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Strategie dell'occhio. Metodo nella fotografia etnografica



L'etnografia e l'antropologia sono convenzionalmente basate sull'osservazione diretta della realtà: possiedono dunque uno statuto al cui interno le attività ideografiche, rappresentative e simboliche costituiscono momento privilegiato e un metodo largamente fondato sullo sguardo e sulla visione.
L'antropologia, scrive Affergan, inaugura la sua pratica e convalida le proprie ipotesi teoriche tramite la vista. Senza tecnica d'osservazione, senza strategia dell'occhio, senza prammatica della facoltà visiva, l'altro non può comparire ne divenire oggetto di conoscenza. Per via di tale paradigma oltre che per adesione ai criteri dominanti nell'epoca di sviluppo della fotografia e poi del cinema, l'etnografia e l'antropologia scoprono presto i nuovi mezzi e iniziano a servirsene con assiduità.
Malgrado l'incontro precoce e il fatto che la macchina fotografica, la cinepresa e la telecamera divengano via via parte integrante dell'armamentario etnografico, i risultati non saranno eccellenti. A parte alcune notevoli eccezioni, la fotografia svolge un ruolo marginale nelle ricerche ed è piattamente adoperata come appendice illustrativa quando queste divengono relazione, saggio o libro. Ciò dipende da molti motivi: dal pregiudizio, innanzitutto, per cui si considerava la fotografia come un mero strumento didascalico, inadatto per una disciplina che doveva dar conto del perchè e del come delle cose; dagli schemi positivisti poi che a lungo hanno frenato una speculazione riflessivamente orientata intorno ai mezzi di riproduzione visiva della realtà; dal carattere letterario umanisticamente connotato della cultura degli antropologi e dei demologi del nostro Paese.

Oggi certi limiti sembrano parzialmente superati, eppure molte incertezze e ritardi ancora si manifestano: il ricercatore non sa bene cosa fare della macchina da presa e soprattutto non bene come utilizzare i dati che da essa raccoglie, non distingue nettamente il valore del dato che proviene dalla fotocamera, rispetto a quello direttamente osservato. Possono venire in soccorso il sistematico lavoro speculativo degli psicologi della forma e della percezione, dei fenomenologi e dei semiologi, degli storici dell'arte, della fotografia e del cinema e la stessa attività concettuale e riflessiva di molti tra gli artisti contemporanei; sicchè possiamo disporre di un importante bagaglio teorico e di pratiche empiriche  che possono risultare utili nell'affrontare gli specifici problemi posti dall'attività etnografica e dalla riflessione antropologica.

• Ma che cos'è una fotografia per lo studioso che la esegue e la adopera nell'ambito di un processo euristico?
È un documento legati all'osservazione diretta della realtà, prodotto per il tramite di un apparati tecnologico e secondo peculiari codici semiotici su cui poggiare un'attività ermeneutica. È dunque uno degli strumenti da impiegare per un'etnografia di base del fenomeno culturale o sociale indagato. Lo studioso può eseguire o semplicemente adoperare un fotografia: occorre dunque considerare due diversi quadri analitici: quello archivistico e quello creativo.
Nel primo l'etnografo e l'antropologo adoperano per le loro ricerche fotografie d'archivio: immagini dunque realizzate da altri spesso in epoche diverse dallo loro, di volta in volta munite di una differente aderenza rispetto all'oggetto indagato e di un differente corredo filologico e critico.
Lo studioso si trova con ciò di fronte a documenti di storia moderna e contemporanea, rispetto ai quelli occorrono tutte le cautele metodologiche che si raccomandano per questo tipo di fonti, ma anche qualche cautela in più. Si tratta infatti di tracce di un evento ma di tracce addomesticate attraverso un processo interpretativo.
Accettando l'indicalità della fotografia ottica si può desumere dal documento fotografico innanzitutto che l'evento è effettivamente avvenuto, poi, secondo il noto assunto di Barthes, che l'autore era là. Ne l'una ne l'altra di tali cose sono sicure quando un ricercatore si trova di fronte a un documento scritto. Malgrado il campo di relative certezze schiuso dal documento fotografico occorre ricordare come esse di per se abbia una polivalenza significativa, potenzialmente ingannevole, poiché pilota verso il senso comune e verso il regime di mera apparenza delle cose. Occorre dunque muoversi con cautela al cospetto della fonte fotografica per via delle sue qualità intrinseche e l'intrinseca ambiguità. Occorre costruire una metodologia non ingenua di intervento che possa aver ragione del carattere particolare della testimonianza  iconografica. Ancor più complesso diviene il discorso quando si affronta lo scenario creativo:  quando cioè l'etnologo e l'antropologo usano la macchina fotografica per documentare da se, nell'ambito del proprio peculiare processo conoscitivo, una determinata realtà. In questo caso siamo in presenza di documento particolare, in cui pratica della creazione e dell'uso strettamente e ambiguamente s'intrecciano. Questo resoconto è costruito con la macchina fotografica, mezzo particolare che non registra continuamente la realtà, ma in modo discontinuo e discrezionale. Possiamo considerare dunque una fotografia una descrizione di una cosa, di una persona, di uno scenario o di un evento. Una descrizione come sostiene Geertz, densa, di una densità in cui resta impigliate le particolari determinazioni consce dell'autore e dell'oggetto referente, quelle inconsce del mezzo tecnologico e del campo di interazione proprio della situazione antropologica e della pratica della rappresentazione. Tale descrizione indubbiamente un potere indicale. La fotografia, scrive Eco, nei possibili sistemi segnici, mantiene nonostante tutto una capacità indicale. Un indice è un segno che non è ne arbitrario, ne pienamente convenzionale e mantiene con l'oggetto a cui si riferisce un rapporto dichiarato di causa ed effetto. È una traccia, in assenza dell'oggetto ci dice che lì dove ora c'è il segno era esistito un oggetto come sorgente di “raggi luminosi” per dirla alla Eco. La fotografia è una descrizione densa che porge un documento ibrido e che conserva tuttavia un elevato potere di testimonianza rispetto a un reale con cui ha avuto contatto.

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