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I sindacati e l'autunno caldo: 1969 – 1971


Lo sviluppo reale del famoso autunno caldo risultò alquanto diverso da quello che i gruppi si aspettavano: la coscienza anticapitalista no era poi così diffusa come essi pensavano, o perlomeno speravano; in secondo luogo, la tradizionale fedeltà della classe operaia ai sindacati e ai maggiori partiti della sinistra non sarebbe venuta meno tanto facilmente.
Proprio i sindacati italiani furono abili nel cavalcare la trigre dell'attivismo operaio, mostrando un notevole spirito di adattamento. Ciò gli fu consentito dalla almeno parziale autonomia che si erano ritagliati rispetto ai partiti politici: uomini della CGIL come Luciano Lama e Bruno Trentin insistettero affinché il sindacato determinasse la propria risposta in merito agli eventi senza condizionamenti da parte del PCI; la CISL ugualmente si allontanò dalla sfera di influenza della DC e la FIM fu una delle protagoniste dell'autunno caldo, dimostrandosi persino più radicale della FIOM; perfino la UIL, consapevole di rischiare l'estinzione se fosse rimasta un sindacato padronale, si aggiunse alle altre due.
La strategia sindacale fu abbastanza chiara: il sindacato doveva essere un veicolo per le riforme. Le nuove richieste e forme di lotta che venivano dalla base non dovevano essere rifiutate come estremiste, ma piuttosto essere incanalate in una strategia sindacale che portasse verso una vittoria duratura del mondo del lavoro. I sindacati cercavano di aumentare le loro forze, sia a livello di fabbrica sia a livello nazionale, per poter costringere la classe dirigente, sia economica sia politica, a realizzare una volta per tutte quelle riforme essenziali tante volte promesse ma mai poste in atto dalle coalizioni di centrosinistra.
Il primo gradino di questa offensiva si realizzò con la mobilitazione nazionale per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici e quasi un milione e mezzo di operai aderirono allo sciopero. I sindacati sposarono la causa degli operai comuni e colsero gli imprenditori alla sprovvista per l'aggressività e la determinazione con cui praticarono le nuove forme di lotta: fu questo l'autunno caldo. Nel dicembre del 1969, al termine dell'autunno caldo, il nuovo contratto nazionale firmato fu una vittoria per i sindacati e l'attivismo: venivano garantiti aumenti salariali uguali per tutti; si
introduceva nei tre anni successivi la settimana di 40 ore, e si assicuravano particolari concessioni agli apprendisti e ai lavoratori studenti. I sindacati ottennero anche il diritto di organizzare assemblee all'interno delle fabbriche nelle ore lavorative, pagate dai datori di lavoro fino ad un massimo di dieci ore all'anno. I gruppi rivoluzionari lo bollarono come un contratto bidone ma non c'è dubbio che comunque i sindacati metallurgici avevano trovato una nuova unità.
L'autunno caldo, del resto, non segnò certo un passo avanti nel processo rivoluzionario quanto piuttosto nel cammino di riaffermazione della leadership dei sindacati all'interno delle fabbriche. Ciò che contraddistingue questo periodo di scioperi è l'estensione massiccia del fenomeno ad altre categorie industriali (chimici, edili, ferroviarie eccetera) e addirittura ad ampi settori del terziario, dagli insegnanti ai baristi. Cosa ancora più sorprendente, soprattutto per gli imprenditori, è che gli scioperi non si fermavano dopo la firma dei vari contratti nazionali e le ondate di protesta continuavano inesorabilmente: nell'autunno del 1970 gli operai delle più grandi fabbriche mossero di nuovo all'offensiva.
La tradizionale priorità degli accordi nazionali rispetto alla contrattazione aziendale era quasi scomparsa: l'iniziativa era passata decisamente a livello di singola fabbrica, una soluzione che si rivelò immediatamente efficace perché i sindacati rispondevano con rapidità alle richieste operaie di maggiore rappresentatività e democrazia.
I sindacati andarono subito oltre, introducendo un nuovo sistema di rappresentanza basato sui consigli di fabbrica, composti da delegati di ogni reparto o sezione di fabbrica, con assemblee aperte a tutti i lavoratori, superando il vecchio modello delle commissioni interne. Dove la strategia sindacale fallì fu nel costringere il governo a varare le grandi riforme sulle pensioni, sulla casa, sulla salute, sulla scuola e sul sistema fiscale. I perché li vedremo successivamente.

Tratto da STORIA CONTEMPORANEA di Gherardo Fabretti
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