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La "Flagellazione di Cristo" di Caravaggio


Il dipinto
Alcuni documenti ritrovati da Vincenzo Pacelli forniscono i primi dati precisi sulla "Flagellazione del Cristo" in San Domenico Maggiore.

Datazione: Sulla data del dipinto la critica non è mai stata concorde e si oscilla infatti tra il primo e il secondo soggiorno a Napoli. Altri addirittura pensano che sia stata eseguita in due tempi. 

Committenza: Entrambi i documenti riportano la committenza alla famiglia De Franchis. In particolare si pensa a Lorenzo De Franchis.

Spostamenti del dipinto: Nella ricostruzione proposta dal Pacelli circa gli spostamenti stabiliti dal dipinto, sappiamo che già nel 1652 la cappella riceve il titolo di "Flagellazione del Signore" come conseguenza del fatto che il dipinto del Caravaggio doveva essere collocato sull’altare a partire da quella data.
Per quanto riguarda gli anni precedenti si può ipotizzare che inizialmente l’opera trovasse posto nella primitiva cappella aperta verso l’esterno e che a causa del susseguirsi dei lavori fosse stata sistemata altrove. 
Nel 1675 un atto notarile stipulato tra Andrea De Franchis e i padri Domenicani ha dimostrato che la tela ha lasciato il posto a sull’altare alla statua in legno della Vergine del Rosario scolpita da Pietro Ceraso per essere trasferita in un’altra cappella detta "di zi Andrea".
Nel 1830 il Perrotta ci informa che il dipinto si trova provvisoriamente sistemata nella cappellina di sant’Antonio.
Successivamente il Chiarini ci informa che dopo il restauro del 1850 la cappella di sant’Antonio Abate fu oggetto di lavori strutturali per cui il quadro di Caravaggio fu spostato altrove.
Il Vitale precisa che il dipinto fu spostato nella cappella di Santo Stefano.
Un ulteriore passaggio è registrato nella cappella del Rosario.
Nel 1972 il dipinto fu ritirato per motivi di sicurezza della chiesa e portato nel Museo di Capodimonte. 

Precedenti iconografici
L’iconografia tradizionale della flagellazione si ricollega al testo evangelico nel quale questo supplizio è sempre preludio della passione.
Per la legge romana la pena doveva essere ricevuta in piedi e, nonostante gli Evangelisti non lo specifichino, Cristo è sempre stato raffigurato legato ad una colonna.
A partire dal XII secolo la lunga tunica con la quale Gesù era rivestito viene sostituita da un panno avvolto ai fianchi affinché fossero più visibili i colpi impressi sulla carne . 
I personaggi tradizionalmente raffigurati sono il Cristo, tre carnefici (raffigurati sempre più in maniera brutale e che assumono ghigni e pose feroci; di norma uno tiene in mano il flagellum, un altro il fascio di verghe, il terzo è intento a preparare un altro fascio di verghe), raramente gli spettatori.
La spinta verso una rappresentazione sempre più patetica e pittorica determinò l’introduzione di soggetti non previsti dalla narrazione evangelica come Pilato, la Vergine, San Pietro, Giuda.
Varie scene mostrano un aguzzino che poggia violentemente il piede contro Cristo per stringerlo più forte alla colonna.
La colonna verso la fine del Medioevo veniva rappresentata alta e sottile mentre negli anni della controriforma si fa bassa e cilindrica e non offre più una protezione per il dorso del Cristo che si piega così sotto i colpi.

Il cambio iconografico si deve alla storia e alla diffusione delle reliquie.
Infatti l’arte medievale si ispira al frammento della colonna in terra santa che i pellegrini e i crociati veneravano nella cappella dei francescani nella chiesa del santo sepolcro a Gerusalemme.
La colonna raffigurata dai pittori della controriforma è la colonna conservata nel 1233 nella Basilica romana di Santa Prassede. Questa era bassa, di marmo nero con venature bianche con in cima un anello di ferro per legarvi le corde che stringevano i polsi del condannato. Si diceva che lo zoccolo fosse rimasto a Gerusalemme.
La presenza delle reliquie di due colonne viene spiegata con più flagellazioni subite da Gesù ma certamente è la colonna di Santa Prassede quella che entra nell’arte a partire dalla fine del Cinquecento e raggiunge l’apice della fortuna nel Seicento.

L’iconografia
Caravaggio utilizza uno schema iconografico tradizionale:
Il Cristo indossa solo un panno annodato sui fianchi.
Sono presenti i tre aguzzini di cui uno è intento a legare le corde intorno ai polsi del condannato facendo forza con il piede appoggiato sulla gamba del Cristo; un altro mantiene Gesù violentemente per i capelli e il terzo è inginocchiato a preparare un altro fascio di verghe. 
Non compaiono testimoni estranei all’evento.

C’è però, una singolarità nella composizione che è non convenzionale dal punto di vista iconografico: Gesù è raffigurato già incoronato. Secondo l’iconografia tradizionale che rispetta la narrazione evangelica, la corona di spine viene posta sul capo di Cristo solo dopo l’episodio della flagellazione e l’interrogatorio di Gesù. Caravaggio così non rispetta l’iconografia tradizionale. Egli, in realtà, riprende nella stessa effige due distinti episodi della Passione: l’importanza della sofferenza e la fiera accettazione del dolore. In tale modo Caravaggio spinge l’osservatore ad una più sentita e pietosa partecipazione emotiva ed umana alla tragica ineluttabilità del destino.

Il dipinto:
E’ un’opera austera di strutture monumentali. Mostra il pittore orientato verso la raffigurazione di forme dilatate e di possenti volumi che si appropriano interamente dello spazio.
L’immagine scultorea e plastica del Cristo che avanza determinando una torsione del corpo, esprime un’energia contenuta che si riflette nei gesti, bloccati come in un’istantanea, dei manigoldi. Tutto ciò da origine a una rappresentazione di tragica concentrazione. Il senso di una tragedia sospesa e senza tempo, evidenziata dal rigore di una raffigurazione che esclude qualsiasi elemento descrittivo non essenziale, è accentuata da una fitta e incombente oscurità che fa avanzare dal fondo le figure colpite dalla luce. Questo rapporto tra abbagli di luce e ombra manifesta l’indagine del pittore sui fenomeni visivi e la sua fedeltà alla natura fisica del reale; ma sollecita anche il vero dramma della rappresentazione espressa dal senso comune di rassegnazione al cospetto della sofferenza umana e di fronte all’inevitabilità della morte.
Un altro elemento di grande forza pittorica è il ginocchio del Cristo con la materia che si sfalda fra il rosa della carne e il nerofumo delle ombre e la luce che da vita all’articolazione.
Ancora molto naturalistico è il viso del flagellatore di destra che è stato tagliato da una sciabolata d’ombra; la sua fronte illuminata e il suo occhio contrapposto che è ridotto ad un angolo scuro. 
Inoltre, come le altre opere napoletane dal Merisi, anche per questo dipinto si parla di una concentrazione e si una semplificazione della visione che si risolve sinteticamente in un’attenzione al contrasto dei piani. Infatti, qui il contrasto dei piani viene realizzato dalla figura accovacciata e dalla posizione del Cristo con la gamba avanzata: in tal modo i personaggi sono in posizione arretrata l’uno rispetto all’altro. Il gioco di incroci di gambe, polpacci e piedi, poi, evidenzia una struttura compositiva articolata e complessa.  
C’è poi il problema della colonna: essa taglia verticalmente la scena e occupa una posizione decentrata. In realtà inizialmente, quando il pittore aveva lasciato in riserva una porzione della tela sulla parte destra, la colonna occupava il centro esatto della composizione e soltanto in un secondo momento con l’ampliamento del supporto, la collocazione è risultata decentrata. Non sappiamo se tale allargamento sia stato dettato dai motivi compositivi o da ragioni pratiche come la sede nella quale l’opera doveva essere collocata.

La radiografia
C’è la presenza di un intenso ritratto di un uomo rivolto verso il Cristo che, ad una immagine radiografica sollecitata nel 1982 ha evidenziato al di sotto della spalla del flagellatore di destra palesando così l’evidenza di una precedente e diversa redazione. Vincenzo Pacelli pubblicando i risultati della radiografia ha ipotizzato che possa trattarsi del ritratto del committente riscontrando  somiglianze fisiognomiche tra questo e gli esponenti della famiglia De Franchis. Secondo l’Archivio storico del Banco di Napoli, l’11 maggio del 1607 Tommaso de Franchis paga 100 ducati a Michelangelo da Caravaggio a compimento di 250 ducati. Il documento dice: "a Tomase di Franco 100 ducati e per lui a Michelangelo Caravaggio dite ce li paga a compimento di ducati   250.. e sono in conto pel prezzo di un ……… che gli haverà da consegnare". La parola lasciata in sospeso è verosimilmente il tema iconografico del dipinto. Ciò può far ricostruire la vicenda in tal modo: alla data della committenza Tommaso de Franchis è solo certo che il soggetto dovrà essere una storia di Cristo. Successivamente, una volta definito il tema iconografico, non si ha la possibilità di inserirlo nel documento di commissione e di acconto. Così mentre il de Franchis decideva quale dei temi cristologici dovesse figurare nella grande tela per la cappella da poco avuta in dono, Caravaggio quasi a favorire una scelta futura dà inizio alla composizione eseguendone il ritratto. In seguito, sciolta la riserva, Tommaso fece cadere la sua richiesta sulla "Flagellazione di Nostro Signore".  Ciò andrebbe ad avvalorare la tesi secondo cui il dipinto è stato eseguito in due tempi. E’ stato anche ulteriormente ipotizzato che già realizzati personaggi di sinistra è stato occultato il ritratto a destra per non incorrere nel pericolo di far nascere il sospetto di una appartenenza del committente a cerchie religiose eterodosse dal momento che l’inserimento di un ritratto in un dipinto religioso era tipico dell’arte protestante. Il personaggio non è con certezza identificabile con Tommaso De Franchis ma è sicuramente da rifiutare il suggerimento avanzato che tale figura possa identificarsi con il San Francesco della tela Rodolovich poiché il santo nella sua dispersa pala si trovava al centro della composizione nella parte inferiore del dipinto. Chissà poi se non ci troviamo di fronte all’autoritratto di Caravaggio come testimonianza del suo tragico destino visto che erano anni in cui egli veniva visto come un uomo crudo.

Significato ideologico del dipinto
Il significato dell’opera è stato collegato al tema della Grazia come perdono che si identifica nella luce emanata dal corpo del Cristo e che riflettendosi sui manigoldi li rende partecipi della salvazione. La luce per Caravaggio nascerebbe sempre da una precisa visione teologica e sarebbe intesa nel suo significato ideale e divino quale mezzo di redenzione dal peccato; la sua funzione è quella di concedere la vita in opposizione alle tenebre che caratterizzando una materia informe sono da identificare con il male cioè la morte.

Tratto da CARAVAGGIO, LA VITA E LE OPERE MAGGIORI di Katia D'angelo
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