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La realtà è prodotto della più angusta immaginazione. La fotografia come prova nelle scienze antropologiche

La realtà è prodotto della più angusta immaginazione.  La fotografia come prova nelle scienze antropologiche



Sin dal suo apparire, alla fotografia è stato attribuito, nel più ampio contesto sociale come in quello scientifico, un incontestabile carattere probatorio.
Si presuppone sempre che esiste o che sia esistito, scrive Susan Sontag, qualcosa che assomiglia a ciò che si vede nella foto. Quali che siano i limiti o le pretensioni del singolo fotografo, una fotografia sembra avere con la realtà visibile un rapporto più puro e quindi più preciso di altri oggetti mimetici. Il tratto veridico della fotografia affonda le sue radici al di là dei paradigmi positivisti propri dell'epoca in cui essa nacque e si sviluppò, nell'egemonia dello sguardo nel processo occidentale di costruzione della conoscenza. Si potrebbe risalire assai lontano nel tempo per rinvenirne le tracce.

Per fermarci all'epoca contemporanea basterà ricordare 2 autori: Maurice Merleau-Ponty e Ludwig Wittgenstein.

Il primo riteneva fondanti le relazioni tra visione e conoscenza e sottolineava come quest'ultima dipendesse da quella. Il mondo sensibile, egli scriveva, è più vecchio dell'universo del pensiero, poiché il primo è visibile e relativamente continuo, mentre il secondo è invisibile e lacunoso, a prima vista non costituisce un tutto e non ha la sua verità se nona condizione di appoggiarsi sulle strutture canoniche dell'altro. Se si ricostruisce il modo in cui le nostre esperienze dipendono le une dalle altre secondo il loro senso più proprio e se per mettere a nudo i rapporti essenziali di dipendenza, si tenta di romperli in pensiero, ci si accorge che tutto ciò che per noi si chiama pensiero esige quella distanza da sé, quell'apertura iniziale che per noi è rappresentata da un campo di visione.

Wittgeinstein invece inizia la sua riflessione sostenendo che “Io so” ha un significato primitivo a sua volta simile a quello di “io vedo” e imparentato con esso. Un'immagine del sapere sarebbe secondo lo studioso, la percezione di un processo esterno per mezzo di raggi visuali che lo proietterebbero così com'è nell'occhio e nella coscienza. Se lo sguardo possiede una salda egemonia nella costruzione della conoscenza, il progresso delle scienze moderne si caratterizzerà in modo particolare a partire dal 19° secolo per l'emergere del criterio d'osservazione diretta della realtà.

James Clifford
ha sottolineato come la fondazione di un'antropologia moderna corrisponda, in effetti, all'instaurarsi di una visione diretta delle cose attraverso l'ideologia dell'osservazione partecipante. In tale prospettiva, un mezzo quale la fotografia, che consente di vedere, e di prolungare la visione nello spazio e nel tempo, di dominare lo sguardo e di controllarne la natura fugace e automatica, di raffinare ed espandere l'area dell'osservazione diretta, come scriveva la Mead, viene eletto a strumento cardine di conoscenza, e di organizzazione sociale e culturale della conoscenza. Senza il bisogno di costruzione delle immagini e di lor manipolazione a fini politici, sia nel contesto della vita quotidiana che in quello dell'elaborazione scientifica, legato alla contraddittoria democratizzazione della società occidentale e ai processi di decolonizzazione, non avremmo avuto lo sviluppo della fotografia cui abbiamo assistito. La fotografia materializza il nesso intercorrente tra visione e conoscenza, ribadisce il primato della visione ma, contemporaneamente, sottrae quest'ultima all'ambito soggettivo in cui viene elaborata, trasformandola in documento inoppugnabile, dotato di significatività ed operatività sociale.

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