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Il crollo dell'Argentina

L'Argentina uscì dalla dittatura indebitata e chiusa in un sistema di governante corporativa, autoritaria e corrotta. Nel '91 il peronista Menem si accinse a liberalizzare l'economia, la disoccupazione crebbe e i salari diminuirono. Nel '95 il sistema fu contagiato dalla crisi "tequila", il paese entrò in una profonda recessione e la disoccupazione schizzò al 18%. Seguì una breve ripresa basata sugli afflussi di capitale straniero, fino a quando, contagiato dalla crisi asiatica del '97, il peso argentino subì una pressione insostenibile. I capitali stranieri e nazionali si dileguarono. Il debito si raddoppiò e le riserve di valuta estera scomparivano. Nel 2001 il sistema bancario argentino perse il 17% dei suoi depositi e il FMI si rifiutò di concedere un prestito d'emergenza. Il governo limitò i prelievi bancari a 250 $ a settimana. Il presidente della RUA rassegnò le dimissioni. Nel 2002 il nuovo presidente Duhalde, abbandonato il sistema che ancorava il peso al dollaro, svalutò il peso e decise di congelare i conti di risparmio superiori ai 3000$ e di trattare i depositi in dollari come se fossero i pesos, riducendo così i risparmi a 1/3 del loro precedente valore. I risparmi erano stati trasferiti dai risparmiatori alle banche e da queste ad un'èlite economica. Le agitazioni arrivarono al blocco dei trasporti. Il presidente populista Kirchner si ribellò in parte al FMI. La deflazione confiscatoria è stata interpretata dalle sue vittime come una rapina bancaria compiuta dalle èlite politiche.

Tratto da BREVE STORIA DEL NEOLIBERISMO di Giulia Dakli
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