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Giuseppe Parini – Un notturno


Il componimento esordisce con un Né che risulta di palese collegamento con la fine del precedente Vespro. È una scena di genere, se vogliamo, a tinte forti e fosche, quasi sovrapposte, che fa contrasto coi toni ironici e satirici, e stilisticamente alacri o addirittura sprezzati, che caratterizzano in generale il resto del Giorno; anzi il contrasto è subito stabilito qui stesso, perché la notte, che in relazione al Giovin Signore è dichiarata benigna, si rovescia ora in maligna.Di solito si insiste sul carattere prefoscoliano e preromantico del componimento ma in realtà il genere notturno, anche trattato con pari cupezza, è ben diffuso sia nella poesia che nella pittura del tempo di Parini. Il quale, in rapporto all'assunto, dopo un attacco di marca soprattutto virgiliana, sovraccarica la scena di aggettivi e verbi che significano orrore e terribilità, atmosfera mortuaria  (orrori 9, terribil 10, ferali 15, orribilmente 20) e di termini che indicano tenebrore (tenebre 4, squallida 5, ombra 10, smorte 17 e 18, opaco 20, pallide 25) e relativa smisuratezza (remote 7, Giganteggiando 11, acutissimo 27, per lo vasto buio 28).
Collaborano agli effetti cercati la fitta presenza di solenni polisillabi, da camminando 8 in poi e le coloriture latineggianti: squallida 5, timida e debil 6, antiqui 13, miserandi 16, opaco 20. Alle dominanti rappresentazioni visive, anche segnate da tratti deittici e che ai vv. 6 – 8 si slargano con magnifica apertura al cosmo, si intrecciano quelle acustiche, ottenute pure fonosimbolicamente (upupe e gufi 14, auguri 16) e sono queste a chiudere stridentemente il brano.  Nel notturno paesistico si inserisce poi a un certo punto (vv 21 – 24) la microsequenza cittadina e sociale del sospettoso adultero che non per niente piacerà al Leopardi della Vita solitaria e che qui costituisce un sicuro collegamento agli ambienti e ai caratteri predominanti passati in rassegna nell'opera e ai relativi toni poetici.L'endecasillabo sciolto è trattato come sempre dal Parini, diversamente da Foscolo, il più possibile senza contaminazioni, cioè quasi senza rime; semmai è sensibile l'effetto di rima, ma all'interno, tra camminando 8 e Giganteggiando 11, e quanto alla ripetizione alla fine di due versi successivi di smorte fiamme, essa ha sapore tutt'altro che poetico, anzi di prosa. L'endecasillabo è anche continuamente sfumato da enjambements più o meno marcati, che portano spesso le pause, anche forti, all'interno del verso: cfr. specialmente 6 e 10; viceversa è notevole che nei cinque versi finali, più distesi come vuole la tecnica della chiusa ma anche dilatanti, non ci siano inarcature e la pause cadano tutte a fine verso. Anche qui splende l'abilità dell'artefice. Altra caratteristica saliente del pezzo è l'uso cospicuo delle parole sdrucciole, da squallida e timida che si rispondono ai vv. 5 – 6 a vagavano 19, tacito 20, adultero 21, pallide fantasime 25, acutissimo 27, rispondevano 29, come si nota dunque raggruppate accortamente in tre zone. Sopra a tutto sono splendidi la proprietà e l'acume dell'aggettivazione, per lo più anticipata, e non meno che geniale nella terna asindetica allitterante del v.5 Sola squallida mesta; gli stridi sono ferali, le fiamme sono smorte, l'aere è tacito e opaco, l'adultero sospettoso.Si può magari avere il dubbio che questa grande prova di braura sia un po' uno stuzzichino, in un certo senso estraneo al clima dell'opera in cui è inserito; ma forse è meglio sospettare che questa è la voce di un altro, e forse più grande Parini, alla quale normalmente egli stesso tende a non lasciare via libera. Parlano in questo senso le spie individuate da Maria Antonietta Terzoli nel secondo Mattino, con l'assimilazione del Giovin Signore a divinità ctonie, notturne, funebri, e soprattutto nel quarto frammento relativo alla stessa Notte, dove il Signore è trattato in modo simile al Don Giovanni della vulgata sei – settecentesca e come quello condannato a sprofondare negli inferi. Evidentemente ciò cambierebbe il senso di questo passo, e in genere il valore della Notte: da un lato, un pur terribile ma autentico momento della natura che si oppone alla notte moderna, cittadina e artificiale in cui sempre è immerso il Giovin Signore; dall'altro, complemento alla notte consuetudinaria di costui che, come nel tipico simbolismo dell'età illuministica, si oppone alla luce e al giorno in quanto figura del negativo contro il positivo (cfr. Mozart e il Flauto magico che annienta la Regina della notte).


Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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