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François de Fénelon

La critica dell'assolutismo
Fénelon si discosta dalle idee di Bossuet sia per un diverso intendimento della spiritualità religiosa sia, in politica, per la diversa valutazione critica dell'assolutismo di Luigi XIV. Anche se l'autorità regia rimane l'essenziale riferimento della sua dottrina politica (che contiene poche tracce di elementi democratici), la mentalità di Fénelon è tuttavia più aperta, più tollerante e più sensibile all'esigenza di trasformare in senso più favorevole ai diritti dell'umanità le categorie dell'"alta politica" accentrate nella gloria, nella grandezza e nella potenza degli stati. Egli può essere considerato come un anello di congiunzione fra il '600 e il '700: mentre Bossuet è stato uno dei principali obiettivi polemici degli Illuministi, questi hanno invece visto in Fénelon quasi un loro antesignano. Si può notare in particolare un'influenza di Fénelon sul pensiero di Rousseau anche in materia religiosa e la sua teoria sembra avere attinenza con le teorie del dispotismo illuminato accolte da certi philosophes. Per quanto si possano trovare anche in Fénelon espressioni che esaltano la maestà dell'autorità, non vi è come in Bossuet l'idea di una socializzazione del potere monarchico. Egli riafferma invece la netta superiorità delle leggi: chi governa deve essere più di tutti obbedienti a queste ultime. Egli nega il trionfalismo monarchico che attribuisce a tutte le imprese del principe un carattere di eroicità e di verità. La sua è una visione più problematica e più relativistica degli affari politici: non mitizza i grandi uomini, non pensa che ci si debba attendere da loro più di quanto un essere umano possa dare e soprattutto rifiuta il principio che l'assolutismo sia espressione della positività dei valori politici e non invece, come lui crede, il massimo corruttore dell'autorità e della società. Dove il potere monarchico è incontrollato, si trovano i sovrani meno potenti perché la tirannia manda tutto in rovina e fa languire la vita civile ed economica. L'assolutismo non attenua ma ingigantisce la penosità e l'infelicità del potere. Governare è, per Fénelon, sempre una pena perché gli uomini sono indocili ma appunto perché si riconosce questa difettività antropologica, non si deve presumere né che il sovrano ne sia immune, né che la sua potenza illimitata la corregga. L'accentramento del potere e l'amore di sé rendono empi i tiranni e costituiscono il flagello del genere umano; per migliorare la qualità della politica, bisogna governare secondo principi che abbiano per scopo il bene dei cittadini. L'incontentabilità e l'ingratitudine degli uomini non devono essere pretesto per renderli schiavi o per tentare di cambiare radicalmente il governo ragionevole e giusto; il pessimismo che si può avere sulla condizione umana deve valere più come sollecitazione alla mutua tolleranza che non come giustificazione del dominio dei più forti sui più deboli.

La dottrina del quietismo

Con queste idee Fénelon non esita a prendere una coraggiosa posizione polemica nei confronti di Luigi XIV, assimilato a quei re che mettono il vizio sul trono e lo mostrano non solo a tutti i loro sudditi ma anche a tutte le corti e a tutte le nazioni del mondo. Luigi XIV accusa a sua volta Fénelon di essere uno spirito chimerico e ne denuncia anche presunti intrighi politici e deviazioni dall'ortodossia religiosa. Le idee di Fénelon intorno all'educazione del principe cristiano sono certo più vicine a quelle umanistiche di Erasmo che a quelle assolutistiche di Bossuet; esse mettono in evidenza le intrinseche ambiguità dell'esercizio del potere e quindi la necessità di una sua limitazione politica, giuridica e morale. Spirito profondamente religioso, Fénelon vede la fede connessa alla tolleranza ed al rispetto della libertà della coscienza: a differenza di Bossuet egli ritiene che la religione non sia materia di imposizione. Consapevole degli effetti perversi provocati dalla revoca dell'Editto di Nantes (emanato da Enrico IV nel 1598, tollerava la libertà di culto degli Ugonotti e li ammetteva anche alle cariche pubbliche mentre la revoca, ordinata da Luigi XIV nel 1685, li estromette dalla vita sociale costringendoli o alla conversione o all'emigrazione), Fénelon protesta contro l'arbitrio di questa politica religiosa, sostenendo che la fede non può essere un fatto di coazione e che dove c'è coazione, non c'è spiritualità. La ricerca della verità deve essere del tutto indipendente dalla paura servile: la forza non può convincere gli uomini, non può far volere loro ciò che essi non vogliono. Se le sue posizioni politiche lo privano delle cariche pubbliche e del titolo di precettore degli Infanti di Francia, certe posizioni religiose di Fénelon provocano nel 1699 la condanna da parte di papa Innnocenzo XII di alcune sue opere dedicate alla preghiera e all'educazione spirituale. Il motivo dell'accusa della Chiesa contro Fénelon riguarda la sua parziale adesione alla dottrina del quietismo e del "puro amore", una dottrina di origine spagnola che ebbe la sua ispirazione nell'ascetismo e nel misticismo di Miguel De Molinos e che si diffuse anche in Francia. Il quietismo si ispirava al principio che il fedele, per accogliere la divinità, dovesse rinunciare a qualunque forma di interesse personale e di affermazione dell'io; anche gli scrupoli morali, l'amore del prossimo e perfino l'orgoglio di essere cristiani, se considerati come meriti personali, sono modi equivoci di aprirsi alla divinità. L'anima può sporcarsi anche nel compiacimento della propria virtù. Il quietismo esige quindi la demolizione di tutte le forme di orgoglio; solo quando scompaginiamo ogni nostra ambizione, compresa quella morale, noi prepariamo il terreno affinchè Dio entri nella nostra anima senza che questa reagisca a Lui con nessun interesse personale. Il quietismo drammatizza anche la mancanza di essere che l'uomo sempre rivela: Dio è la realtà ed è l'unità ma l'uomo è solo pluralità, moltiplicazione, successione, frantumazione. L'uomo non può vedere il mondo tutto intero e non può vedere Dio tutto intero; la vera unità è solo Dio ma l'uomo non ha unità. Ha una moltitudine di bisogni, di interessi, di pensieri successivi ma l'unità, che è la verità, non la si trova in lui. La si può desiderare e cercare ma solo introducendo nelle sue aspirazioni e nelle sue ricerche delle inevitabili parzialità; l'uomo pensa tante cose ma proprio perché ha tanti pensieri, non può conoscere ciò che è uno. L'uomo non ha dunque una reale consistenza unitaria: parla di qualcosa ma, mentre ne parla, questa cosa è già finita; cerca le cose ma, cercandole, già le perde. La sua attualità si consuma nel momento e ciò che deve venire non è ancora, sarà ma non è. Questa riunione di cose che non sono più, che cessano di essere nel momento in cui sono e che non sono ancora, questa combinazione di elementi in realtà non è niente e questo niente si chiama io. Per Fénelon, quindi, l'uomo non può conoscere la religione nella sua compiutezza e ciò vuol dire anche che non sappiamo cosa domandare a Dio perché, non avendo la verità, non abbiamo le domande giuste da rivolgergli. Il quietismo non chiede all'uomo di rinunciare alla pluralità perché ciò sarebbe impossibile; gli chiede però di non attivarla troppo con l'abuso dei particolarismi e, d'altra parte, di non scambiare per verità universale ogni nostra ambizione di assoluto. La religiosità che il quietismo propone consiste quindi nell'andare verso la contemplazione escludendo, per quanto possibile, il gioco degli interessi egoistici. Attraverso la pratica del quietismo si assume consapevolezza che deve essere Dio a ordinare e non noi a prescrivere ciò di cui abbiamo bisogno da Lui. La preghiera, perciò, non deve essere solo moltiplicazione e abbellimento di parole ma perché esprime la disposizione dell'uomo a demolire ogni superbia personale per meglio accogliere la divinità. Questa interpretazione del misticismo, della preghiera e della contemplazione è apparsa suscettibile di implicazioni ereticali rispetto alla tradizione cattolica e così la Chiesa ha reagito condannandola, almeno in parte.

Il bene della pace
Si comprende come le idee religiose di Fénelon potessero influenzare anche il suo pensiero politico, soprattutto favorendo la critica di ogni forma di trionfalismo monarchico. Egli è un critico coerente ed intransigente dell'assolutismo e della pretesa che Dio sia, in ogni caso, il supremo fondamento ed il supremo garante di una regalità divinizzata.
Questi suoi convincimenti religiosi non consentono a Fénelon di trattare da eroi i protagonisti di una politica di potenza e di conquista: egli è un pacifista deciso, il più deciso dopo Erasmo, più animoso su questo tema di quanto non lo sia stato Grozio. L'arbitrio trionfa quando i potenti colpiscono i vincoli di giustizia fra popolo e popolo, quando distruggono fra di loro l'umanità e la buona fede, quando non rispettano i trattati e li piegano ai loro interessi espansionistici. Le obbligazioni di ciascuno verso la propria patria non dovrebbero soppiantare quelle verso l'umanità; le guerre sono il peggiore dei mali e disonorano gli individui e le nazioni. Bisogna quindi opporsi alla politica dell'espansionismo e dell'imperialismo: gli imperi fanno male nel momento in cui si fondano perché si costruiscono sulla prevaricazione e perché fomentano le più sfrenate ambizioni ma fanno male anche quando, come fatalmente accade, si disgregano perché la lotta per la spartizione delle spoglie fomenta il sopruso e l'anarchia. Vantaggioso per i popoli sarebbe invece ricercare un equilibrio fra stati relativamente piccoli e moderati nelle loro estensioni e nelle loro pretese. Fénelon si ispira ad una politica di concerto europeo che, anziché sul dominio di uno stato sugli altri, si fondi sull'equilibrio delle potenze e su articolati sistemi di mediazione e di arbitrato.

L'austerità sociale
Tutto questo non significa però che Fénelon sia particolarmente sensibile a idee democratiche di libertà. Esalta il valore delle leggi, auspica il consenso dei cittadini affinchè queste siano efficaci e rispettate, accetta il principio che "il re deriva i suoi attributi di grandezza soltanto dal popolo" ma non pone la fonte del potere e della legalità in un principio di sovranità popolare. In materia economica il suo evangelismo ed il suo quietismo gli fanno ritenere che non soltanto la tirannia e la guerra causino l'infelicità e la miseria del genere umano ma anche il lusso e le smodate passioni per la ricchezza ed il profitto. Egli stabilisce appunto una corrispondenza fra il lassismo sociale provocato dal lusso ed il potere dispotico che profitta della maggiore fragilità etica di individui troppo attratti da immediatezze particolaristiche. Queste idee di austerità e di onesta frugalità non saranno riprese dalla maggior parte degli Illuministi che vedono, anzi, il lusso come condizione di sviluppo economico e di emancipazione per tutte le classi sociali. Le virtù tradizionali che ispirano il pensiero sociale ed economico non impediscono tuttavia a Fénelon di riaffermare in modo esplicito che la politica deve occuparsi positivamente del bene pubblico e non abbandonarlo ai vizi, agli arbitrii ed alle assurdità di un'autorità illimitata.

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