità ingannevole, produttrice di danni per la sua salute, e di ansia per il pericolo di rimanere affetto da cancro, turbando di conseguenza la sua qualità di vita.
A causa di ciò, egli propose la sua domanda risarcitoria nei confronti della società produttrice di tali sigarette, chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali (la restituzione del prezzo pagato per 1'acquisto dei pacchetti di sigarette da lui fumati) e di quelli non patrimoniali, comprendendo questi ultimi sia il danno alla salute sia il danno alla qualità della vita.
Da questi elementi si desume che l’azione fatta valere dall’attore sia quella aquiliana, di cui all' art. 2043 c.c.
La società ricorrente non mette in discussione che la controversia sia dibattuta in ambito aquiliano; tuttavia, essa sostiene che la causa rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, in ragione del fatto che la pubblicità in questione, come già detto, era stata assentita con provvedimenti amministrativi.
La Cassazione però afferma che l'art. 7 del d.lgs 74/1992, intitolato "Tutela amministrativa e giurisdizionale" consente a determinati soggetti (i concorrenti, i consumatori, le associazioni di consumatori e di concorrenti, la pubblica amministrazione) la possibilità di rivolgersi all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per ottenere da essa un provvedimento che inibisca la continuazione degli atti di pubblicità ingannevole, eliminandone gli effetti.
La norma consente, dunque, di affermare che la tutela alla quale essa si riferisce è quella di carattere inibitorio, ossia quella tendente al divieto di iniziare o di continuare a porre in essere atti di pubblicità ingannevole.
Essa non prende invece in considerazione le azioni proposte per il risarcimento del danno causato dalla pubblicità ingannevole; azioni basate sull'art. 2043 c.c., come tali rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario.
La Cassazione afferma, quindi il seguente principio: "Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, e non del giudice amministrativo, la controversia promossa da un consumatore per conseguire, ex art. 2043 c.c., il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (sotto forma di danno alla salute o danno "esistenziale" dovuto al peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio del verificarsi di gravi malattie), facendo valere come elemento costitutivo dell'illecito la pubblicità ingannevole del prodotto (nella specie sigarette del tipo "LIGHT"), recante sulla confezione un'espressione diretta a prospettarlo come meno nocivo".

Per quanto riguarda il merito della vicenda, la ricorrente censura la sentenza innanzitutto per avere omesso di accertare la sussistenza o meno degli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana, i quali, comunque, non sarebbero a suo parere presenti nel caso di specie. La società ritiene infatti di non aver posto in essere una condotta illecita, innanzitutto perché dal fatto che la dicitura “light” sulle sigarette sia stata considerata ingannevole dall’Autorità ingannevole non consegue per forza la responsabilità civile, inoltre la dicitura “light” sui pacchetti di sigarette è stata vietata solo dal settembre 2003, di conseguenza per il periodo anteriore la condotta non può essere considerata illecita.

Aggiunge inoltre la ricorrente che comunque, come su ogni altro pacchetto di sigarette, anche nei propri pacchetti “light” erano riportate le avvertenze poste a tutela della salute dei consumatori.
Mancherebbe, inoltre la prova dell'elemento soggettivo, non essendo stato dimostrato che, con quella dicitura, la BAT mirasse a far ritenere le sigarette in questione come meno dannose per la salute.
La società ricorrente censura inoltre la sentenza per violazione e falsa applicazione dei principi in tema di prova del danno risarcibile. In particolare, secondo la BAT, “non esisterebbero né la prova, né l'accertamento sia in ordine alla perdita della chance da parte dell'attore di scegliere una soluzione alternativa rispetto al "problema fumo", sia in ordine ad un peggioramento della qualità di vita, sia in ordine allo stress ed al turbamento che avrebbero determinato tale peggioramento”.

Secondo la Cassazione, i motivi di ricordo proposti dalla ricorrente sono in parte fondati.
Afferma la Corte, infatti, che l’art. 2043 c.c. fissa i principi in tema di responsabilità aquiliana, i quali comprendono l’ingiustizia del danno, il nesso causale tra danno e azione e l’elemento soggettivo (dolo o colpa).
Al fine di ottenere il risarcimento dei danni, questi elementi vanno provati da parte di colui che esercita l’azione risarcitoria.
Il fatto che l’Autorità Garante abbia emanato un provvedimento inibitorio rende il giudice consapevole dell’ingannevolezza della dicitura in esame, ma non fornisce la prova dell’ingiustizia del danno subito, prova che deve essere dimostrata da colui che esercita la pretesa risarcitoria ritenendo di aver subito un danno ingiusto (nel caso di specie, un danno alla salute o all'interesse ad autodeterminarsi liberamente e consapevolmente) a causa della scorrettezza del messaggio.

Per quanto riguarda il fatto che la ricorrente sostiene che nel periodo anteriore al settembre 2003 la dicitura “light” non si possa considerare illecita ai fini risarcitori, invece, la Corte non è d’accordo.
Essa, infatti, afferma che “è pur vero che solo dal 30 settembre 2003 sono vietate diciture, denominazioni, marchi, immagini o altri elementi che suggeriscono che un particolare prodotto del tabacco è meno nocivo di altri. Tuttavia, tale circostanza non esclude che la dicitura della quale si discute non possa costituire il fatto integrante la responsabilità aquiliana antecedentemente a tale data. E ciò in quanto nella struttura dell'art. 2043 c.c. non rileva l'illiceità del fatto, bensì l'ingiustizia del danno, ossia che il fatto (assistito almeno dalla colpa) dell'agente abbia prodotto la lesione di una posizione giuridica altrui, ritenuta meritevole dall'ordinamento e non altrimenti giustificata”.
Questi concetti erano già stati messi in rilievo dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 15131/2007.
Anche in questa sentenza, infatti, la ricorrente sosteneva che la dicitura “light” era vietata solo dal 2003, mentre non poteva configurarsi nessun inganno nel periodo precedente.
Anche in quell’episodio, però, il motivo è stato considerato infondato, in quanto il fatto che dal 30 settembre 2003 non si possano più apporre sulle sigarette diciture che facciano credere che un certo prodotto di tabacco sia meno nocivo di altri, non significa che l’uso di tale dicitura non possa essere considerato produttivo di responsabilità aquiliana antecedentemente a tale data.
Questo perché l’art. 2043 non richiede che il fatto sia illecito, ma solo che il danno sia ingiusto. Per cui ciò che rileva è che il fatto dell'agente abbia prodotto la lesione di una posizione giuridica altrui, ritenuta meritevole di tutela da parte dell'ordinamento.
Rispetto agli elementi posti in evidenza, la sentenza impugnata si manifesta, a parere della Cassazione, affatto carente.
Non vi è, infatti, nessuna motivazione in relazione alla natura ingannevole della pubblicità; manca, poi, la prova della sussistenza del nesso di causalità tra la propagazione del messaggio ingannevole ed il danno ingiusto lamentato.

Manca, inoltre, qualsiasi argomentazione per quanto riguarda l'atteggiamento psicologico della società convenuta.
A proposito di ciò, la Corte sottolinea che la società produttrice di tabacco ha ragione nell’affermare che, al fine di ottenere il risarcimento dei danni, l’attore deve provare l’esistenza dell’elemento soggettivo.
Tuttavia, la ricorrente afferma poi che è necessaria la prova del fatto che essa abbia mirato a far ritenere le sigarette in questione come meno dannose per la salute.
Se così fosse, risulterebbe necessaria la prova del dolo, ossia della volontà di ingannare, invece è sufficiente dimostrare la colposa diffusione di un messaggio idoneo a produrre nel consumatore il falso convincimento riguardo alle caratteristiche del prodotto.

Manca, infine, nella sentenza impugnata, la sufficiente individuazione del pregiudizio risarcibile.
Essa non ha accolto la pretesa dell’attore relativa al danno alla salute, ma ha invece limitato il risarcimento alla "perdita di chance da parte dell'attore di scegliere liberamente una soluzione alternativa rispetto al problema fumo", nonché al "danno esistenziale dovuto al peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio di verificarsi gravi danni all'apparato cardiovascolare o respiratorio".
Non si è dunque menzionato, tra i danni ritenuti risarcibili, il danno alla salute, che l'attore aveva tuttavia lamentato.
La disciplina comunitaria relativa ai consumatori, invece, pur avendo la specifica funzione di proteggere il corretto funzionamento del mercato, si è pian piano orientata verso la protezione di specifici interessi del consumatore, in particolare la salute, fino ad attribuire ad alcuni di essi natura fondamentale.
La pubblicità ingannevole, infatti, lede sì il diritto del consumatore alla libera determinazione intorno alla scelta del prodotto, in quanto lo induce a prendere una decisione che altrimenti non avrebbe preso e ad acquistare un prodotto che altrimenti non avrebbe acquistato. In alcuni casi, però, tale pubblicità può anche incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente protetto e incluso dal Codice del consumo tra i diritti fondamentali del consumatore, in particolare all’art. 24 di tale codice, che si occupa della pubblicità di prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza dei consumatori.

Dall’esame dei suddetti elementi, la Corte ha potuto enucleare i seguenti princìpi :
1) “l'apposizione, sulla confezione di un prodotto, di un messaggio pubblicitario considerato ingannevole (nella specie il segno descrittivo "LIGHT" sul pacchetto di sigarette) può essere considerato come fatto produttivo di danno ingiusto, obbligando colui che l'ha commesso al risarcimento del danno, indipendentemente dall'esistenza di una specifica disposizione o di un provvedimento che vieti l'espressione impiegata”.

2) “Il consumatore che lamenti di aver subito un danno per effetto di una pubblicità ingannevole ed agisca, ex art. 2043 cc, per il relativo risarcimento, non assolve al suo onere probatorio dimostrando la sola ingannevolezza del messaggio, ma è tenuto a provare l'esistenza del danno, il nesso di causalità tra pubblicità e danno, nonché (almeno) la colpa di chi ha diffuso la pubblicità, concretandosi essa nella prevedibilità che dalla diffusione di un determinato messaggio sarebbero derivate le menzionate conseguenze dannose”.

In conclusione, per quanto riguarda la giurisdizione, per le ragioni esposte, la Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario.
Quanto agli altri motivi, deve essere accolto quello che lamenta il mancato rispetto dei principi informatori della materia; altri motivi sono inammissibili e altri ancora vanno accolti con dei limiti.
Il ricorso deve essere, dunque, accolto, con rinvio al giudice di pace di Napoli, il quale procederà ad un nuovo esame della causa, adeguandosi ai principi sopra enunciati. La Corte dispone inoltre che il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

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