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Il rapporto amante-narrazione

L'altra necessaria

Scrivendo l'autobiografia di Alice Toklas, Gertrude Stein contravviene alla regola elementare per cui il protagonista di un'autobiografia ne è anche l'autore. Alice vive con lei: è la sua amica e amante. Gertrude scrive a mano e Alice batte a macchina. Alice dunque riscrive, copiandola parola per parola, la sua autobiografia, scritta dall'altra, dove lei stessa risulta narratrice. In ultima analisi, l'autobiografia di Alice Toklas e dunque un'autobiografia di Gertrude Stein, scritta da Gertrude Stein, dove Gertrude medesima compare però nel testo come un personaggio narrato da Alice. Il genere autobiografico e quello biografico si sovrappongono. Alice guarda e descrive ciò che vede. Il privilegio dello sguardo segnala un altro trucco cruciale. Gertrude costruisce un testo dove ella si guarda con gli occhi dell'altra. Alice che guarda e che racconta, più che essere un artificio letterario, è qui l'altra necessaria. Gertrude Stein adatta per quanto possibile la sua scrittura alla posizione prospettica e narrativa dell'altra. Il privilegio dell'orientamento visivo produce la curiosa assenza di ogni accento sentimentale. Privo di indagini psicologiche, il testo è una festa dell'esibizione e dell'apparenza. La realtà del sé, lungi dal possedere una interiorità, è tutta esterna. Il testo è scritto da Gertrude e narra principalmente di Gertrude. C'è così nell'autobiografia, la strana pretesa di un sé che si fa altro per potersi raccontare. Uno scritto può dirsi autobiografico non perché il firmatario racconta la sua vita, ma perché questa vita egli se la racconta, perché egli è il primo, se non il solo, destinatario della narrazione. Nell'esercizio autobiografico, la scrittura e l'oralità segnano una differenza. Da millenni gli esseri umani scrivono le loro storie di vita in appartata solitudine, ma solo un pazzo si racconta a voce alta la sua storia facendo di sé il proprio unico ascoltatore.

L'unicità è una differenza assoluta. Tale differenza è del resto assoluta perché ogni essere umano è diverso da tutti quelli che vissero, che vivono e che vivranno, non perché essa sia sciolta da qualsiasi altro. Anzi, la relazione con l'altro è necessaria al suo stesso nominarsi come unicità. Alla luce di un'identità unica e irripetibile, irrimediabilmente esposta, l'altro è pertanto una presenza necessaria. Egli è chi consente l'evento stesso di un apparire dell'esistente che è sempre comparizione. Riconoscersi nell'altra è assai differente dal riconoscere l'unicità irrimediabile dell'altra. L'etica altruistica della relazione al contrario non sopporta empatie, identificazioni, confusioni. Essa vuole infatti un tu che sia veramente un altro nella sua unicità e distinzione. Per quanto tu sia simile, la tua storia non è mai la mia. Per quanto siano simili larghi tratti della nostra storia di vita, non mi riconosco in te. Non metabolizzo il tuo racconto per costruire il senso del mio.

Orfeo il poeta

In quanto simbolo della poesia d'amore, Orfeo inaugura l'ostinata tradizione che vuole nella donna amata una donna morta. In quanto è il poeta per eccellenza egli è però anche in grado di impersonare l'avversario diretto del filosofo per eccellenza, Platone. Il breve accenno che Hanna Arendt riserva al mito di Orfeo è da lei inserito in un'ampia riflessione dedicata proprio all'attività del pensare. L'argomento riguarda il fenomeno per cui il pensare ha sempre come oggetto degli invisibili. Il mito di Orfeo ha il merito di illustrare con efficacia ciò che avviene quando smettiamo di pensare e torniamo alla realtà del mondo: "ogni invisibile svanisce di nuovo". Chi pensa ha nella sua mente degli oggetti invisibili. Quando egli si rivolge di nuovo al mondo, queste immagini spariscono insieme al pensiero. Il mito del cruciale voltarsi funziona dunque assai bene. Euridice impersona il ruolo dell'invisibile, mentre Orfeo rappresenta il pensare. Come il pensiero, la narrazione ha a che fare con degli oggetti invisibili. L'immaginazione è comune a entrambi. Similmente a Omero, Tiresia, Orfeo non può vedere colei di cui narra. Egli, almeno simbolicamente, esperisce la cecità che è tipica del narratore. Altrettanto non si può dire della figura classica del filosofo, anche se egli condivide col poeta l'invisibilità dell'oggetto. Il filosofo più che cieco, è morto per il mondo e, per di più, si compiace di esserlo. Il filosofo non è mai cieco, anzi, vede più degli altri. Del tutto simili ai ciechi risultano semmai coloro che sono effettivamente sprovvisti della conoscenza di ciò che è. Il filosofo dunque rovescia sugli altri la metafora della cecità. La cecità dl poeta viene anche a sottolineare la necessità dell'irrelazione sulla scena narrativa. Non ci si stupisce allora che, in quanto definitiva sparizione dalla scena del mondo della persona narrata, la morte diventi un'immagine perfetta di tale irrelazione. Chi narra la storia di un morto, non la narra certo al suo protagonista. In questo ruolo della morte c'è un'allusione alla separatezza che tiene idealmente lontano chi viene narrato dal suo narratore.

La voce di Euridice

Il componimento di Rilke descrive una scena spettrale, sospesa fra il mondo dei vivi e quello dei morti, dove solo Orfeo e Hermes partecipano, con attenzione a quanto sta accadendo. Nulla sa invece Euridice dell'impresa di Orfeo che la precede sulla via del possibile ritorno fra i vivi. Ella, piena della propria morte, è ormai creatura del mondo sotterraneo , perfetta e indifferente. È figura sublime dell'assoluta irrelazione. Il dio Hermes che le cammina accanto guidandola nella risalita, non può invece fare a meno di manifestare la sua delusione quando Orfeo si volta. "Si è voltato", egli esclama con dolore. Ed è proprio in risposta a tale esclamazione che Euridice chiede "chi?". Il monosillabo segnala così la totale estraneità di Euridice a quanto intorno a lei sta accadendo. Il dio nella sua divina saggezza, non risponde. Il dramma appartiene infatti solo all'uomo e al dio. Euridice non sa chi le cammina davanti, anzi, non sa nemmeno che il suo cammino segue qualcuno. Lei sta nella sua assoluta solitudine senza alcuna relazione all'altro. Proprio per questo il dio non ha risposto al chi. Perché la risposta avesse un senso avrebbe dovuto far seguire al nome di Orfeo il racconto della sua storia. Euridice sta nel contesto narrativo senza però appartenervi: totalmente indifferente a una storia che non è più la sua storia. Ella non ha più un passato né un futuro e perciò non può avere alcuna storia. Non ha più una storia da raccontare o da ascoltare.

Eros e narrazione

Similmente alle amicizie femminili, l'amore è caratterizzato spesso da una spontanea reciprocità narrativa. Il chi non è una persona è sempre un tu. Non si ama infatti mai il che cos'è dell'amato, si ama invece chi egli è. Il giudizio sul che cosa dell'amato misura la sua impotenza di fronte all'apparirci del suo chi. C'è così una notevole sensatezza nel proverbiale "colpo di fulmine". L'espressione sta a significare che ci si può innamorare di qualcuno improvvisamente e al primo sguardo. Ci innamoriamo di chi traspare da quel corpo e da quel volto, che diventano belli perché sono il suo corpo e il suo volto. Come dice il proverbio l'amore è cieco: non perché esso si rivolga all'invisibile, ma perché è senza giudizio proprio rispetto a ciò che tutti gli altri vedono. L'infelicità dell'amore sta nell'amare senza essere amati. Proprio perché l'esposizione dell'unicità vuole la relazione, ossia vuole comparizione, l'amato che non riama è qui infatti il solo apparente. L'altra creatura, l'amante, rimane invece un'esistenza in apparente per mancanza di relazione; perché, per quanto si esponga, la sua unicità non appare a nessuno. Chi si esibisce senza apparire all'altro rimane paradossalmente un'unicità inespressa. Rimane un che cosa davanti a un chi. L'amore cattura gli amanti nella scena duale della loro relazione e li tiene fuori dal mondo. Il mondo, gli altri, non sono che lo sfondo di questa scena. È infatti proprio questo carattere esclusivo a distinguere nettamente l'amore dall'amicizia. L'amicizia non lascia fuori il mondo, lo abita nel quotidiano. Ma data la sua affinità con l'amicizia, l'amore ne condivide la pulsione narrativa. Per l'inconsolabile Orfeo ci piacerebbe che eros e narrazione fossero inseparabili. Il fatale "voltarsi" può sottilmente assumere un senso diverso. Egli si è voltato non solo per vederla e toccarla, ma anche per cantare questa storia proprio a lei. Si è voltato dunque Orfeo non per debolezza o malizia. La sua irresistenza al desiderio di voltarsi è il gesto di un amante che non può rinunciare all'amore in quanto scena di reciproca narrazione e comparizione.

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