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Il "Martirio di Sant’Orsola" di Caravaggio


La data
L’opera è del maggio 1610

Commissione
Marcantonio Doria
Il quadro viene spedito il 27 maggio 1610 e ne abbiamo notizia dalla lettera di trasmissione inviata dallo stesso procuratore Massa che la spedì insieme al dipinto. Il tutto recapitato in Genova a Marcantonio Doria il 18 giugno 1610.

Perché una committenza di questo tipo?
Suor Orsola era Anna Grimaldi figlia di Isabella della Tolfa. Questa Isabella, napoletana di origine, aveva sposato i prime nozze Agostino Grimaldi principe di Salerno; rimasta vedova aveva sposato Marcantonio Doria. Anna era dunque la figliastra di Marcantonio e aveva preso i voti a Napoli col nome di Suor Orsola nel monastero di Sant’Andrea delle Dame. Tutto ciò autorizza a supporre che l’idea di far dipingere a Caravaggio un dipinto dedicato alla leggenda di Sant’Orsola sia da mettere in relazione con un eventuale atto di affetto di Marcantonio Doria verso Suor Orsola che amava come una figlia. 

L’esecuzione del dipinto
La data di completamento del dipinto non può essere fissata troppo più in dietro della data di consegna. Il quadro era in possesso del Massa già l’11 maggio. Siamo di fronte ad un dipinto che è stato probabilmente eseguito in breve tempo e che è appena uscito dallo studio del pittore.
Procedimenti tecnici 
La vicenda è indicativa anche per far luce sui procedimenti tecnici adottati dal Caravaggio. Egli aveva consegnato il dipinto ancora fresco di vernice ce aveva stentato ad asciugarsi. Il consegnatario allora aveva tentato l’espediente di esporre il quadro al sole ma ciò aveva provocato che la vernice anziché asciugarsi tornasse ad ammorbidirsi. Così ricorse al Caravaggio che ristese la vernice e consigliò di non fare altro che aspettare che asciugasse la vernice. Apprendiamo così che Caravaggio usava una vernice molto "grossa" fatta di olio di lino e di sandracca e che faceva fatica ad asciugarsi.
Storiografia del dipinto negli anni a seguire fino a noi
La prima menzione che si ritrova è in un importante inventario manoscritto in cui sono registrati i quadri che erano in casa Doria e tra cui compare anche l’opera di Caravaggio che per altro, l’estensore dell’inventario definisce "Sant’Orsola confitta dal Tiranno".  
La menzione successiva si ritrova nel testamento di Marcantonio Doria del 19 ottobre 1651 che lo lascia al figlio primogenito.
Nel Settecento non emergono altre menzioni.
A Napoli menzionata nell’inventario dell’eredità di Giovan Carlo.
Nel 1845 l’opera è stata menzionata a stampa per la prima volta nella guida edita dal Nobile in occasione del settimo convegno degli scienziati dal titolo "Napoli e luoghi celebri delle sue vicinanze". l’opera è infatti indicata come una delle cose notevoli di palazzo Doria D’Angri.

L’iconografia del dipinto
La leggenda di Sant’Orsola: Al ritorno da Roma, dove si erano recate in pellegrinaggio presso Papa Ciriaco, Orsola e le undicimila vergini sue compagne, si trovarono coinvolte nell’assedio che gli Unni avevano stretto intorno alla città di Colonia. Le vergini furono martirizzate tutte e subito per aver voluto serbare intatta la loro fede e la loro purezza. Orsola, invece, ambita in sposa dal re unno, fu in un primo momento risparmiata ma ella, essendosi rifiutata alle nozze, fu uccisa di freccia dal re stesso.

L’iconografia precedente: L’iconografia tradizionale ha spesso rappresentato il martirio inserendo in uno sfondo paesaggistico, il pullulare di vergini con le loro marmorizzazioni. Pochi hanno dato un autonomo rilievo all’episodio preciso di Orsola trafitta dalla freccia. 

Il Carpaccio: Carpaccio organizza in un unico telero episodi che si svolgono in tempi e luoghi differenti, secondo un procedimento tipico degli arazzi franco-fiamminghi. Il racconto si snoda ritmicamente da un telero all’altro coinvolgendo lo spettatore nelle storie di Orsola e delle "undicimila vergini" sue compagne drammaticamente massacrate dagli Unni a Colonia.
Egli aveva si anche lui dato importanza a quell’episodio ma esalta il momento in cui il re da lontano sta ancora per scoccare la freccia contro la santa orante in ginocchio.

In un affresco di mano pinturicchiesco - ripandiana a Napoli nella chiesa di Donnaregina: mostra Orsola già colpita dall’unica freccia scagliata dal re però mentre questi cavalca; l’azione è inoltre rappresentata durante anche il martirio delle altre vergini.

Paolo Veneziano: dà l’unica rappresentazione italiana che iconicamente si avvicina a quella scelta da Caravaggio. Qui però Orsola figura colpita da due frecce e il re è in procinto di tirarne una terza.

Caravaggio: trattò il tema in maniera così inconsueta che nessuno riuscì a riconoscerlo.
Egli, attenendosi alla leggenda, prese in considerazione quest’ultimo momento e lo rese assoluto. La scena, infatti, rappresenta il culmine di un fatto violento espresso anche da un’unità drammatica della rappresentazione per la sua concentrazione di tempo luogo e azione.
Non vi è alcuno sfondo paesaggistico.
Rimuove ogni aura di santità della donna
riduce il pio racconto ad avvenimento pura vita vissuta. Le componenti storico. agiografiche sono infatti limitate ad un tentativo di caratterizzare l’esotico re unno e alla donna che muore trafitta dalla freccia. Tuttavia, mentre il re unno diviene un arciere di guarnigione spagnola del 1610 tanto che indossa una corazza così puntualmente raffigurata da doverla credere osservata dal vero, per la santa siamo convocati ad assistere soltanto al momento in cui viene trafitta e porta le mani al petto.

La composizione: La composizione sbalza per forza di puro lume dalla tenebra in una grandiosa messa a fuoco fissando l’attimo della violenza appena compiuta.

La tavolozza: Tutto il resto appare realizzato mediante una spregiudicata opera di pennello che fa ricorso ad un corpo estremamente scarno di colore sfruttando al massimo lo sfondo scuro come ombra universale e affidando l’evidenza dei corpi al solo appoggio dei chiari. Alcuni volti affiorano dal fondo scuro come fantasmi che crea un’atmosfera tra rassegnazione sgomento, tra presenza dolorosa e pura evocazione.

Sant’Orsola: La testa di sant’Orsola risale ad una delle due figure femminili della "Resurrezione di Lazzaro". Questa somiglianza con la donna del "Lazzaro" è tale da lasciar pensare che si tratti della stessa modella: ricorrenza non rara nelle opere del Merisi.

L’autoritratto di Caravaggio: La presenza di Caravaggio nel dipinto è stata interpretata da alcuni come un ritorno di colpa da altri come un voler dire che egli in carne e sangue ha assistito al fatto. C’è poi da considerare che, essendo amico di Marco Antonio Doria, Caravaggio volesse mostrarsi a lui intatto dato che si diceva fosse rimasto sfregiato.

L’identificazione del dipinto
Perduta traccia del dipinto dopo il 1845, voler trovare e identificare un "Martirio di Sant’Orsola" dipinto da Caravaggio significava innanzitutto dimenticarsi della tradizionale iconografia. Caravaggio non avrebbe mai perso tempo a inscenare una rappresentazione con uno sfondo paesaggistico e pullulante di vergini con le loro marmorizzazioni; bisognava piuttosto aspettarsi una composizione concentrata nel momento cruciale della storia e tale da fissarne l’attimo risolutore con evidenza fulminante.
Il Bologna aveva già visto nel 1955 un dipinto nella Villa dei Romano - Avezzana presso Eboli che gli dissero provenire dalla collezione Doria D’Angri. Egli presentò la foto al Longhi ritenendosi di fronte ad un dipinto di Caravaggio del periodo napoletano. Mina Gregori si pronunciò a favore dell’attribuzione a Caravaggio rifacendosi ad alcuni elementi quali:
Il Quadro rappresentava il martirio di una santa.
La scena rappresenta il culmine di un fatto violento espresso anche da un’unità drammatica della rappresentazione per la sua concentrazione di tempo luogo e azione.
Vari riscontri con altre opere del Caravaggio facevano pensare che il dipinto appartenesse all’ultimo periodo napoletano.
Si diceva inoltre appartenuto alla collezione Doria.
In un elenco redatto da Francesco Baratta nel 1831 in occasione del trasferimento a Napoli dei quadri ereditati da marco Antonio Doria Cattaneo , si dice che la Sant’Orsola del Caravaggio era rappresentata a mezza figura.
Un ulteriore dato di riconoscimento furono anche le misure del quadro: grazie ad un riscontro tra le misure date dall’elenco redatto dal Baratta nel 1831 e le misure del quadro di Romano- Avezzana siamo autorizzati a parlare di una sostanziale identità.
Si sapeva di una restaurazione del De Mata e che dietro la vecchia foderature è emersa la scritta che lo riferiva a Caravaggio: "di Michel Angelo da Caravaggio". La scritta in realtà includeva anche altre due indicazioni: La prima aggiunge al nome dello scrittore una data: 1616; la seconda reca una croce al di sotto della quale ci sono le iniziali "M.A.D.". Inoltre nella parte superiore della tela c’è una seconda scritta di altro carattere che dice: "del Caravaggio".  Attenendoci alle indicazioni della prima scrittura, paleo graficamente più antica, come spiegare quel 1610? se essa intendeva indicare la data in cui Caravaggio avrebbe eseguito il quadro, ciò urta con il fatto che il pittore morì nel 1610 dato questo accertato. Si è ipotizzato quindi che la scritta, pur essendo seicentesca, non sia originale. Si suppone quindi che l’iscrizione sia stata aggiunta in anni più tardi quando la nozione della data era approssimativa. Per quanto riguarda la seconda scritta, le lettere M.D.A sono chiaramente un riferimento a Marco Antonio Doria ed essere perciò intese come il marchio di appartenenza del dipinto. La croce sovrapposta lascia pensare che si voleva indicare che Marco Antonio Doria non era più in vita.
Non è in buono stato di conservazione: abrasioni, appiattimenti e alterazioni varie sono percepibili anche dopo il restauro del De Mata.
E’ inoltre dimostrabile che il dipinto subì una manipolazione in epoca abbastanza lontana data da un incongruo ampliamento. Il dipinto presenta l’aggiunta di due liste di tela pareggiate col colore al fondi in un momento evidentemente successivo a quello originale: una nella parte superiore e una lungo il lato sinistro. Si è inoltre notato che varie composizioni caravaggesche avevano subito in passato uno stesso tipo di manipolazione che era l’ampliamento. Anche questo quindi fu un ulteriore elemento per attribuire il dipinto a Caravaggio. Si è concluso infatti che l’ampliamente può essere ricondotto ad una ragione estetica: essendosi verificata cioè in tempi ormai lontani da Caravaggio un allontanamento dal gusto della forzata messa a fuoco sui primi piani di Caravaggio, si cercò di recuperare tali composizioni adeguandole al nuovo gusto creando arbitrariamente più aria intorno ad esse dilatando lo spazio inquadrante. Nel nostro caso poi l’operazione non può considerarsi riuscita: le aggiunte fanno si che le cinque figure risultino inspiegabilmente trattenute in basso e sospinte fino a produrre la sensazione erronea che esse siano solo il resto di una composizione originariamente più ampia, magari a figure intere.
Dunque il dipinto fu identificato come di Caravaggio.

Tratto da CARAVAGGIO, LA VITA E LE OPERE MAGGIORI di Katia D'angelo
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