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La filosofia come base del pensiero politico




Il bisogno di sapere la verità oggettiva su tanti fatti di questo genere non avrebbe senso se non fosse ispirato alla necessità di rendere giustizia, dunque di far valere non l’oggettività come tale, ma il diritto dei tanti che hanno sofferto e soffrono tuttora, e lo stesso diritto della comunità ad affermarsi come un luogo di convivenza civile, di vera e propria amicizia politica. La libertà di tutti non ha bisogno della verità-corrispondenza se non come mezzo per realizzare sempre meglio la comprensione reciproca, quel regno dello spirito nel quale, come diceva Hegel, l’umanità si potrà un giorno sentire presso di sé, a casa propria.
E la filosofia in tutto questo dove è?
Da un lato, la filosofia intesa come funzione sovrana dei sapienti nel governo della polis è morta e sepolta. Dall’altro, suggerisce il titolo della conferenza di Heidegger che parla di un compito del pensiero dopo la fine della filosofia-democratica, resta il problema, specificamente democratico, di evitare che all’autorità del re-filosofo si sostituisca il potere incontrollato dei tecnici dei vari settori della vita sociale. C’è il rischio di costruire una società schizofrenica, dove prima o poi si instaura un nuovo potere supremo, quello dei medici, degli infermieri, delle camicie di forza e dei letti di contenzione.
Il compito del pensiero in questa situazione – sia che ci richiamino a Heidegger sia a Marx, forse non a Popper – è quello di pensare ciò che resta necessario nella quotidiana presentazione di ciò che accade sempre; e cioè, per Marx, la concretezza dialettica dei nessi che l’ideologia ci nasconde; per Heidegger, la verità come alètheia (verità in greco si dice alètheia ed è una verità come svelamento), come apertura di un orizzonte (o di un paradigma) che rende possibile ogni verità intesa come conformità delle cose, verifica o falsificazione di proposizioni. Ma è possibile parlare dell’alètheia nascosta a cui allude Heidegger come se fosse la concretezza dei rapporti economico-sociali di Marx? O meglio, il compito del pensiero dopo la fine della filosofia, quando i filosofi non pensano più di avere un accesso privilegiato alle idee e alle essenze, che li metterebbe in condizione di governare o dare nome al sovrano, come si configura? Ma nell’epoca della fine della metafisica, non possiamo più cercare, come ha fatto Heidegger, l’evento dell’essere in quei momenti privilegiati a cui lui ha sempre rivolto la propria attenzione: le grandi opere poetiche, il detto di Anassimandro, il poema di Parmenide o i versi di Hölderlin. Nell’età della democrazia, l’evento dell’essere a cui il pensiero deve volgere la propria attenzione è forse qualcosa di molto più ampio e meno definito, forse più vicino alla politica. Può aiutarci a pensarlo solo un’espressione dell’ultimo Foucault, ovvero Ontologia dell’attualità. Foucault opponeva questo modo storico di filosofare a quella che chiama analitica della verità. Ontologia riprende il pensiero dell’essere in senso oggettivo e soggettivo. Attualità perché si riferisce alla condizione comune della nostra vita attuale.
Oggi nella nostra attualità non solo filosofica ma anche storico-sociale, occorra andare oltre la fenomenologia verso un’ontologia dell’attualità.
Per cui è necessario superare la metafisica, non perché non includa il soggetto della teoria e sia quindi incompleta, ma perché con il suo oggettivismo legittima un ordine storico e sociale in cui la libertà e l’originalità dell’esistenza umana vengano cancellate.

Tratto da LE CORRENTI DI PENSIERO CONTEMPORANEE di Gabriella Galbiati
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