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Umberto Eco e la pubblicità televisiva



L’autore vuole analizzare quali sono gli effetti delle comunicazioni di massa, ponendosi in una posizione intermedia fra gli apocalittici, che pensavano che le tecniche di comunicazione avrebbero massificato l’intera umanità, e gli integrati, fiduciosi in una diffusione di valori culturali alla portata di tutti. La comunicazione di massa livella le notizie, offrendole al proprio pubblico come una sorta di rumore indifferenziato. Eco critica McLuhan: il pubblico della comunicazione pubblicitaria non è indifferente ai contenuti (come invece pensava lo studioso americano, parlando del “villaggio globale”); è invece consapevole, e o non vuole difendersi dai messaggi pubblicitari, o sa già come farlo.
I discorsi della pubblicità si avvolgono su sé stessi, senza comunicare nulla, e lasciando che sia il pubblico a parlare per loro, portandoli a dire qualcosa che in realtà la pubblicità non voleva dire. Vladimir Propp aveva scoperto, studiando le fiabe russe, che ciascuna raccontava la stessa storia e tutte si strutturavano intorno ad alcune funzioni fondamentali, combinando alcuni elementi fondamentali; tutte le storie non erano altro che la stessa, e l’umanità continuava a raccontarsi una storia che ben conosceva dall’inizio. Non si provava però alcun sentimento di noia: il piacere del raccontare, e dell’ascoltare racconti, consisterebbe proprio nel ritrovare il già noto, anche se con qualche illusione di novità, qualche deviazione dalla linea maestra. Se il piacere dell’iterazione funziona, questo discorso può essere fatto anche per le storie raccontateci dai mezzi di comunicazione di massa: il pubblicitario in realtà non vuole rivelarci nulla, e utilizza un linguaggio stereotipato, che è già stato parlato, che è entrato a far parte di un codice e ci appare comunicante in blocco, come un motto, un proverbio, in definitiva un emblema. Il linguaggio pubblicitario è una pura funzione proposizionale che può sostituire le X e le Y della propria formula, senza che nulla accada; il pubblico infatti non si attende che dica qualcosa, ma che dica (non diversamente dai convenevoli quotidiani “Come stai?”, che non ci dicono affatto che l’altro vuol sapere qualcosa di noi, ma dicono solo che l’altro è là, che è in contatto con noi). In definitiva il linguaggio pubblicitario non è persuasivo o emotivo, ma bensì fàtico, o di contatto.
Il linguaggio pubblicitario, allora, si auto reclamizza in ciascun prodotto, non lavorando per i prodotti singoli, ma per sé stesso, facendo metapubblicità: il rumore di fondo crea quella che Eco definisce “coazione al consumo”, che spinge i consumatori fuori di casa a comprare qualcosa, magari anche molto diversa da quella che effettivamente volevano acquistare (dentifricio-automobile). Il messaggio deve puntare su un elemento che sia riconoscibile, simbolo di associazioni già note e riassuntivo di un carattere: ecco l’importanza del personaggio, nel quale si riassume uno slogan, una formula. Nel momento in cui questi personaggi e slogan circolano, però, distruggono il prodotto: lo slogan diventa modo di dire, nuovo patrimonio linguistico, argomento fàtico e va sclerotizzandosi, uccidendo il referente (come i quadri di Warhol per Campbell Soup). L’immaginario collettivo si popola di eroi molto esili, che a differenza di quelli dei miti che si imparano a scuola, non sono portatori di un’idea, come i personaggi mitologici di cui si è persa la nozione di ciò che dovevano simboleggiare, e rimangono portatori di valori ambigui. Questi personaggi sembrano colmare un’esigenza di un’epoca senza miti e senza eroi, che ha spinto i mezzi di comunicazione di massa a creare degli eroi sostitutivi, per colmare quel bisogno di figure esemplari che rimane nel pubblico. Questi eroi però sono deperibili, invadendo la scena per qualche stagione, e venendo poi completamente dimenticati.

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