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Lo sguardo dell'etnologo. Ernesto de Martino, l'etnografia e l'etnografia visiva



Ernesto de Martino viene considerato il fondatore dell'etnografia italiana.
Egli fu indubbiamente un innovatore e promotore in questo campo, l'etnografia visiva demartiniana si radica nel bel mezzo di una pratica etnografica di ampio spessore, che costituì un fatto nuovo all'interno del contesto disciplinare italiano, così come si presentava dopo anni di ricerca demologica e di etnologia fascista.
Lo studioso fu il primo a praticare in Italia, direttamente e in una prospettiva pluridisciplinare, un'etnografia di terreno, secondo un modello originale, conforme tuttavia ad alcune regole basilari della disciplina. Lavorò nel Mezzogiorno continentale per un decennio dal '49 al '59 circa concentrando la propria attenzione su Tricarico, prima in modo relativamente sistematico, su ampie aree della Lucania, poi su alcuni paesi del Salento e sulla cappella di San Paolo a Galatina, infine.
Nello stesso lasso di tempo compì escursioni anche in altre zone della Puglia e in alcuni centri della Calabria, lavorandovi però in modo sporadico e con intenti prevalentemente comparativi, rispetto al materia raccolto nei luoghi elettivi della sua ricerca, mentre negli ultimi anni di vita compì sopralluoghi in Sardegna.

Il fieldwork demartiniano, che si caratterizza peraltro per una altissima capacità d'intuizione e di messa in relazione e per una rigorosa attenzione filologica, postula soggiorni brevi, reiterati, spezzettati, inframmezzati da molte incombenze, accademiche, scientifiche, culturali, politiche, personali; il massiccio ricorso a informatori di parte, e di parte politica, spesso non diretti protagonisti delle vicende. Su un altro versante l'inchiesta etnografica demartiniana si connota per la sua dimensione collettiva e pluridisciplinare, per l'impiego dei mezzi audiovisivi ai fini della raccolta dei dati, per l'intersezione di logiche ed elementi del tutto estranei alla specifica situazione di ricerca (tecnici RAI e raccolta di canti popolari nell'ambito dell'indagine sul lutto e il cordoglio ad esempio), per il frequente ricorso a ricostruzioni artificiali delle situazioni indagate. Anche la formazione dell'equipe di ricerca, che de Martino pioneristicamente promosse, rispondeva più alla regola del caso piuttosto che a un organico e sistematico criterio di rilevazione; l'assistente sociale e lo psichiatra così vi erano inclusi, lo storico o il sociologo no. Sembrerebbe un anti-manuale, spregiudicato, trasgressivo, della disciplina. Niente distanziamento, estraniazione, immersione, niente imparzialità, tensione verso l'oggettività, sistematicità, continuità. Malgrado egli fosse, poi, deontologicamente ineccepibile, all'interno del set etnografico potevano insistere presenze estranee, oggetti estranianti, pratiche ibride. Quanto appena esposto, è frutto di una precisa idea della disciplina e del lavoro di ricerca a essa connesso: il criterio antropologico della presa di distanza, dell'alterità rispetto a quanto si osserva e si studia, era da de Martino considerato implausibile oltre che eticamente e politicamente doloroso; egli studiava un mondo di cui si sentiva parte, pur se parte socialmente privilegiata, e considerava la distanza che lo separava dai braccianti di Tricarico o dalla tarantate di Galatina segno di una divaricazione storica inaccettabile, piuttosto che concreta occasione di conoscenza e verifica. Poetiche e politiche della ricerca demartiniana portavano dunque verso la confusione e l'identificazione di soggetti e oggetti, verso il superamente della divaricazione esistente fra chi fa e scrive la storia e chi la subisce e se ne propone come vivente documento

Parte cospicua dell'etnografia demartiniana, è audiovisiva, poggia sulle registrazioni audiomagnetiche, sul film e soprattutto sulla fotografia. Per soffermarsi sinteticamente sul contesti visivo de Martino operò nelle sue ricerche nel Mezzogiorno italiano con Zavattini, Pinna e Gilardi. Ma si servì pure delle immagini di Andrè Martin che lo introdussero tra l'altro all'approccio del tarantismo, ed ebbe contatti soprattutto negli anni 50 con Cagnetta, il quale ha prodotto un'estesa  documentazione, quasi del tutto inedita, e poi con Carpitella anch'egli uso a servirsi della macchina fotografica come taccuino di appunti.
La notevole messe documentaria raccolta, non fu conservata dall'etnologo ma presso i collaboratori o gli enti finanziatori delle campagne. Così per avere un quadro attendibile della raccolta di de Martino bisogna considerare quanto è presente oltre che nel suo archivio anche in quelli degli studiosi sopra citati, con  l'aggiunta di Annabella Rossi, all'accademia di Santa Ceciclia, alla cineteca nazionale e al museo nazionale di arti e tradizioni popolari.

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