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I modi stilnovistici di Così nel mio parlar vogli'esser aspro - Dante

I modi stilnovistici di Così nel mio parlar vogli'esser aspro - Dante

La canzone si oppone in ogni ambito ai modi stilnovistici. Il lessico ospita solo parole rare o attinte ad una realtà concreta che nel caso dell'orso che scherza diventa quasi basso – comica; le parole significativamente si ritroveranno con una certa frequenza nell'Inferno (impietrare, denti, manduca, bruca, guizzo, scherana, latra, borro, scudiscio, ferza). La donna acquista tratti fisici, addirittura erogeni: biondi capelli increspati, belle trecce simili a fruste; l'ossessione erotica non è sublimata attraverso stati d'animo ma attraverso vere e proprie azioni (vv. 6, 11, 14, 20, 31, 35). Il lessico della descrizione delle pene d'amore è il medesimo dell'amore tragico di Cavalcanti e delle sue battaglie: colpo, fiede, strida; stavolta però il lessico è gravato di sovraccarichi espressivi, per i quali, ad esempio, lo stilizzato ferire si concretizza brutalmente nel mangiare coi denti d'Amore e poi nel brucare, e si drammatizza in fendere e squatrare; la donna diviene addirittura una scherana micidiale e atra. Un'altra differenza tra il Dante stilnovista e il Dante delle petrose è la ricchezza metaforica delle seconde rispetto al linguaggio rarefatto ed essenziale della Vita Nuova. Nel componimento sono frequentissime le metafore continuate o riprese, i movimenti che dall'astratto psichico e sentimentale scendono continuamente al concreto e al terrestre, contaminandosi reciprocamente come mai la condizione psicologica del Dante della Vita nuova avrebbe potuto e voluto. Ecco allora la lima, il manducare, la virtù che bruca il pensiero, il cuore squartato, le strida emesse dalla mente e il caldo burrone. La donna stessa è una metafora concretissima, glittica.
Dato che la realtà assume comunque le vesti della metafora, lo spazio entro cui si muove la canzone non è più reale delle rime stilnoviste. Il paesaggio è puramente mentale eppure è popolato di immagini reificazioni del pensiero e delle emozioni del poeta, quelle che nel Novecento saranno chiamate correlativi oggettivi. La novità delle petrose di Dante, quindi, non sta solo nell'ostentata asprezza dello stile ma anche nella capacità di svolgere un'ossessione in un discorso, di catturare, sia pure come correlati psichici, tanti frammenti inediti di realtà.
Un paragone con La forte e nova mia disaventura di Cavalcanti può essere utile per cogliere sino in fondo l'importanza di questo componimento. Se entrambe rappresentano in qualche maniera il martellamento di un'ossessione il componimento di Dante si apre anche ad uno sviluppo interno. Le stanze si susseguono secondo una progressione logica, rivelata dalla frequenza delle consecutive e dalla complessità stessa del periodare. A differenza di Cavalcanti, Dante riduce al minimo le ripetizioni verbali, lasciando invece ampio spazio alle sinonimie: manduca – bruca, disteso – riverso, grido – strida – latra – griderei. Il legame tra stanza e stanza è la pista di lancio della progressione ma Dante la realizza non fermandosi alla ripresa verbale bensì variando e distanziandosi dall'immagine di parteza, come se il discorso ripartisse da zero e contemporaneamente nascondesse qualche potenzialità di sviluppo mai portata effettivamente a compimento. Cavalcanti è come trincerato dietro un linguaggio essenziale e chiuso mentre Dante elegge a propria insegna il mutamento, cercando e plasmando il linguaggio.

Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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