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Ricongiungimenti familiari

Ricongiungimenti familiari 

Il fenomeno della riunificazione di un immigrato o di un rifugiato politico con un familiare proveniente dall’estero.
Al fine di poter chiedere il ricongiungimento familiare, la legge italiana prevede che il lavoratore immigrato residente disponga di un permesso di soggiorno in corso valido e deve dimostrare di poter garantire a se stesso e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa (=sufficienza del reddito percepito, pari 2 volte l’importo dell’assegno sociale, e disponibilità di alloggio idoneo). Al cittadino di Stato non appartenente all’UE è richiesto il possesso di un permesso di soggiorno di almeno 2 anni, l’essere entrato regolarmente in Italia da almeno 1 anno e non essere ivi residente con un prossimo congiunto.
La richiesta del visto d’ingresso in Italia per il familiare all’estero deve essere presentata alla Questura della provincia di residenza che, dopo i necessari controlli, trasmette l’istanza al Ministero dell’Interno, il quale comunica la propria autorizzazione al rilascio del visto al Ministero degli Esteri. Questo trasmette l’autorizzazione alla Rappresentanza diplomatico-consolare italiana nel paese di residenza del familiare.
L’eventuale diniego al ricongiungimento familiare è impugnabile dinnanzi al Tribunale amministrativo regionale competente per territorio.

I massicci spostamenti di manodopera che, a partire dalla prima metà degli anni ’50, alimentarono il boom industriale europeo, furono in massima parte preceduti da negoziati e accordi bilaterali, in un contesto di aperta competizione tra i paesi richiedenti, con lo scopo di procacciarsi gli immigrati “migliori”. Ma l’obiettivo di contrattare, pianificare dettagliatamente e poi regolare movimenti di popolazione di ampie proporzioni si rivelò ben presto illusorio.
ESEMPI: la farraginosità delle procedure in Francia favorì l’aggiramento del percorso ufficiale con gli ingressi regolari, che la legislazione francese dell’epoca consentiva di regolarizzare ex-post – l’economia nazionale tedesca aveva un bisogno acuto di lavoratori, ma la società tedesca non intendeva aprirsi a nuovi membri.

Tuttavia, fu la crisi petrolifera del 1973-74 a far esplodere la contraddizione di una immigrazione “wanted but not welcome”: fu uno shock non solo perché pose drasticamente fine ad un periodo di crescita economica senza precedenti, ma anche perché richiamò bruscamente l’Europa alla consapevolezza della propria vulnerabilità a fattori di rischio esterni.
Gli stati del continenti reagirono al colpo in ordine sparso e la prima reazione fu la chiusura. La decisione di chiudere le frontiere si rivelò contagiosa, perché ciascun paese importatore di manodopera temette, nel caso in cui non si fosse adeguato rapidamente, di diventare una meta di ripiego per i flussi respinti dai vicini.
NB: nonostante il suo carattere improvviso, sarebbe sbagliato caratterizzare la svolta restrittiva come una sorpresa assolta: negli anni immediatamente precedenti alla crisi, in tutti i principali paesi reclutatori di manodopera, la temperatura politica intorno alla “questione immigrazione” si era sensibilmente alzata. Un esempio estremo è fornito dall’andamento delle relazioni franco-algerine in quegli anni: nell’estate del 1973 in diverse città francesi si erano verificati scontri e aggressioni a sfondo razzista contro lavoratori immigrati.

La chiusura di alcuni dei più importanti sbocchi tradizionali indirizzò la pressione migratoria altrove, contribuendo in misura significativa alla trasformazione dei paesi dell’Europa meridionale in mete emergenti. Nel contempo, l’impennata delle rendite petrolifere generò una domanda di immigrazione inedita e impetuosa nei paesi del Golfo, dove tuttora una quota maggioritaria della forza lavoro totale è rappresentata da stranieri.
Le politiche di blocco produssero contraccolpi strutturali anche all’interno dei paesi europei: contrariamente a quanto alcuni avevano incautamente promesso e altri ingenuamente creduto, i flussi non si arrestarono, ma mutarono profondamente natura e composizione. Il primo e forse più importante effetto collaterale imprevisto del blocco degli ingressi per lavoro riguardò l’immigrazione familiare: in un contesto restrittivo, l’imposizione di una scelta definitiva tra ritorno e insediamento può tradursi in un forte incentivo a ricomporre all’estero la famiglia.
La sospensione degli ingressi per lavoro contribuì indirettamente ad alimentare i canali dell’immigrazione clandestina (=l’attraversamento non autorizzato della frontiera dello stato di destinazione) e irregolare (=permanenza non autorizzata nello stato allo scadere di un periodo di soggiorno regolare). NB: fu solo nel corso degli anni ’90 che il potenziamento e il perfezionamento dei sistemi di controllo, rendendo sempre più difficile e rischiosa l’immigrazione clandestina “autogestita”, promossero di fatto lo sviluppo di un mercato vasto e articolato di servizi specializzati, erogati da trafficanti professionisti. Lo sviluppo dei sistemi di controllo ha generato la necessità e la domanda di servizi illegali, creando così un nuovo mercato illecito e inducendo un processo di progressiva professionalizzazione dei soggetti criminali che vi operano. I prezzi del servizio aumentano al crescere della distanza e della difficoltà, mentre a parità di tragitto i prezzi aumentano quando la pressione degli apparati di contrasto si rafforza.
Come ultimo effetto imprevisto delle politiche di blocco, ci fu quello di sottoporre a sollecitazioni crescenti gli apparati nazionali preposti all’esame delle domande di asilo: questo avvenne perché al chiudersi di un canale tradizionale di emigrazione la pressione si indirizzò sugli sbocchi legali rimasti. Fino a quel momento, infatti, degli spazi autorizzati di migrazione lavorativa si erano avvalsi anche individui perseguitati o in fuga da regimi oppressivi, da guerre o da violazioni massicce dei diritti umani la richiesta formale dello status di rifugiato è diventata l’unica via praticabile per ogni straniero bisognoso di protezione internazionale
La peculiarità della risposta europea alle migrazioni degli ultimi 30 anni (chiusura e integrazione) appare in tutta la sua evidenza nel confronto con l’esperienza statunitense. La politica migratoria degli USA, infatti, è rimasta ancorata a 2 principi: apertura a nuovi ingressi, sulla base di un complesso sistema di quote annuali, e sostanziale assenza di intervento pubblico mirato, per favorire l’integrazione dei nuovi arrivati.

Il terremoto geopolitico iniziato nel 1989 complicò ulteriormente le cose: la Cortina di ferro era stata anche un formidabile strumento di contenimento migratorio il suo crollo scatenò psicosi collettive e reazioni a catena. L’impatto migratorio di queste crisi ha concorso ad aggravare il deficit di credibilità e di legittimità, che ormai da anni indeboliva le politiche degli Stati europei in materia migratoria. In questo clima, i migranti hanno rappresentato il catalizzatore ideale delle ansie di un intero continente → la caduta dello scià e l’instaurazione di un regime islamico integralista in Iran, nel 1979, inaugurarono un decennio decisivo per la storia della mentalità occidentale, durante il quale l’Islam si era progressivamente configurato come una minaccia. Nel corso degli anni ’90, l’ondata di islamofobia sembrò recedere dal continente, ma le matrici profonde della xenofobia europea non svaniscono facilmente: possono ricadere temporaneamente nell’ombra, per poi essere risvegliate da fattori contingenti → così è stato con l’11 settembre 2001
È utile chiedersi se gli eventi dell’11 settembre 2001 non abbiano influenzato, nella sostanza, le politiche europee in materia migratoria: un impatto c’è sicuramente stato, ma questo non significa che gli stati europei si siano piegati a discriminazioni dirette ed esplicite verso determinate categorie di migranti. Significa, invece, che il clima di emergenza ha contribuito a un drastico e talvolta indiscriminato potenziamento dei controlli migratori lungo le frontiere europee.

L’avversione per l’immigrazione e per gli immigrati è, dunque, nel contempo, uno stato d’animo collettivo e una linea politica: si può persino sostenere che, in uno scenario post-ideologico, le campagne anti-immigrati abbiano rappresentato uno dei maggiori fattori di dinamismo della politica europea.
La sorveglianza sistematica delle frontiere come parte della politica dell’immigrazione è un connotato specifico dell’età contemporanea: nei primi secoli della loro esistenza, infatti, gli Stati moderni non erano dotati di apparati stabili di controllo dei confini, se non per scopi militari. In materia migratoria, infatti, il problema politico centrale, in tutta Europa, era opposto a quello attuale: non si trattava, cioè, di regolare i flussi in entrata sul territorio nazionale, bensì di impedire o limitare i movimenti in uscita → per delle entità politiche di nascita recente e in strenua competizione tra loro, infatti, l’ampiezza della popolazione costituiva un decisivo fattore di potenza.
Per le élite di tutti i maggiori paesi di origine l’accettazione dell’emigrazione come necessità economica e politica non è stata una scelta indolore: essa equivaleva, infatti, a riconoscere il proprio fallimento o i propri ritardi nel generare lo sviluppo autonomo promesso per evitare una simile ammissione, molti governi di paesi di emigrazione hanno elaborato un discorso fortemente ambiguo, in cui gli emigranti vengono di volta in volta trattati con paternalistica compassione e con riprovazione. Questa ambiguità di fondo nell’atteggiamento dei paesi di origine risalta con particolare evidenza quando si tratta dell’integrazione dei migranti nella società di arrivo.
Se l’integrazione dell’emigrante è spesso considerata con sospetto dalle autorità dei paesi di origine, la scelta di naturalizzarsi (= acquistare la cittadinanza dello stato di residenza) è stata a lungo vista sotto una luce apertamente e fortemente negativa.
ESEMPIO: fino al 1992, l’emigrante italiano che sceglieva la cittadinanza statunitense o brasiliana veniva sanzionato con la privazione della cittadinanza italiana.

Insieme a una crescita quantitativa, i sistemi di controllo migratorio dei maggiori paesi occidentali hanno conosciuto, negli ultimi decenni, profonde trasformazioni qualitative. Nel caso dell’Europa, questa evoluzione si può ricondurre a 2 tendenze fondamentali:
1. si è sviluppato un processo di integrazione tra i sistemi di controllo nazionali e si dibatte attualmente l’opportunità di creare una guardia di frontiera europea che rappresenterebbe anche un modo di condividere i costi legati alla sorveglianza dei confini
2. esternalizzazione: siccome fermare i flussi clandestini all’arrivo è costoso e rischioso, conviene intervenire a monte, impedendo che il viaggio inizi. Tuttavia, l’esternalizzazione conduce a delegare funzioni pubbliche delicate (diritto d’asilo, diritto all’unità familiare) a soggetti privati, come le compagnie di trasporto, o ai funzionari di regimi magari poco democratici, solitamente mal retribuiti e quindi particolarmente esposti alla corruzione.

L’emigrazione e l’integrazione sono dinamiche potenti, che è difficile arginare con metodi repressivi. Così come il “divieto di emigrare” ha raramente conseguito i suoi scopi, anche i “divieti di integrarsi” tendono ad essere controproducenti, innescando semmai la spinta opposta è proprio questa consapevolezza che, in anni recenti, ha spinto grandi paesi di emigrazione come il Messico e la Turchia a cambiare radicalmente strategia, piegandosi ad accettare la doppia cittadinanza e cercando di costruire con le proprie comunità emigrate rapporti basati sul dialogo e sulla convenienza reciproca.
Come italiani, dovremmo essere particolarmente sensibili alla serietà del problema degli emigrati. Tra i paesi economicamente più avanzati, infatti, il nostro è uno di quelli che proporzionalmente soffre di un drenaggio di risorse umane più pesante se l’Italia, tra i grandi paesi europei, è quello che respinge il maggior numero di laureati (già pochi, in assoluto), è anche il paese con la più bassa percentuale di stranieri sul totale dei laureati presenti nel mercato del lavoro nazionale.

L’emigrazione è anche una perdita individuale, per coloro che partono così come per quelli che restano: rinunce e sofferenze sono un prezzo che tutti i migranti pagano, non solo i più marginali, ma anche i benestanti. La scelta migratoria ha sempre 2 facce:
1. speranzosa ricerca di un “meglio” che non si conosce
2. dolorosa fuga da un “peggio” a cui si appartiene.
Bisogna infine ricordare che dell’emigrazione soffre anche chi rimane. Questo è particolarmente vero in un’epoca, come quella presente, di forte femminilizzazione delle migrazioni: l’ingresso massiccio delle donne nei circuiti migratori internazionali ha ricadute profonde sull’organizzazione sociale nei paesi d’origine. Spesso la distanza geografica e lo status irregolare del genitore migrante impediscono ritorni frequenti a casa i figli ne risentono. Tuttavia, il ritorno ad un proibizionismo migratorio, questa volta basato su una discriminazione di genere, eliminerebbe quella che per milioni di donne nel mondo è l’unica via possibile di emancipazione.

Tratto da GEOGRAFIA POLITICA ED ECONOMICA di Elisa Bertacin
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